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290 CAPITOLO DECIMO

dai castagni. Sedette sulla prima panca che trovò e vi fece sedere Momi con piglio solenne:

«Oh, qua.»

Lasciati passare pochi momenti, rese finalmente omaggio alla bellezza della natura:

«Belo belo belo belo.»

E tirò su Momi a bruciapelo:

«La senta, Momi. Femo un afare.»

Il sior Momi rispose coll’aria sua più stupida:

«Ah? Cossa? Ca senta? Un afare?»

Raccapezzatosi mentre tirava in lungo queste esplosioni, capì che Molesin intendeva proporgli una cifra per il famoso accomodamento e si armò.

«Adesso» riprese il dottore parlando l’italiano, venetamente rammollito, delle grandi occasioni, «Ella, signor Momi egrejo, è padre e padrone, diremo così, di una bella sostanza. Di un sostanzone, diremo così.»

«Aho aho!» fece il sior Momi, con un ineffabile accento ironico. L’altro continuò imperterrito:

«Adesso, per avere la Sua pace in perpetuo, anche quella della coscienza, Ella potrebbe dare il cento per cento.»

«O’l d’un!» esclamò Camin, con un’altra risatina grottesca.

«Cossa gàla?» fece Molesin, ricascando per un momento nel dialetto. «Non la xe cussì? Ma via! Voglio esserle amico. M’impegno di far accettare ai miei clienti il settantacinque per cento.»

Il sior Momi non seppe tenersi dall’esclamare:

«Brao putèlo!» Bravo ragazzo! Tributata questa lode al candore infantile dell’amico, il sior Momi si colorò per la prima volta nel viso e nell’eloquenza. Non pareva più il sior Momi. Due roselline infuocate gli spuntarono sugli zigomi gialli. Aggrottò le ciglia. Il capo gli sussultava, parlando, sul collo, quanto glielo