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IN GIUOCO 293

del giovine prete era pieno di livore verso donna Fedele; di un livore ch’egli giustificava nella propria coscienza col cambiargli nome, col chiamarlo zelo sacerdotale, doveroso zelo contro una persona della quale si conoscevano biasimevoli indipendenze, in materia religiosa e morale, dall’Autorità ecclesiastica, che aveva permesso un ballo di contadini nel suo giardino, che si arrogava di leggere e spiegare il Vangelo ai suoi dipendenti, che si era legata di tanta amicizia con un prete sospetto come don Aurelio, che proteggeva un modernista facinoroso come il giovine Alberti. Se una punta del compresso rancore personale gli scattava su a bucare queste sante fasciature, don Emanuele si sforzava sinceramente di ricacciarla sotto, se ne assolveva pregando per l’eterna salute di quell’anima pericolante e pericolosa quanto più pareva irreprensibile nella vita e nelle pratiche del culto. Intendeva mettersi egli stesso all’impresa di strapparle quella giovine, perchè l’arciprete era troppo molle, troppo bonario.

Quando la serva gli annunciò il signor dottor Molesin, don Emanuele, che stava leggendo il breviario, ebbe la visione dell’incontro colla Vayla in sagrestia, della scenata sulla strada di Mea, e si fece il segno della croce per cacciare da sè ogni spirito vendicativo e disporsi a far del male per la causa del bene. La compunzione interna, fredda e dura, gli si leggeva sulla fronte, nei tristi occhi acquosi e persino nell’incedere tardo, composto, dell’allampanata persona.

«Cossa vorla» pensò Molesin «sta anima longa?» E gli fece un profondo inchino cui l’anima lunga rispose con un piegar lieve del capo e un gesto della mano, pieno di degnazione prelatizia. Molesin gli domandò subito, ossequiosamente, dell’arciprete, soggiungendo qualche parola di compiacenza commossa per la sua prossima esaltazione nella Chiesa. Don Emanuele