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IN GIUOCO 295

«No» diss’egli, levando gli occhi attoniti a don Emanuele. «Non capisco.»

Don Emanuele li fissò alla sua volta, quegli occhi attoniti, e Molesin li strinse, li strinse, per istinto, perchè l’indagatore sguardo acquoso non gli penetrasse oltre il primo velo dell’anima cipollinea. E ripetè: «no, La scusi, no. Insomma, no».

«Quella disgraziata creatura» suggerì lento lento, quasi sottovoce, don Emanuele «che oggi si trova, credo, anche lei alla Montanina...»

«Ah! — Sì!» masticò Molesin. «Sì! Capisco! Lei vuol dire la governante. Sarebbe meglio che partisse. Sì, capisco. La sua presenza potrebbe guastare la pace fra genitore e figlia. La figlia potrebbe credere, dirò così, anche lei, eccetera eccetera. Momi la mandi via, dice Lei. Benissimo. La manderà via. Rispondo io. Quantunque, in verità, non credo...»

«E presto» interruppe don Emanuele.

Molesin fece un inchino di acquiescenza, in silenzio. Allora don Emanuele, con un gesto da persona attempata, com’erano tutti i suoi gesti, scarsi e misurati, si appuntò al viso le cinque dita raccolte della mano sinistra e le considerò attentamente.

«Partita la disgraziata» diss’egli, «è necessario che entri subito la figlia.»

Sciolto il fascio acuto delle cinque dita, guardò Molesin con una profonda tristezza negli occhi acquosi. Si fece quindi puntello di una mano alla gota, reggendosi il cubito coll’altra mano e scosse desolatamente il viso senza più guardare il suo interlocutore, tutto contrito di riverbero.

«Questa figliuola nelle mani di quella signora» diss’egli, «ecco la grande spina dell’arciprete. E l’arciprete non sa quello che io so.»

Neppure Molesin sapeva; ma intanto, ad ogni buon