Leila/Capitolo XII
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CAPITOLO DUODECIMO.
Intorno a un'anima.
I.
L’ufficio per l’anima del povero signor Marcello doveva cominciare alle dieci. Donna Fedele non era in grado di recarvisi. Aveva scritto a Camin pregando che Lelia le fosse lasciata fino all’indomani. Siccome la formica buona di Santhià si era annunciata solamente per l’indomani, Lelia non aveva voluto saperne di partire dal villino prima del suo arrivo. Nessuna risposta era venuta dalla Montanina. Lelia partì per Velo a piedi, colla cameriera, verso le nove e mezzo.
Sollecitata con insistenza a prender posto accanto a suo padre sulla panca ricoperta di un drappo nero, rifiutò. Si collocò presso la porta maggiore, per essere pronta a uscire appena terminate le esequie. Ma, prima ancora che incominciassero, le si avvicinò, rossa e sorridente, la cognata dell’arciprete, la pregò, con dolce mansuetudine, di recarsi, dopo la funzione, in canonica perchè don Emanuele aveva necessità di parlarle. Fatta l’ambasciata, si ritirò senz’altro. Lelia, assorta in un solo pensiero, indifferente a ciò che avrebbe potuto dirle don Emanuele, neppure si meravigliò della richiesta. Avrebbe fatto volontieri a meno di andare, sia perchè i due preti di Velo le erano diventati odiosi, sia perchè era avida di star sola col suo pensiero dominante. Ma, prevedendo altre istanze, altre noie, credette bene di rassegnarsi per essere poi lasciata in pace. Uscì di chiesa quando vide suo padre movere verso di lei per presentarle Molesin che già si atteggiava a un saluto compunto. La siora Bettina la raggiunse fuori della chiesa, la introdusse nella canonica con uno zelo di officiosità e di sorrisi untuosetti, che le costava sforzi e pene incredibili, accettati a onore e gloria di don Emanuele. Siccome l’arciprete e il cappellano erano ancora in chiesa, dovette pensare anche a intrattenere la signorina. Le parlò del decoro col quale si erano celebrate le esequie, della dignitosa gravità, della edificante compunzione di don Emanuele nella pratica dei riti, esaltandolo anche sopra il proprio cognato «un santo, ma alla buona». Poi lo esaltò come conoscitore, malgrado l’età giovanile, e direttore di anime, al quale ogni coscienza avrebbe potuto tranquillamente affidarsi. Paragonò, con trepide riserve, suo cognato al curato d’Ars e don Emanuele a Sant’Alfonso. Lelia non intese una sola di tante parole. Guardava l’uscio attendendo che questo benedetto prete finalmente comparisse e si sbrigasse. Era stato il suo confessore. L’aveva confessata due o tre volte e quindi pregata di confessarsi dall’arciprete, allegando un pretesto, il probabile dispiacere del Superiore ch’ella non lo preferisse come sarebbe stato naturale. A lei, usa dal collegio fare confessioni puramente formali, senza partecipazione dell’anima, era indifferente confessarsi all’uno o all’altro.
Finalmente, quando anche la povera siora Bettina, a corto di chiacchiere, cominciò a guardare l’uscio, questo si aperse, comparve l’allampanata figura nera del cappellano. Colei sorrise a Lelia un «complimenti» e si alzò.
Don Emanuele veniva al colloquio coll’onesto proposito di servire alla gloria di Dio e alla salute di un’anima. Il suo volto grave, i misurati moti della persona spiravano tale coscienza di autorità che a osservatori ostili poteva parere orgoglio. L’orgoglio è veleno tanto sottile, tanto potente a insinuarsi e dissimularsi nei minimi filamenti del cervello umano, che don Emanuele si potè ingannare giudicando di esserne scevro, di considerarsi l’umile servo cui la divisa e il mandato del Signore conferiscono potere, diritto al rispetto, dovere di esigerlo. Non si accorgeva di compiacersi del potere immenso della collettività cui apparteneva, dei tanti e tanti che colla stessa sua veste, per la virtù dello stesso sacramento a lui largito, governano in ogni parte del mondo quell’elemento superiore dell’uomo sul quale non hanno potestà nè principi nè governi, nè armi nè catene. Non si accorgeva di compiacersi di ciò che altri migliori ministri della Chiesa fa umili, non soltanto davanti a Dio ma pure davanti agli uomini. Mentre quelli usano del potere sacerdotale con trepidazione e cautela, egli era inclinato, per questa sua compiacenza, a usarne senza misura. Come il servo arrogante a fronte di umili dipendenti del padrone facilmente usurpa l’autorità del padrone stesso, facilmente presume interpretarne la volontà, così troppo facilmente don Emanuele si persuadeva d’interpretare la Volontà Divina anche quando interveniva con ordini e consigli nel campo lasciato alla libertà dei fedeli. Il suo sottile orgoglio s’infiltrava dentro queste mistiche guaine, tanto più inconscio di sè quanto più l’uomo era solito umiliarsi nella preghiera in cospetto dei Santi, della Vergine, di Cristo. Fiero nello spirito contro la propria carne, non lo dominava senza conflitti asprissimi. Altri ne diventa mansueto ai vinti. Tale era il bonario, ilare arciprete. Invece don Emanuele, vincitore di sè con tristezza e non con gioia, aveva in dispregio i vinti e ogni debole. Era un dispregio astioso nel quale la carne soggiogata pigliava la propria rivincita macchiando lo spirito, a insaputa sua, d’invidia verso i gaudenti.
Si era scusato di confessare più oltre Lelia perchè il lieve profumo di essenza di rose ch’ell’aveva portato nel confessionale lo turbava, lo irritava paurosamente. L’aveva rimproverata fin dalla prima volta: «non venga a confessarsi con profumi!» Ella non capì o dimenticò. Ritornatavi, si udì consigliar l’arciprete per confessore. Alle narici contadine dell’arciprete l’essenza di rose non avrebbe detto che rose, don Emanuele n’era sicuro; mentre alle aristocratiche sue diceva rose vive, arte ordinata, lo sapesse chi l’usava o no, a blandire e movere il senso. Confessando la fanciulla fine, dall’odor di rosa, egli l’aveva involontariamente pensata, con certe acredini di quel tale astio, reclusa per sempre in un monastero, tolta all’amore, tolta al piacere altrui. Ora, se gli fosse capitato di negoziare per essa un matrimonio conforme alle proprie idee religiose, lo avrebbe fatto; senza letizia, ma con tutta coscienza. Era invece accaduto che la fanciulla venisse nel disperato proposito di uccidersi. Le sue informazioni gli facevano supporre che avesse desiderato sottrarsi così alla convivenza col padre, vizioso e spregevole, che l’aveva venduta. Da questa supposizione gli balenò l’idea del chiostro. Toglierla alla perniciosa influenza della Vayla, levar via, servendosi di lei, lo scandalo della Gorlago, approfittare del suo isolamento alla Montanina, della sua avversione al padre, per inocularle il germe della vocazione religiosa: ecco il lavoro cui egli aveva dato principio nel colloquio col dottor Molesin, il piano cominciato ad attuare colla partenza della Gorlago. Non gli era passato per la mente il menomo sospetto che l’odore di essenza di rose, un’aura di giovinezza e di eleganza, un sussurro di voce dolce fossero entrati per qualchecosa nel suo disegno di togliere quella giovine al mondo e all’amore. Non ne aveva messo a parte l’arciprete. Forse ne lo aveva distolto il ricordo di uno scherzo grossolano del Superiore sulle ragazze che, disperate di trovar marito, sposano Gesù, tanto per poter chiamare sposo qualcuno. Forse sapeva che don Tita accarezzava l’idea di un matrimonio della signorina con certo giovine signore di Vicenza. Ne aveva accennato alla siora Bettina. Tremando, sudando, gemendo, con pena e con affanno, la siora Bettina combatteva ora, per fargli piacere, le proprie ripugnanze a mettersi in relazione colla signorina da Camin. Don Emanuele voleva ch’ella cercasse di sostituirsi, come amica, alla Vayla, di esercitare una sana influenza religiosa sulla ragazza.
La disgraziata, quando vide il cappellano entrare, si sperò al termine delle proprie fatiche, per quel giorno, e si alzò coll’intenzione di andarsene. Egli le fece colla mano, senza guardarla, un cenno sospensivo, salutò Lelia e prese tranquillamente posto sul canapè, mentre la Fantuzzo tentennava sulla sedia fra un definitivo alzarsi e un definitivo sedere, guardando il cappellano con uno sguardo umilmente deprecante. Egli non parlò, la guardò alla sua volta, severo; cosicchè la povera donna si quietò a sedere. Spalancò tanto d’occhi udendo che don Emanuele aveva un piacere da chiedere alla signorina da Camin e a lei. Il solo accenno a un incarico da eseguire in comune colla signorina le fece risalire le vampe al viso. Si affrettò a dire che non sapeva far niente, che non era buona a niente.
«Prego» le rispose don Emanuele col gesto placido del Superiore che invita l’inferiore a tacere. «Prego.»
La timida signora voltò a Lelia il viso vermiglio, le mormorò sfregando in grembo le mani una sopra l’altra, quasi a spremerne le sue ragioni di riluttanza: «proprio sa, propria sa.»
Don Emanuele non si curò più di lei, neppure la guardò più, rivolse a Lelia il discorso lungo che aveva preparato. Il sugo n’era questo. La locale Congregazione di Carità amministrava un legato a favore delle madri di famiglia povere, impotenti al lavoro per malattia o puerperio. Siccome in paese c’erano, a proposito di questo legato, molti lamenti, il cappellano aveva ottenuto dalla Congregazione che si nominassero due visitatrici e indicato insieme, per tale ufficio, la signora Fantuzzo e la signorina da Camin. A ogni due parole dell’oratore, la signora Fantuzzo gemeva. Gesummaria, Gesummaria! Era contenta di soccorrere i poveri da lontano ma da vicino non ci aveva gusto. Don Emanuele non se ne diede per inteso, invitò le due signore a prendere qualche accordo per la loro comune azione futura.
«Se non possono trattenersi adesso» diss’egli conchiudendo, «questa sera o domattina la signora Fantuzzo potrà recarsi alla villa da Camin. Si conosceranno meglio, parleranno di questo lavoro e intanto io preparerò un elenco delle madri che sarebbero a visitare subito.» Lelia uscì dal suo torpore, osservò che non sapeva se l’indomani mattina si sarebbe trovata alla villa. Infatti era risoluta, in cuor suo, di non lasciare il villino se prima non vi fosse arrivata la cugina di Santhià. Don Emanuele tacque, perplesso. Intanto fu bussato all’uscio, entrò don Tita. Salutò Lelia con un sonoro «divoto!» come se l’incontro sul ponte del Posina non fosse avvenuto, chiamò il cappellano in disparte, gli disse qualche cosa sottovoce, accennò a sua cognata di ritirarsi. Ella uscì, seguita da don Emanuele. L’arciprete si avvicinò a Lelia che si era pure alzata.
«La permeta, siora Lelia» diss’egli. «La permeta un momento. Ghe sarìa el papà.»
L’uscio si apre lentamente, ecco la faccia rossigna e gialla, le palpebre battenti, la barba policroma di papà.
«La se comodi, signor» gli dice l’arciprete. «Xe pronto?»
«Sarìa pronto, sissignor» rispose il sior Momi con un condizionale pieno di esitazione riguardosa; e, volto alla figliuola, le manda un «ciao» timido che pare uno dei soliti aho. Lelia non capisce cosa sia pronto e dalla bocca spalancata del sior Momi nulla vien più fuori. Allora il bonario arciprete interviene, dice a Lelia, scherzando, che papà non sa fare da papà ma che gl’insegnerà lui. Papà l’avrebbe lasciata partire a piedi, con quel caldo. Gli aveva consigliato lui di far venire da Arsiero una buona carrozza a due cavalli. Lelia intuì che si era tramato qualche cosa, che suo padre intendeva condurla di sorpresa alla Montanina e che l’arciprete era un complice. Non potè indovinare che il consiglio veniva da Molesin e che suo padre, fingendo sulle prime di aderirvi, aveva poi, assente Molesin, sollecitato l’intervento dell’arciprete e un suo aperto predicozzo sulla convenienza d’accontentare papà, di non indugiare più oltre il ritorno a casa. Il predicozzo rimase in gola a don Tita perchè la fanciulla non gli permise di metterlo fuori, dichiarò imperiosamente che intendeva andare a piedi. Il sior Momi si affrettò a concedere: «ben ben ben ben!» Lelia partì salutando appena e il benigno papà si sforzò di convincere il proprio complice intontito che quel diavolo di figliuola si sarebbe buttata dalla carrozza piuttosto che subire l’inganno.
II.
Poche ore prima che, per obbedire non tanto a suo padre quanto a donna Fedele, Lelia prendesse congedo dal villino, arrivò la cugina di Santhià, «tota» Eufemia Magis, una vecchietta piccola, curva, incartapecorita, di cui si sarebbe detto che fosse venuta a cercare aiuto e non a portarne. Per quanto donna Fedele fosse sofferente, la sola vista della cugina Eufemia le apriva insieme le due vene della tenerezza e della canzonatura. Quando l’aveva ospite non si dava pace perchè non le mancasse nulla e in pari tempo la canzonava senza pietà per i suoi abiti antiquati, per le grandi cuffie nere dai nastri violetti, per i pretesi amori giovanili, per la materia fantastica delle confessioni frequenti, per la ignoranza dei sessi che la cugina rivelava esclamando «oh mi povr’om!» ogni volta che le cadevano gli occhiali o un ferro da calze. Ella era presente quando Lelia si accomiatò dall’amica.
«Spero» disse donna Fedele, «che tuo padre ti permetterà di venire a trovarmi spesso.»
Gli occhi di Lelia lampeggiarono.
«Vorrei vedere!» esclamò. Donna Fedele le prese e accarezzò le mani mormorando: «sii buona, sii buona, sii buona!».
Lelia guardò la Magis che allora scivolò umilmente, silenziosamente, fuori della camera. La fanciulla abbracciò l’amica, posò il capo sul guanciale accanto a lei. L’amica le pose una mano sui capelli, le disse dolcemente:
«Quella lettera ti ha fatto male?»
Nessun cenno, nessuna voce di risposta.
«Non vuoi proprio che gli scriva niente di te?» Donna Fedele proferì queste parole piano piano, esitando. Aveva notato l’occhiata della fanciulla alla cugina Eufemia, pensava che desiderasse parlarle da sola a sola. Le spalle di Lelia sussultarono, il capo negò con violenza.
«Vuoi qualche altra cosa?»
La dolce voce giovane della signora, tuttavia carezzevole, ebbe però una punta dell’accento che dice: ma infine! E i grandi giovani occhi bruni lo dissero pure. Lelia non li potè vedere, li indovinò. Alzò dal guanciale il viso lagrimoso, abbracciò l’amica e partì.
III.
Ritornò nel pomeriggio del giorno seguente. Donna Fedele stava leggendo, alzata, nella sua camera da letto. Le si gettò ginocchioni ai piedi, protestò di non potere assolutamente più vivere alla Montanina. L’amica le batteva intanto e le ribatteva dolcemente la mano sul capo ripetendo dei piccoli «ò — ò — ò» di mansueto rimprovero.
«Cosa è successo, dunque?» diss’ella. «Alzati e racconta.»
Ci volle del tempo perchè Lelia, che le premeva il capo sulle ginocchia, si alzasse e parlasse. In fatto non era successo che il contatto con una realtà già conosciuta e odiata da lontano. Donna Fedele temette, al vedere quella disperazione, che ne fosse causa la governante del signor Camin. Non sapeva come chiederne a Lelia. Le chiese di Teresina, seppe che rimaneva in servizio perchè l’altra era partita. Ma neanche Teresina poteva sopportare, ora, quella casa, quel padrone, quella gente. Quella gente era poi l’unico dottor Molesin, che, grazie a Dio, stava per andarsene. Lelia fremeva contro quell’individuo viscoso che aveva creduto rendersi amabile parlandole dei vecchi Camin, di un vecchio prete che diceva la prima messa ai Carmini, di una vecchia monaca, famosa cuoca di pasticcerie. E il padre? La trattava male? No no. Lelia sarebbe stata contenta di venirne trattata male. Il padre era umile, ossequioso, mellifluo da far nausea. Non moveva una sedia in casa senza domandare il suo permesso. Glielo aveva domandato poco prima per far raccogliere il fieno. Era mellifluo e cerimonioso anche con Teresina. Credeva che qualchevolta, con Teresina, fosse stato anche confidenziale. Lo disse con tale accento di disprezzo che donna Fedele esclamò: «Oh! Lelia!» «Non me ne importa niente» rispose la fanciulla. E non raccontò che il sior Momi, quando, facendosi avanti tutto servile verso la figliuola, trovava duro, si tirava subito indietro con un «aho aho» come se avesse scherzato. Con quel trepido avanzare e quel frettoloso tirarsi indietro, il sior Momi pareva uno che tentasse nelle tenebre una siepe di rose nella speranza di porre la mano sopra un fiore e incontrasse una spina.
Le stesse mura della Montanina non erano più quelle. Erano vive, prima, e materne. Ora Lelia le sentiva morte, ignare di lei. Avevano un gelo e un’immondizia dello spirito di suo padre. Se non avesse temuto di far inorridire donna Fedele, Lelia le avrebbe confessato il suo mostruoso sospetto di non essere figlia di quell’uomo. Era possibile stare alla Montanina in condizioni simili? Domandò una risposta.
«Portami il bicchier d’acqua» disse l’amica «e l’ampollina col contagoccie, che sono sul tavolino da notte.»
Lelia obbedì in silenzio. Donna Fedele, maestra nell’arte di udire o non udire a suo piacimento, inghiottì la medicina e riprese tranquillamente:
«Lo so cosa mi volevi dire ieri.»
Lelia non si era mai abituata a queste volontarie sordità dell’amica. La irritavano sempre.
«Mi risponda!» diss’ella, vibrante. «Non ho ragione di non voler ritornare là? Ha paura che m’imponga a Lei?»
Alle stordite parole rispose un lampo negli occhi di donna Fedele; ma ella era padrona del fuoco ancora vivo sotto le ceneri della sua gioventù.
«So cosa mi volevi dire ieri» ripetè freddamente, battendo le sillabe. «Volevi confessare che lo ami.»
Il momento era mal scelto per queste parole. Lelia sobbalzò corrugando le sopracciglia, come se una mano insolente le avesse sfiorata la guancia.
«No!» diss’ella. «Mai!»
Scattò in piedi fieramente e spinse indietro la sedia che si rovesciò sull’uscio proprio mentre la cugina Eufemia lo apriva pian piano, con grande cautela, recando un vassoio con una tazza di brodo. Il brodo le schizzò sull’abito. «Oh mi povr’om!» gemette la vecchietta. Donna Fedele si sforzò di ridere. Se non rise proprio di cuore, fu però contenta di mostrarsi indifferente alla violenza drammatica di Lelia e anche di poter troncare il dialogo grazie alla presenza della cugina. Trattenne costei che se n’andava già in cerca di altro brodo, le fece togliere dalla scrivania e dare a Lelia una lettera.
«Adesso puoi andare» diss’ella alla vecchietta. Uscita questa, Lelia posò la lettera.
«Leggi» disse donna Fedele.
«Perchè?» rispose la fanciulla. «È inutile.»
«Cosa ne sai?» replicò donna Fedele. «Non è mica di Alberti.»
La lettera era di don Aurelio. Aveva trovato alquante lezioni, per quel verso era contento. Si doleva invece molto di Alberti, partito da Milano senza cercare di vederlo, senza mandargli una parola scritta. N’era stato informato dall’ingegnere Alberti, zio e benefattore di Massimo. A don Aurelio l’atto del giovine pareva un colpo di testa. Non sapeva spiegarlo che coll’amara ripulsa della signorina Lelia. Seguivano queste parole:
«S’egli si è allontanato da me in tal modo, temo di una grave crisi della sua stessa coscienza religiosa. Ho ragioni di temerla. Ah quale benedizione se la persona che sappiamo lo avesse conosciuto meglio!»
Lelia posò la lettera, senza parlare.
«Hai visto?» disse donna Fedele.
«Perchè mi fa leggere di queste lettere?» esclamò la ragazza, sdegnosa. «Non intendo che mi riguardino.»
«Dunque non ti riguarda il male che fai?»
«Qual male? La crisi religiosa? Per me è avvenuta e ne sono contenta» replicò Lelia, amaramente. «Lascio il cattolicismo a mio padre e al dottor Molesin, che stamattina sono andati a messa insieme, al cappellano che la diceva, all’arciprete...»
«E a me, vero?» disse donna Fedele, pacata.
Lelia tacque. Non si era proposta di ferire così ma fu contenta di aver ferito. Allora l’altra, sempre tranquilla, disse:
«Grazie.»
E riprese il libro che stava leggendo quando era venuta Lelia, i canti di un grande poeta cattolico, non però cattolico alla maniera di don Emanuele, ma piuttosto alla maniera di Dante: Adamo Mickiewitz. Lelia si sentì congedata. Credette vedere umidi gli occhi di donna Fedele e fu per buttarle le braccia al collo. L’impeto buono abortì. La fanciulla si mosse per andarsene.
Aveva già aperto l’uscio quando l’amica la richiamò.
«Siamo state cattive tutte due» diss’ella, stendendole la mano. «Vieni, facciamo la pace.»
Lelia afferrò la mano distesa con ambedue le proprie, la baciò e fuggì.
IV.
Giunta al ponte del Posina, si fermò a guardar giù la corrente rapida e silenziosa. Non era mai passata di là, dopo quella notte, senza un assalto di pentimento della promessa fatta a donna Fedele, senza un brivido di desiderio e di ribrezzo. E non si era mai fermata a guardar la roggia. Ora si fermò, quasi contro voglia, come se una forza ignota la costringesse a guardar nell’acqua e quindi a riconoscere, ancora contro voglia, che non vi era più in lei alcun desiderio di morire. Solamente allora, guardando l’acqua, ebbe la rivelazione improvvisa di questo suo nuovo, profondo stato d’animo. Guardava l’acqua corrente e l’attonita anima sua si apriva lenta, mostrava nel profondo a se stessa un’aspettazione istintiva di amore, di felicità, contraddicente alle previsioni della ragione, contraddicente ai generosi propositi di rinuncia. Si levò palpitando dal parapetto del ponte, si ripose in cammino. Credette sentire la vita incarcerata delle cose anelare all’amore e alla gioia, mute avidità comunicarsi a lei. Le pareva che il battito delle turbìne di Perale le fosse interprete delle cose mute, le dicesse: «Anche tu, anche tu». E il suo cuore batteva: «Anch’io, anch’io». L’aria stessa, odorata di boschi, le spirava, entrandole in bocca bramosia fidente di amore e di gioia. Avrebbe voluto prendere il sentiero che sale a destra pochi passi oltre il ponte perdersi fra gli alberi, buttarsi a terra dove nessuno la potesse vedere, cedere ivi senza ritegno alle immaginazioni ancora informi di cui sentiva l’assalto ardente, dar loro forma, colore, vita, vivere di esse. Ma il sentiero era sbarrato di tronchi e di pruni. Non potè lasciare la via maestra. Un incontro di carri e di gente la raffreddò. Allora tremò di se stessa, della volontà violenta che aveva divampato in lei e l’era quindi rientrata nelle tenebre inferiori dell’anima simile a una fiera in servitù, che, sdraiata nel fondo del carcere, leva un momento il muso, rugge ai molesti onde fu svegliata e, paga del loro atterrito silenzio, ripiega nell’ombra, si riaddormenta. Pensò a donna Fedele che non la credeva ferma, evidentemente, nel suo «no», nel suo «mai.» Si propose di scriverglieli ben chiari e forti, di costringere così anche sè a non mutarli.
Al castagno incontrò suo padre che le domandò, timido timido, se venisse dal villino. Parve domandarle, osando e non osando, se venisse da un convegno colpevole. Alla brusca, sfidante risposta di lei battè le palpebre.
«I preti, ciò» disse sorridendo, «i preti.»
Questo conciso linguaggio significava un monte di cose: che ai preti non piaceva la sua amicizia con donna Fedele, ch’egli consigliava di accontentarli ma che però non andrebbe più in là del consiglio. I preti erano venuti alla Montanina colla Fantuzzo durante l’assenza di Lelia. Il cappellano aveva fatto un viso funereo. Invece la siora Bettina era parsa quasi sollevata da un peso. Il sior Momi, navigando blandamente fra gli scogli clericali e lo scoglio filiale, si arrischiò a prometterle una visita di Lelia: «la vegnarà ela, la vegnarà ela». Diede ascolto con zelo ai discorsi dell’arciprete, il quale, più che di Lelia, si preoccupava del genitore, vedeva in esso un nuovo elettore, un futuro consigliere, una futura zampa, grossa e potente, della canonica in Consiglio, un prezioso alleato del proprio successore.
Quel blando, sorridente «i preti» pieno di sottintesi, irritò Lelia più che non l’avrebbero irritata un rabbuffo, un divieto. I suoi nervi contratti non potevano avere lo sfogo della ribellione violenta. Si chiuse in camera, non ne uscì neppure all’ora del pranzo per non vedere suo padre. Voleva scrivere a donna Fedele secondo si era proposto e non lo potè. Solo il sapere ch’egli andava e veniva per la casa, solo l’aspettarsi a ogni momento di udirne la voce, i passi, le impedivano di raccogliersi. Appena Teresina le ebbe detto, dopo le dieci, ch’egli si era coricato, si mostrò tanto impaziente della presenza di lei che la cameriera si spaventò ricordando la fuga notturna dal villino. Pressata di andarsene, non potè a meno di esclamare: «cossa vorla far po, signorina?» Lelia rispose che voleva unicamente restar sola e scrivere. La povera Teresina passò la notte nel corridoio, seduta sopra un baule. Udì chiudere l’uscio a chiave, andare e venire, interrottamente, per la camera, lacerare, ogni tanto, delle carte, ogni tanto singhiozzare. Poi udì aprire una finestra e allora fu per buttarsi sull’uscio. Dopo un lunghissimo silenzio ecco passi ancora, stridere l’usciolino del gabinetto di toeletta, gorgogliare acqua nella catinella. Più tranquilla, non osò lasciare il suo posto di guardia ma chiuse gli occhi e dopo una breve lotta col sonno si addormentò.
Una brusca voce la scosse. «Cosa fa qui?» Diede un sobbalzò. «Gèsu!» E non seppe aggiungere altro. «Sciocca!» esclamò Lelia. «Scenda e mi apra la porta del passaggio coperto. — Ho mal di capo, voglio prender aria» soggiunse, raddolcita.
Era l’alba, il Torraro soffiava gioia, per Val di Posina, nelle betulle e nei pioppi della Montanina. Lelia salì ai castagni, si buttò a giacere sotto le grandi frondi, come una bambina stordita, nell’erba molle di rugiada. Aveva scritto non ancora chiusa la lettera, non ancora proprio deciso di spedirla. A tredici anni la strana fanciulla si era innamorata di un geranio che teneva in vaso ed era giunta a pungersi il seno per nutrirlo del proprio vivo sangue. Adesso le passò per la mente di pungersi e di scrivere a donna Fedele col sangue. Non lo fece, temendo di farla sorridere. Sdraiata nell’erba umida, si vedeva passare nelle palpebre chiuse quel che aveva scritto, che voleva e disvoleva, con angosciosa vicenda, spedire al villino. «Prego non parlarmi di quella grande persona mai più.» Si era fermata dopo infiniti cambiamenti, dopo stracciati otto o dieci foglietti a questa forma di ripulsa che simulava risentimento per una frase della lettera di Massimo. Se n’era compiaciuta amorosamente come di un’opera d’arte. Ma ora le venne il dubbio che appunto fosse da escludere l’apparenza di un risentimento perchè la sua ripulsa non verrebbe considerata ferma, definitiva. Desiderò rileggere tutto e rientrò in casa. Per via trovò Teresina che veniva ad avvertirla di avere preparato un caffè forte.
«Madre!» esclamò la cameriera, camminando dietro a lei. «Pare stata...» S’interruppe, non disse «nell’acqua» per ribrezzo della parola, tanto aveva pensato la notte a certo gorgo del Posina dove, pochi giorni prima, si era scoperto il cadavere di un suicida.
No, «grande persona» non andava, non andava! Nè bastava togliere «grande.» Era opportuno dare allo scritto un altro tono, escludere ogni apparenza di risentimento e di disistima. Stracciò anche quel foglietto e scrisse così:
Cara amica,
La prego di non parlarmi mai più, nè direttamente nè indirettamente, di quella persona che io potrò anche stimare, se vuole, ma che m’ispira una contrarietà invincibile. Se ieri sono stata cattiva con Lei fu per il sentimento che mi fa scrivere così. Mi perdoni.
Lelia.
Rilesse, giudicò di avere scritto chiaro, bene, opportunamente. Non c’era più luogo a correzioni, a pentimenti. Partite quelle parole, era finito tutto, per sempre. Cadde a giacere sul letto, spossata a morte anima e corpo, senza forza nelle membra, senza lume nei pensieri, senza vita nel cuore, nè di dolore nè di desiderio. Dormì un’ora. Svegliatasi, balzò a sedere sul letto, sgomenta di aver dormito, di non saper quanto, di non raccapezzarsi. Visto il foglietto aperto sulla scrivania, le ritornò la coscienza con un moto lento, nel petto, di dolor sordo. Si lavò, si ravviò i capelli. Crescendole quel senso di dolore, invadendola tutta, le si mossero, le ingrossarono in seno le onde del pianto. Non pianse, però. Una voce interna le disse che forse lo scritto non andava ancora bene, ch’era forse da rifare. Lo prese per rileggerlo e non le fu possibile, tanto le mani tremavano e la vista s’intorbidava. Uscì per andarlo a rileggere fuori, in giardino, dove i nervi non avrebbero osato ribellarsi così. Discese al sedile dei noci. Era tanto stanca, vi era tanta pace nel vento fresco, nelle onde dell’erbe mature, nel continuo gorgoglio della Riderella, che il tumulto dei suoi nervi si chetò. Come l’infermo che al partirsi di uno spasimo acuto ritorna spossato al senso delle cose circostanti e ancora non sa se viva nel reale o nel sogno, ella sedette a lungo, collo scritto non riletto in grembo, attonita, inerte. Il foglietto le scivolò dalle mani, cadde sull’erba. Lo sentì e non si mosse. Qualche altra cosa le scivolava dalla mente, non consentendo ella nè contrastando. Si chinò, raccattò la lettera, cominciò a lacerarla pian piano, da un angolo. Lacerava lacerava guardando l’erba con occhi pieni di sogno. A misura che lacerava ne venne prendendo conscienza come di un atto grave che facesse parere strana la noncuranza, intorno a lei, delle cose, il variare, continuo come prima, dell’erbe mosse dal vento, il discorrere dell’acqua, tranquillo come prima. Finito ch’ebbe di lacerare, il cuore prese a batterle forte forte come s’ella si sentisse intorno alla persona le braccia e sulle labbra le labbra dell’amato. Balzò dal sedile, infiammata e sgomenta. Raccolse e disperse nella Riderella i pezzetti dello scritto lacerato, si fermò a guardare nella corrente fino a che tutti disparvero i testimoni dell’atto col quale aveva annientato lo scritto; parendole che l’atto stesso e il suo segreto senso fossero così distrutti. E la voce di prima le si mosse ancora nell’interno: «invece di scrivere a donna Fedele che non parli più di lui, fare a meno di andare al villino».
Ella vi consentì con un respiro di sollievo; sì, non scrivere e fare a meno di andare al villino.
V.
Nel pomeriggio capitò nuovamente alla Montanina la Fantuzzo, senza compagni, questa volta. Fu ricevuta da Teresina. Lelia aveva l’emicrania e, occorrendo, l’avrebbe inventata per liberarsi da quella seccatura. Opere ufficiali di pietà non erano per lei; in compagnia di una tale bigotta, poi! Il sior Momi, fiutata la burrasca fin dal giorno prima, aveva pensato bene di cavarsela con una giterella a Padova. La siora Bettina era discretamente ben disposta verso il sior Momi. Per verità, suo cognato l’arciprete, interrogato da lei circa il nuovo signore della Montanina, le aveva detto in confidenza: «farina fina, ciò, bona da colla, dove ch’el toca el taca - ma da far ostie, no credaria». Invece il cappellano, l’oracolo della siora Bettina, le ne aveva parlato diversamente. Don Emanuele lo conosceva quanto l’arciprete e anche meglio; ma fino a che Lelia non fosse sottratta all’influenza di donna Fedele e avviata alla vita monastica il sior Momi gli era, per certa coincidenza d’interessi, un utile alleato. Perciò egli aveva detto alla siora Bettina, con molta compunzione, con molti contorcimenti di parole, che forse l’arciprete, nella sua santa semplicità, nella sua nativa buona fede, aveva dato troppo ascolto a certe voci maligne, a certi giudizi esageratamente severi. Il signor da Camin era stato sfortunato negli affari, poteva non essere andato esente da qualche fragilità umana, ma era uomo di fede pura, immune dagli errori moderni, era uomo di pratiche; ottimo cattolico, insomma, tale da dovere il clero e il popolo di Velo ringraziare la Provvidenza che alla Montanina ci fosse lui e non quel giovine signore di Milano.
Poichè nè Lelia nè sior Momi erano visibili, la Fantuzzo e Teresina colsero l’occasione gradita di fare insieme quattro chiacchiere in libertà. Alla Fantuzzo piaceva di stare con Teresina che non le dava soggezione, ch’era una persona sensata, molto pia, che sapeva tante cose, le raccontava volontieri e bene. Alla cameriera piaceva di stare colla siora Bettina, tanto santa, che le parlava riguardosamente. Si vedevano assai di rado ma quando si vedevano s’illuminavano dolcemente ambedue in viso, facevano insieme, pettegoleggiando, un chiacchiericcio di canarine, confondevano sul pettegolezzo, con mutua soddisfazione, i loro commenti di persone savie e timorate. Della Montanina la Fantuzzo non conosceva che il salone. Teresina l’accompagnò a vedere tutta la villa, tranne le stanze di Lelia e quelle del padrone, che il sior Momi aveva chiuso a chiave.
«Tanto un bon cristian, vero?» disse la siora. Teresina la guardò meravigliata, le vide una faccia così convinta, che rispose: «eh sissignora!».
»E la paronzina?.» riprese la Fantuzzo, con una faccia diversa, molto ambigua.
«Eh sissignora, anca ela» rispose Teresina.
«De religion, m’intendo.»
Teresina rispose da capo, ma un poco turbata: «Eh sissignora.» Erano uscite dalla sala del biliardo nella veranda aperta, presso un gruppo di sedie. La siora Bettina sedette e, molto imbarazzata, molto rossa in viso, domandò alla cameriera se non credesse che la relazione di quella signora di Arsiero, persona senza rispetto per i sacerdoti, amica del cattivo prete di Lago, avesse fatto perdere la fede alla ragazza.
«Oh mi no credo no, sala» rispose Teresina, onestamente.
«Perchè La sa, vero?»
Teresina non comprese, lì per li, cosa dovesse sapere, rimase a bocca aperta. Le due donne si guardarono, una sbalordita, l’altra compunta. Quest’ultima attese un poco e poi accennò al tentato suicidio. Allora Teresina capì e le si vide in faccia che aveva capito. Abbassò gli occhi, non rispose. Abbassò gli occhi anche la siora Bettina, raccogliendosi per rammentare le istruzioni datele da don Emanuele per un suo eventuale incontro colla cameriera. Intanto Teresina si riebbe, osservò che lo scritto rivelatore era stato fatto a pezzi dalla signorina prima di uscire, che forse ell’aveva rinunciato al suo proposito. La siora Bettina non aveva istruzioni per una replica e tirò avanti. Domandò, blanda blanda, se la signorina avesse l’abitudine di pregare la mattina e la sera. Teresina arrossì, malcontenta che le si chiedessero queste cose intime, e rispose di non sapere. E libri di pietà, ne aveva la signorina? Aveva un bellissimo libro dei Vangeli, dono del signor Marcello. E altro? La siora Bettina respirò quando Teresina le disse che Lelia aveva pure una Filotea e una Via del Paradiso, i suoi libri di pietà del collegio. E li leggeva? Teresina avrebbe potuto rispondere che non le era capitato mai di vedere nelle mani di Lelia nè Vangeli nè Filotea nè Via del Paradiso. Rispose soltanto: ma!. L’altra, sentendola diffidente e conoscendola pia, mise in tavola una carta grossa, sempre con dolcezza timida. In canonica si sperava che dopo il fatto di quella notte la ragazza andasse presto a confessarsi. In pari tempo si temeva che ne fosse trattenuta da riguardi umani. Specialmente don Emanuele, che conosceva il fatto della notte meglio dell’arciprete, era tanto inquieto, poveretto. Con questo discorso la siora Bettina non aveva pensato affatto a una trappola. Fu però tale per Teresina che ci cascò. Ell’aveva espresso un dubbio circa le intenzioni suicide della signorina. Il dubbio non era sincero e desiderava ella pure, da buona credente, che la signorina si confessasse. Si tradì con un «sicuro!» che le venne dal cuore.
La siora Bettina si raccolse ancora. Trovò questa bella uscita: quanto sarebbe stato meglio che i Trento non si fossero presa la ragazza con sè! Nel suo dolore per la morte del fidanzato, ella si sarebbe probabilmente risolta di uscire dal mondo non come aveva pensato quella notte. Si sarebbe data al Signore.
«Oh mi no credo no, sala!» esclamò per la seconda volta Teresina, risentita per il biasimo indiretto ai suoi padroni vecchi. E perchè non credeva? Ma! quel «ma!» era uno scrignetto pieno di ragioni d’oro e chiuso a chiave. Teresina non lo aperse e la Fantuzzo credette che non lo aprisse perchè vuoto.
«Sarebbe stata una benedizione» diss’ella. Fu per soggiungere: «e potrebb’esserlo ancora», ma si ricordò in buon punto che don Emanuele le aveva prescritto di non avanzarsi troppo. La cameriera espresse il proprio rincrescimento di non potere più oltre trattenersi con lei, causa certe faccende. La siora Bettina si alzò.
«Almeno questa confessione» diss’ella.
«Magari!» rispose Teresina.
Accompagnò la Fantuzzo fino al cancelletto del portico. Al momento del congedo colei insinuò che Lelia poteva recarsi con qualcuno a Vicenza, confessarsi a Monte Berico. Si confesserebbe più volontieri, forse.
«Magari!» rispose ancora Teresina. La Fantuzzo osservò che la proposta di una gita a Monte Berico poteva venire a Lelia dal suo papà.
«Madre!» pensò la cameriera.