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298 CAPITOLO DECIMO


Altro timido «aho.» C’era in casa chi conosceva il giuoco.

«Ah no!» sbuffò Molesin perdendo le staffe. «Ah no! Ah no! Ah corpo de sbrio baco po no! Ah bustegada! Ah grazie!» Soffiò rabbiosamente sopra una delle candele. «Ciapè quel lume!» diss’egli. Il sior Momi ebbe un bel ribattere: «cossa cossa cossa?». L’altro non cessò d’intimargli: «ciapè quel lume!» fino a che il sior Momi, borbottando «ben ben ben», prese la candela accesa. Avrebbe voluto metter fuori un pacifico aho, ma non osò. E poi non capiva.

«E adesso?» diss’egli, guardando Molesin colla candela in mano.

«Adesso andemo in studio.»


Il salone restò buio e silenzioso. Un fioco lume di luna illuminava, in alto, la galleria cui mettono capo le due scale. Teresina, affaccendata a raccogliere le sue robe per partire l’indomani, vi passò un momento col lume, si fermò a guardar giù nell’ombra, pensò al padrone di prima, al padrone di adesso, scappò via cogli occhi grossi di lagrime, sentendo nelle pareti, nei mobili, nel pavimento, nell’ombra che si apriva e si chiudeva intorno al picciol lume, la stessa tristezza mortale che nel suo cuore. Passarono uno, due, tre quarti d’ora. Passò un’ora. Il salone era tuttavia vuoto e muto. Vi entrò Giovanni con un biglietto mandato dall’arciprete. Trovando buio, esitò. Uscì nella veranda aperta. Nessuno. Fossero fuori? Fatti pochi passi fuori, si avvide della luce che usciva dalle finestre dello studio. Ritornò in casa, entrò nella stanza del biliardo, udì la voce di Molesin che parlava basso ma vibrato. Bussò pian piano all’uscio dello studio. Aperse Molesin, irritato.

«Cossa ghe xe? Cossa volèu? No se pole! Andè!