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300 CAPITOLO DECIMO

verso la camera da letto del povero padrone. Giovanni lo vede già afferrare la maniglia dell’uscio, scappare per di là, capitare in salone. Scappa dentro anche lui, dà l’allarme ai compagni che tempestano via in fuga, tutti in un gruppo, fino alla cucina. E allora Giovanni, che in parte ha origliato in parte ha indovinato, se li raccoglie attorno, spiega. La cosa è andata a questo modo. Quando la Gorlago ha messo l’orecchio all’uscio dello studio, il padrone nuovo e il dottor Molesin stavano parlando di lei. Il padrone nuovo ne faceva gli elogi. Si capisce che, dopo, il dottor Molesin ne deve aver detto male. Allora lei dev’essere saltata dentro a fare il diavolo. Giovanni, che si era allontanato mentre discorreva il padrone, ritornando l’aveva udita gridare: «Mi? Mi? Mandamm via? Mandamm via mi?». A questo punto del racconto di Giovanni, la voce di Molesin chiamò: «Ohe! Qualchedun! Lume!». Il gruppo si sciolse, Giovanni andò cercando il dottore con una candela, lo trovò in salone, stravolto, tremante. Brontolava: «Che maledetta casa scura!». Ordinò a Giovanni di svegliarlo l’indomani mattina alle cinque. E, presa la candela, salì le scale.

La Gorlago capitò in cucina, dura dura, scura scura, prese il suo caffè senza dir verbo. Il sior Momi capitò in salone, suonò, domandò del signor dottor Molesin. Costui, che si era trattenuto nella galleria per spiare, se gli riusciva, il padrone e la governante quando per avventura sbucassero insieme dallo studio e cogliere qualche loro parola, si affacciò al salone fra una colonnina e l’altra, buttò giù sul naso, levato all’aria, del sior Momi un rabbioso:

«Son qua.»

«Persuasa» disse il sior Momi, a voce bassa.

Molesin lo guardò, lo guardò, brontolò ch’egli era persuaso, per conto suo, di partire, l’indomani mattina,