Leila/Capitolo X
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CAPITOLO DECIMO.
In giuoco.
I.
L’amico Molesin non credette sillaba del racconto che gli fece Momi; nè che non avesse veduta la figliuola nè altro. Tuttavia il buon dottore mostrò di abbrancare e di tenere lietamente saldi i due infiniti: aspettare, sperare. Non c’era dubbio, non c’era dubbio, le cose si accomoderebbero. A colazione mangiò poco, allegando ch’era troppo tardi, che l’appetito gli era passato. Però si mostrò assai di buon umore, parlò del paesaggio e del «Cason» con qualche maggiore benevolenza, riferì il discorso fatto in canonica sull’ufficio funebre, persuase, molto facilmente, Momi a mandar subito un rigo pregando che l’ufficio si celebrasse nel più breve termine possibile. Espresse bonariamente la cortese intenzione di assistervi, se per questo non dovesse rimanere che due giorni e se la sua prolungata dimora non riescisse d’incomodo. Il luogo gli veniva piacendo ed egli stesso aveva tanto bisogno, povero dottore, di riposo. Il sior Momi fece «figurarse, figurarse!» ma battè molto le palpebre. Dopo colazione Molesin volle fare due passi, salire coll’amico il sentiero ombreggiato dai castagni. Sedette sulla prima panca che trovò e vi fece sedere Momi con piglio solenne:
«Oh, qua.»
Lasciati passare pochi momenti, rese finalmente omaggio alla bellezza della natura:
«Belo belo belo belo.»
E tirò su Momi a bruciapelo:
«La senta, Momi. Femo un afare.»
Il sior Momi rispose coll’aria sua più stupida:
«Ah? Cossa? Ca senta? Un afare?»
Raccapezzatosi mentre tirava in lungo queste esplosioni, capì che Molesin intendeva proporgli una cifra per il famoso accomodamento e si armò.
«Adesso» riprese il dottore parlando l’italiano, venetamente rammollito, delle grandi occasioni, «Ella, signor Momi egrejo, è padre e padrone, diremo così, di una bella sostanza. Di un sostanzone, diremo così.»
«Aho aho!» fece il sior Momi, con un ineffabile accento ironico. L’altro continuò imperterrito:
«Adesso, per avere la Sua pace in perpetuo, anche quella della coscienza, Ella potrebbe dare il cento per cento.»
«O’l d’un!» esclamò Camin, con un’altra risatina grottesca.
«Cossa gàla?» fece Molesin, ricascando per un momento nel dialetto. «Non la xe cussì? Ma via! Voglio esserle amico. M’impegno di far accettare ai miei clienti il settantacinque per cento.»
Il sior Momi non seppe tenersi dall’esclamare:
«Brao putèlo!» Bravo ragazzo! Tributata questa lode al candore infantile dell’amico, il sior Momi si colorò per la prima volta nel viso e nell’eloquenza. Non pareva più il sior Momi. Due roselline infuocate gli spuntarono sugli zigomi gialli. Aggrottò le ciglia. Il capo gli sussultava, parlando, sul collo, quanto glielo potevano consentire quelle vertebre lignee, tutte d’un pezzo; e gli fluiva di bocca, a scatti gorgoglianti, come l’acqua da una bottiglia capovolta, la parlantina rapida, non interrotta da un solo - aho, - o piuttosto, se si vuole, simile a un impetuoso fiume di aho aho, che travolgesse rottami di consonanti. Gli si domandava il settantacinque per cento quando egli non poteva più dare nemmeno il venti offerto una volta. Si meravigliava che Molesin non lo capisse. Egli aveva offerto il venti quando si poteva ritenere che sua figlia, diventata erede di una buona sostanza, avrebbe fatto dei sacrifici per il padre. Qualcuno glieli avrebbe prestati, allora, i denari per dare il venti. Ma ora che la ragazza si mostrava come si mostrava, ostilissima al padre, renitente persino a convivere con lui, ora gli si domandava il settantacinque! Aveva offerto il venti appunto perchè sapeva di non poter fare grande assegnamento sull’aiuto di una ragazza bizzarra che non gli aveva mai mostrato il menomo affetto. E n’era venuta la prova. Grande assegnamento? Nessun assegnamento! E dove li pigliava i quattrini, per dare il venti? Doveva rubare, dunque? Rubare alla propria figlia? Aveva un conforto, sì, quello di potersi mostrare, alla prova, galantuomo, contro le calunnie di certa gente. E un altro conforto, aveva. Lo ammetteva volentieri; non gli sarebbe mancato un pane, perchè sua figlia, lo desiderasse o no, era in obbligo di fornirglielo, per legge.
«Basta basta basta» fece Molesin. Si alzò e passò dal Lei al Voi, stroncando anche all’amico il falso da del cognome.
«Sentì, Camin. Intanto ve aviso che go a casa tuti i numeri de le cartele de rendita che gavea sto sior qua.»
Il sior Momi esclamò che non gliene importava e offerse il cinque.
«Basta, basta, basta!»
Molesin si avviò per la discesa. Fatti due passi, si fermò in isbieco puntando il bastone a terra e guardandosi alle spalle colla coda dell’occhio.
«Femo el settanta» diss’egli.
«Femo el sette» disse Camin.
La conversazione, per quel momento, finì. Nel cervello del sior Momi spuntò la speranza che, modificando i suoi piani, Molesin levasse il campo quella sera stessa. Scesero ambedue in silenzio dai castagni fino alla piccola custodia che copre la sorgente della Riderella.
«Cossa xe quel maledeto baùl?» chiese Molesin con un viso ed un accento di burbero benefico, che fecero subito comprendere al sior Momi come l’avversario, invece di levare il campo, meditasse altre mosse. Avuta la risposta, l’eccellente dottore dichiarò che quell’acqua gli era piaciuta e che intendeva, nel suo breve soggiorno, farne una cura. Il sior Momi non disse niente e battè molto le palpebre mentre la Riderella rideva piano giù fra i sassi e l’erba.
II.
Verso le cinque, Molesin ricevette un biglietto di don Tita. L’arciprete lo pregava di recarsi alla canonica. Molesin vi andò subito e vi fu ricevuto da don Emanuele. L’arciprete era partito per Seghe lasciando libero il campo al suo cappellano, il quale desiderava questo colloquio e non aveva voluto chiederlo direttamente per non mettere sè avanti all’arciprete in un argomento d’interesse spirituale. Gli doleva che il Superiore non avesse fatto valere abbastanza, parlando con Molesin, la necessità morale di strappare a ogni costo la signorina Camin alla influenza funesta della Vayla. L’animo del giovine prete era pieno di livore verso donna Fedele; di un livore ch’egli giustificava nella propria coscienza col cambiargli nome, col chiamarlo zelo sacerdotale, doveroso zelo contro una persona della quale si conoscevano biasimevoli indipendenze, in materia religiosa e morale, dall’Autorità ecclesiastica, che aveva permesso un ballo di contadini nel suo giardino, che si arrogava di leggere e spiegare il Vangelo ai suoi dipendenti, che si era legata di tanta amicizia con un prete sospetto come don Aurelio, che proteggeva un modernista facinoroso come il giovine Alberti. Se una punta del compresso rancore personale gli scattava su a bucare queste sante fasciature, don Emanuele si sforzava sinceramente di ricacciarla sotto, se ne assolveva pregando per l’eterna salute di quell’anima pericolante e pericolosa quanto più pareva irreprensibile nella vita e nelle pratiche del culto. Intendeva mettersi egli stesso all’impresa di strapparle quella giovine, perchè l’arciprete era troppo molle, troppo bonario.
Quando la serva gli annunciò il signor dottor Molesin, don Emanuele, che stava leggendo il breviario, ebbe la visione dell’incontro colla Vayla in sagrestia, della scenata sulla strada di Mea, e si fece il segno della croce per cacciare da sè ogni spirito vendicativo e disporsi a far del male per la causa del bene. La compunzione interna, fredda e dura, gli si leggeva sulla fronte, nei tristi occhi acquosi e persino nell’incedere tardo, composto, dell’allampanata persona.
«Cossa vorla» pensò Molesin «sta anima longa?» E gli fece un profondo inchino cui l’anima lunga rispose con un piegar lieve del capo e un gesto della mano, pieno di degnazione prelatizia. Molesin gli domandò subito, ossequiosamente, dell’arciprete, soggiungendo qualche parola di compiacenza commossa per la sua prossima esaltazione nella Chiesa. Don Emanuele non incontrò affatto il discorso dell’esaltazione, scusò il Superiore assente, si disse incaricato di rappresentarlo. L’arciprete aveva intese con grande compiacenza le buone intenzioni del signor da Camin verso la sua chiesa e i suoi poveri. I bisogni dell’una e degli altri erano grandi ma l’arciprete si rallegrava sopra tutto di queste inclinazioni pie del suo nuovo parrocchiano. Egli avrebbe cercato di mostrargli la propria gratitudine nel modo più conveniente per un sacerdote in generale e per un parroco in particolare, aiutandolo nelle sue difficoltà domestiche, interponendosi fra il genitore e la figlia perchè avessero pace fra loro, con grande vantaggio dei loro interessi temporali ed eterni.
Fin qui il buon dottore Molesin, seduto in faccia al cappellano colle gambe aperte e le mani spiegate sulle ginocchia, non aveva fatto che alzare e abbassare, come un orso bianco, il capo curvo al pavimento, ora con un semplice moto di ripetuto assenso, ora collo stesso moto complicato di dimenamenti a destra e a sinistra, che significavano un soprappiù, uno sdilinquimento di approvazione. Ma, udite appena le prime parole della seconda parte del discorso, il capo curvo cessò di frugar l’aria.
Don Emanuele si vedeva costretto a toccare un argomento delicato. Nè l’arciprete nè egli stesso potevano far niente per la pace domestica del signor da Camin, se non si toglieva di mezzo uno scandalo. Lo capiva il signor Molesin? Molesin che non si dimenava più ma configgeva tuttavia gli occhi, fra le gambe divaricate, nelle commessure dei mattoni, si eresse di scatto, si portò sulla bocca una mano spiegata, se ne compresse le mascelle, ficcò lo sguardo in un angolo della camera, aggrottò le ciglia e si tenne immobile, nello sforzo di capire. Pareva cercare il senso di un vocabolo babilonese o il nome di un bisavolo di Antenore.
«No» diss’egli, levando gli occhi attoniti a don Emanuele. «Non capisco.»
Don Emanuele li fissò alla sua volta, quegli occhi attoniti, e Molesin li strinse, li strinse, per istinto, perchè l’indagatore sguardo acquoso non gli penetrasse oltre il primo velo dell’anima cipollinea. E ripetè: «no, La scusi, no. Insomma, no».
«Quella disgraziata creatura» suggerì lento lento, quasi sottovoce, don Emanuele «che oggi si trova, credo, anche lei alla Montanina...»
«Ah! — Sì!» masticò Molesin. «Sì! Capisco! Lei vuol dire la governante. Sarebbe meglio che partisse. Sì, capisco. La sua presenza potrebbe guastare la pace fra genitore e figlia. La figlia potrebbe credere, dirò così, anche lei, eccetera eccetera. Momi la mandi via, dice Lei. Benissimo. La manderà via. Rispondo io. Quantunque, in verità, non credo...»
«E presto» interruppe don Emanuele.
Molesin fece un inchino di acquiescenza, in silenzio. Allora don Emanuele, con un gesto da persona attempata, com’erano tutti i suoi gesti, scarsi e misurati, si appuntò al viso le cinque dita raccolte della mano sinistra e le considerò attentamente.
«Partita la disgraziata» diss’egli, «è necessario che entri subito la figlia.»
Sciolto il fascio acuto delle cinque dita, guardò Molesin con una profonda tristezza negli occhi acquosi. Si fece quindi puntello di una mano alla gota, reggendosi il cubito coll’altra mano e scosse desolatamente il viso senza più guardare il suo interlocutore, tutto contrito di riverbero.
«Questa figliuola nelle mani di quella signora» diss’egli, «ecco la grande spina dell’arciprete. E l’arciprete non sa quello che io so.»
Neppure Molesin sapeva; ma intanto, ad ogni buon conto, dedicò un sospiro alla spina dell’arciprete. E il sospirone fu tanto profondo da far alzare un momento gli occhi acquosi. Si abbassarono. Don Emanuele ritornò sulle ignoranze del principale. L’arciprete ignorava che quella povera figliuola, nell’ambiente di casa Vayla, era giunta a meditare un delitto orribile. «Gesummaria, volevela copar Momi?» pensò Molesin esterrefatto all’idea che il sior Momi gli scomparisse di fra le unghie. Don Emanuele non si spiegò di più, quanto al delitto. Deplorò invece diffusamente i tossici vapori dell’atmosfera Vayla. La ragazza, stata sua penitente, era buona e religiosa. Poteva sperarsi da lei una forte reazione, una di quelle reazioni che portano interamente a Dio le anime ferite dal mondo. Ma era necessario di coltivarla. Ciò non era possibile in casa Vayla. Occorreva l’intervento del padre che, usando dei suoi sacri diritti, la riprendesse colla forza della legge se altrimenti non poteva. Secondo don Emanuele la renitenza della ragazza era frutto dei suggerimenti di donna Fedele.
Ritornata a casa, sempre dopo uscitane l’altra persona, la ragazza cambierebbe. L’arciprete, egli stesso, la cognata dell’arciprete, persona di gran pietà, porrebbero tutto in opera per coltivare il germe di santificazione, latente in quell’anima. Era un’anima desiderosa di staccarsi dal mondo, un’anima indifferente alla ricchezza.
«Creda creda che quella figliuola abbandonerebbe tutto il suo al padre senza l’ombra di un rimpianto.»
Il cappellano volle che queste parole s’imprimessero bene nel cervello di Molesin. Molesin non lo lasciò quasi finire, si affrettò a parlare dell’interesse spirituale in questione, come se l’altro non fosse affar suo. Ricordò un’antica prozia monaca del sior Momi e, inarcando le sopracciglia col senso filosofico-religioso dei grandi ricorsi storici e delle arcane leggi provvidenziali, diede del trombone nel fazzoletto turchino, in segno di essere pronto a marciare.
III.
Durante il desinare, servito in gran ritardo, il sior Momi espresse a Molesin la cortese intenzione d’invitargli a pranzo per l’indomani il suo amico arciprete. Molesin ringraziò, ma certa esitazione e certa fiacchezza nell’accento rivelarono le sue angustie. Egli aveva appreso dalla cuoca la causa molto spiacevole del gran ritardo: una scena fra la Gorlago e Teresina a proposito di certo bicchiere di marsala che quest’ultima aveva consegnato alla cuoca per i suoi lavori e che la governante del sior Momi, fatta una scorreria in cucina, si era tracannato per metà. Teresina si era licenziata e le preghiere del sior Momi non avevano potuto rimuoverla dal fiero proposito.
Teresina che parte e la Gorlago che trionfa: belle disposizioni, pensò Molesin, per invitare l’arciprete! Dopo pranzo il sior Momi, passando nel salone, propose una partita a foracio. Gli occorreva blandire, non potendo sopprimerlo, un avversario capace di macchinazioni diaboliche, di spingere i preti di Velo a influire sulla ragazza in un modo sinistro per lui. Molesin non conosceva il foracio, non giuocava che il tresette e il terziglio. Entrò Giovanni collo scalone per accendere le lampade.
«Lassè star quela maledeta scala!» esclamò il sior Checco, da burbero malefico, stavolta.
«Basta un lumeto, un lumeto da ogio; a mi me piase i lumi da ogio.» Non c’erano «lumeti» in casa. Furono portate due candele. Il sior Momi chiese con un timido - aho - se l’amico fosse disposto a un terziglio.
Il terziglio si giuoca in tre e l’amico, sbalordito, fece:
«Ohe?»
Altro timido «aho.» C’era in casa chi conosceva il giuoco.
«Ah no!» sbuffò Molesin perdendo le staffe. «Ah no! Ah no! Ah corpo de sbrio baco po no! Ah bustegada! Ah grazie!» Soffiò rabbiosamente sopra una delle candele. «Ciapè quel lume!» diss’egli. Il sior Momi ebbe un bel ribattere: «cossa cossa cossa?». L’altro non cessò d’intimargli: «ciapè quel lume!» fino a che il sior Momi, borbottando «ben ben ben», prese la candela accesa. Avrebbe voluto metter fuori un pacifico aho, ma non osò. E poi non capiva.
«E adesso?» diss’egli, guardando Molesin colla candela in mano.
«Adesso andemo in studio.»
Il salone restò buio e silenzioso. Un fioco lume di luna illuminava, in alto, la galleria cui mettono capo le due scale. Teresina, affaccendata a raccogliere le sue robe per partire l’indomani, vi passò un momento col lume, si fermò a guardar giù nell’ombra, pensò al padrone di prima, al padrone di adesso, scappò via cogli occhi grossi di lagrime, sentendo nelle pareti, nei mobili, nel pavimento, nell’ombra che si apriva e si chiudeva intorno al picciol lume, la stessa tristezza mortale che nel suo cuore. Passarono uno, due, tre quarti d’ora. Passò un’ora. Il salone era tuttavia vuoto e muto. Vi entrò Giovanni con un biglietto mandato dall’arciprete. Trovando buio, esitò. Uscì nella veranda aperta. Nessuno. Fossero fuori? Fatti pochi passi fuori, si avvide della luce che usciva dalle finestre dello studio. Ritornò in casa, entrò nella stanza del biliardo, udì la voce di Molesin che parlava basso ma vibrato. Bussò pian piano all’uscio dello studio. Aperse Molesin, irritato.
«Cossa ghe xe? Cossa volèu? No se pole! Andè! Andè!» Giovanni consegnò il biglietto e si ritirò mogio mogio. Non domandò se ci fosse risposta. Aveva saputo dal messo che il biglietto annunciava l’ufficio funebre del signor Marcello per il prossimo lunedì. Andò in cucina a raccontare del colloquio segreto fra il padrone e Molesin. La Gorlago che gli aveva già posti gli occhi cupidi addosso, udito da lui di questo colloquio misterioso, lo prese arditamente per mano, gli disse di condurla a origliare. Perchè il giovine si mostrava onestamente ritroso, gli domandò con un sorriso equivoco: «el ga paüra del scür?» Giovanni resistette. Ella fece una spallata sprezzante e andò sola. Quel brutto vecchio Molesin col quale aveva sprecato, nella sua larga benignità, qualche smorfia, le era odioso. Sbagliò un uscio, urtò delle sedie, ma giunse alla meta.
Ella si era ordinato, prima di uscire della cucina, un caffè. Il caffè era pronto da un pezzo e la Gorlago non ricompariva. Giovanni andò a prenderne notizie. Non ritornano nè Giovanni nè Gorlago. Finalmente Giovanni rientra di corsa fra spaventato e ridente, annuncia che nello studio si fa un baccano d’inferno. C’è la Gorlago che strepita come una bestia. Pare che corrano anche dei pugni. Tutta la compagnia, cuoca, custode, moglie del custode, Giovanni, si precipita allo spettacolo. Entrano, in punta di piedi, nella sala del biliardo. Odono la Gorlago che strilla il proprio panegirico: «l’a de savè che mi» questo e «che mi» quello, il sior Momi che sbraita: «zitto, tasì, andemo, basta!» Molesin che geme: «ma sì, benedeta, lo so, benedeta!» Giovanni scappa in giardino, spia dalla finestra, vede il sior Momi in piedi fra il tavolo e la poltrona, che scuote le mani verso la Gorlago scongiurando, la Gorlago che avanza, coi pugni sui fianchi e le spalle curve, contro Molesin come per divorarlo e Molesin che indietreggia, più bianco della sua camicia, verso la camera da letto del povero padrone. Giovanni lo vede già afferrare la maniglia dell’uscio, scappare per di là, capitare in salone. Scappa dentro anche lui, dà l’allarme ai compagni che tempestano via in fuga, tutti in un gruppo, fino alla cucina. E allora Giovanni, che in parte ha origliato in parte ha indovinato, se li raccoglie attorno, spiega. La cosa è andata a questo modo. Quando la Gorlago ha messo l’orecchio all’uscio dello studio, il padrone nuovo e il dottor Molesin stavano parlando di lei. Il padrone nuovo ne faceva gli elogi. Si capisce che, dopo, il dottor Molesin ne deve aver detto male. Allora lei dev’essere saltata dentro a fare il diavolo. Giovanni, che si era allontanato mentre discorreva il padrone, ritornando l’aveva udita gridare: «Mi? Mi? Mandamm via? Mandamm via mi?». A questo punto del racconto di Giovanni, la voce di Molesin chiamò: «Ohe! Qualchedun! Lume!». Il gruppo si sciolse, Giovanni andò cercando il dottore con una candela, lo trovò in salone, stravolto, tremante. Brontolava: «Che maledetta casa scura!». Ordinò a Giovanni di svegliarlo l’indomani mattina alle cinque. E, presa la candela, salì le scale.
La Gorlago capitò in cucina, dura dura, scura scura, prese il suo caffè senza dir verbo. Il sior Momi capitò in salone, suonò, domandò del signor dottor Molesin. Costui, che si era trattenuto nella galleria per spiare, se gli riusciva, il padrone e la governante quando per avventura sbucassero insieme dallo studio e cogliere qualche loro parola, si affacciò al salone fra una colonnina e l’altra, buttò giù sul naso, levato all’aria, del sior Momi un rabbioso:
«Son qua.»
«Persuasa» disse il sior Momi, a voce bassa.
Molesin lo guardò, lo guardò, brontolò ch’egli era persuaso, per conto suo, di partire, l’indomani mattina, alle sei. Ritirò il capo di fra le colonnine, vi ricomparve un momento dopo colla candela in mano.
«Buona notte» diss’egli.
Allora il sior Momi salì ad affrontarlo.
«No La crede? Persuasa. La va.»
Molesin rispose scuro e pesante come il piombo:
«Vedaremo.»
«La vedarà!» replicò il sior Momi. Allora il dottore ricordò un altro impegno preso dal sior Momi prima che la furiosa Gorlago facesse irruzione nello studio.
«E la tosa?»
Colla stessa tranquilla sicurezza colla quale aveva detto parlando della Gorlago, «la va», il sior Momi rispose, parlando di sua figlia: «La vien.»
E Molesin ripetè enfaticamente:
«Vedaremo.»
Il sior Momi prese un tono di familiarità affettuosa, allungò la mano al braccio dell’amico, lo persuase con molli blandimenti di parole e con frequenti «aho aho» a ridiscendere nel salone, gli propose di chiudere la serata in pace al tavolino da giuoco. Poichè il dottore non conosceva il foracio, si poteva fare un piccolo «tresette pizzeghin». Il «tresette pizzeghin» si giuoca in due e prende il nome da ciò che ciascuno dei giuocatori, ad ogni giuocata, pizzica e cava per sè, voltandola, una carta delle sedici che restano in tavola coperte poichè le prime ventiquattro furono partite fra di essi per metà. Giuocarono, Molesin facendo il cipiglio alle carte cattive che voltava, il sior Momi facendo aho aho alle carte buone. Nessuno fiatò più dei grossi «affari». E non pensavano, ambedue, che a quelli. Molesin dimenticava spesso di pizzicare e di voltar le carte; il sior Momi non dimenticava mai. Infatti Molesin, pensando che il suo avversario tirava senza dubbio a infinocchiarlo e leggendogli nel viso come nei modi amabili una maligna fiducia di riuscire, rivolgeva fra sè quali potessero essere le trappole nemiche e come gli convenisse navigare per toccar la meta, costringere Momi a patti ragionevoli. Procedeva nel pensiero verso questa meta, quale di notte procede per acque infide una nave da guerra, che va lenta lenta, colle artiglierie pronte, e saetta in giro le tenebre di occhiate elettriche. La Gorlago partirebbe; sì, n’era persuaso. Partirebbe per finta; questo non importava, purchè partisse. Ma la ragazza? Verrebbe? E poi, si farebbe monaca? Cederebbe, facendosi monaca, tutto il suo al padre, come aveva insinuato don Emanuele? Questioni lontane, pensò il dottor Sottile, e dubbie assai. Venga intanto, madamigella. Poi si vedrà. Molesin non dimenticò più nè di pizzicare nè di voltare le carte.
Il sior Momi, dal canto suo, accordava il sorriso delle carte buone, che veniva voltando, col sorriso d’interne visioni. Al convento per sua figlia, fattogli balenare da Molesin sulla fede di don Emanuele con una relazione alquanto fantastica delle parole di costui, non aveva creduto nè credeva. Giudicava che sua figlia fosse di temperamento amoroso. «Se sbaglio» pensava egli pure, «si vedrà.» Intanto mostrerebbe di credere al giudizio del cappellano, seconderebbe, con prudenza, l’azione dei preti. A richiamare la ragazza non poteva sottrarsi. Se poi resistesse... si vedrà. La Gorlago se ne va domattina, non a Cantù, come sarà detto, ma a Padova, colla chiave della casa e della cantina con un buon gruzzoletto di quattrini; e vi conduce vita ritirata fino a che le faccende si mettano in qualche modo chiaro. Questo è il patto suggellato nello studio con un tenero abbraccio, dopo l’uscita di Molesin: una canaglia da giuocare, ha detto Momi alla sua Moma, come la chiamava nelle ore di effusione.
E si scrive alla figliuola che si è cambiata idea, che si vuole il suo ritorno a casa. Se la piglia bene, cosa molto difficile, si va avanti, la strada è buona. Se la piglia male... ci sarà modo di rimediare. Il sior Momi, seduto sulla soffice bambagia di alquanta rendita al portatore, che dalla Montanina ha emigrato a Padova, sorride alle carte buone, dall’intimo.
Finito il giuoco, suona per Giovanni, gli ordina, titubante, guardando l’ospite, di svegliare il signor dottor Molesin l’indomani mattina alle cinque. Giovanni risponde che sa. Molesin alza verso il domestico la mano aperta.
«Vegnì alle sette» dice. «Son straco. Vegnì alle otto.»