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324 CAPITOLO DUODECIMO

conflitti asprissimi. Altri ne diventa mansueto ai vinti. Tale era il bonario, ilare arciprete. Invece don Emanuele, vincitore di sè con tristezza e non con gioia, aveva in dispregio i vinti e ogni debole. Era un dispregio astioso nel quale la carne soggiogata pigliava la propria rivincita macchiando lo spirito, a insaputa sua, d’invidia verso i gaudenti.

Si era scusato di confessare più oltre Lelia perchè il lieve profumo di essenza di rose ch’ell’aveva portato nel confessionale lo turbava, lo irritava paurosamente. L’aveva rimproverata fin dalla prima volta: «non venga a confessarsi con profumi!» Ella non capì o dimenticò. Ritornatavi, si udì consigliar l’arciprete per confessore. Alle narici contadine dell’arciprete l’essenza di rose non avrebbe detto che rose, don Emanuele n’era sicuro; mentre alle aristocratiche sue diceva rose vive, arte ordinata, lo sapesse chi l’usava o no, a blandire e movere il senso. Confessando la fanciulla fine, dall’odor di rosa, egli l’aveva involontariamente pensata, con certe acredini di quel tale astio, reclusa per sempre in un monastero, tolta all’amore, tolta al piacere altrui. Ora, se gli fosse capitato di negoziare per essa un matrimonio conforme alle proprie idee religiose, lo avrebbe fatto; senza letizia, ma con tutta coscienza. Era invece accaduto che la fanciulla venisse nel disperato proposito di uccidersi. Le sue informazioni gli facevano supporre che avesse desiderato sottrarsi così alla convivenza col padre, vizioso e spregevole, che l’aveva venduta. Da questa supposizione gli balenò l’idea del chiostro. Toglierla alla perniciosa influenza della Vayla, levar via, servendosi di lei, lo scandalo della Gorlago, approfittare del suo isolamento alla Montanina, della sua avversione al padre, per inocularle il germe della vocazione religiosa: ecco il lavoro cui egli aveva dato principio nel colloquio col dottor Molesin, il piano cominciato ad