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294 CAPITOLO DECIMO

non incontrò affatto il discorso dell’esaltazione, scusò il Superiore assente, si disse incaricato di rappresentarlo. L’arciprete aveva intese con grande compiacenza le buone intenzioni del signor da Camin verso la sua chiesa e i suoi poveri. I bisogni dell’una e degli altri erano grandi ma l’arciprete si rallegrava sopra tutto di queste inclinazioni pie del suo nuovo parrocchiano. Egli avrebbe cercato di mostrargli la propria gratitudine nel modo più conveniente per un sacerdote in generale e per un parroco in particolare, aiutandolo nelle sue difficoltà domestiche, interponendosi fra il genitore e la figlia perchè avessero pace fra loro, con grande vantaggio dei loro interessi temporali ed eterni.

Fin qui il buon dottore Molesin, seduto in faccia al cappellano colle gambe aperte e le mani spiegate sulle ginocchia, non aveva fatto che alzare e abbassare, come un orso bianco, il capo curvo al pavimento, ora con un semplice moto di ripetuto assenso, ora collo stesso moto complicato di dimenamenti a destra e a sinistra, che significavano un soprappiù, uno sdilinquimento di approvazione. Ma, udite appena le prime parole della seconda parte del discorso, il capo curvo cessò di frugar l’aria.

Don Emanuele si vedeva costretto a toccare un argomento delicato. Nè l’arciprete nè egli stesso potevano far niente per la pace domestica del signor da Camin, se non si toglieva di mezzo uno scandalo. Lo capiva il signor Molesin? Molesin che non si dimenava più ma configgeva tuttavia gli occhi, fra le gambe divaricate, nelle commessure dei mattoni, si eresse di scatto, si portò sulla bocca una mano spiegata, se ne compresse le mascelle, ficcò lo sguardo in un angolo della camera, aggrottò le ciglia e si tenne immobile, nello sforzo di capire. Pareva cercare il senso di un vocabolo babilonese o il nome di un bisavolo di Antenore.