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296 | CAPITOLO DECIMO |
conto, dedicò un sospiro alla spina dell’arciprete. E il sospirone fu tanto profondo da far alzare un momento gli occhi acquosi. Si abbassarono. Don Emanuele ritornò sulle ignoranze del principale. L’arciprete ignorava che quella povera figliuola, nell’ambiente di casa Vayla, era giunta a meditare un delitto orribile. «Gesummaria, volevela copar Momi?» pensò Molesin esterrefatto all’idea che il sior Momi gli scomparisse di fra le unghie. Don Emanuele non si spiegò di più, quanto al delitto. Deplorò invece diffusamente i tossici vapori dell’atmosfera Vayla. La ragazza, stata sua penitente, era buona e religiosa. Poteva sperarsi da lei una forte reazione, una di quelle reazioni che portano interamente a Dio le anime ferite dal mondo. Ma era necessario di coltivarla. Ciò non era possibile in casa Vayla. Occorreva l’intervento del padre che, usando dei suoi sacri diritti, la riprendesse colla forza della legge se altrimenti non poteva. Secondo don Emanuele la renitenza della ragazza era frutto dei suggerimenti di donna Fedele.
Ritornata a casa, sempre dopo uscitane l’altra persona, la ragazza cambierebbe. L’arciprete, egli stesso, la cognata dell’arciprete, persona di gran pietà, porrebbero tutto in opera per coltivare il germe di santificazione, latente in quell’anima. Era un’anima desiderosa di staccarsi dal mondo, un’anima indifferente alla ricchezza.
«Creda creda che quella figliuola abbandonerebbe tutto il suo al padre senza l’ombra di un rimpianto.»
Il cappellano volle che queste parole s’imprimessero bene nel cervello di Molesin. Molesin non lo lasciò quasi finire, si affrettò a parlare dell’interesse spirituale in questione, come se l’altro non fosse affar suo. Ricordò un’antica prozia monaca del sior Momi e, inarcando le sopracciglia col senso filosofico-religioso dei grandi ricorsi storici e delle arcane leggi provvidenziali, diede del trombone nel fazzoletto turchino, in segno di essere pronto a marciare.