Le supplici (Euripide)/Secondo episodio
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Torna Teseo con un araldo.
teseo
Il medesimo ufficio ognor tu presti
per Atene e per me: portar messaggi.
L’Asopo e l’acque dell’Ismèno or varca,
ed al superbo dei Cadmèi signore
parla cosí: «Tesèo ti chiede in grazia
che seppellir gli lasci i morti, e spera
tal favore ottener, poi che la terra
sua con la tua confina: e, in cambio, amica
ti sarà d’Erettèo tutta la gente»
Qualora acconsentir vogliano, tu
súbito torna: ove rifiuto oppongano,
aggiungi allor che la festosa schiera
dei miei soldati attendano. L’esercito
è tutto in punto, presso all’acque sante
del Callícoro1, e pronto alla battaglia.
Appena seppe il mio volere, Atene,
di buon grado s’accinse a questa impresa.
Ehi, chi giunge a troncar le mie parole?
Sembra, ma non ne son certo, un araldo
di Tebe. Attendi tu. Forse i disegni
miei previene, e il viaggio a te risparmia.
Entra un araldo di Tebe.
araldo
Il re dov’è di questa terra? A chi
di Creonte recar devo il messaggio,
che in Tebe ora ha il poter, poiché per mano
del fratel Poliníce, alle settemplici
mura di Tebe innanzi Etèocle cadde?
teseo
Prima di tutto, da un error le mosse
hai prese, o forestier, quando in Atene
tu cerchi un re: qui non comanda un solo:
libera è la città: comanda il popolo,
con i suoi deputati, a turno eletti
anno per anno; e privilegio alcuno
non hanno i ricchi: ugual diritto ha il povero.
araldo
Tu m’hai concesso un punto di vantaggio,
come al giuoco dei dadi. La città
dalla quale son giunto, è governata
da un uomo sol, non da la folla. E alcuno
quivi non è che a ciance esalti il popolo
pel proprio lucro, e qua e là lo volga.
Tutti miele, costor, tutti lusinghe
son pria, che in danno poscia si convertono.
E con calunnie nuove allor nascondono
gli antichi falli, e alla giustizia sfuggono.
D’altronde, come mai potrebbe il popolo,
che guidare non sa neppure il proprio
razïocinio, reggere uno stato?
A insegnar tal dottrina, il tempo giova,
e non la fretta; e un povero bifolco,
anche se inculto non sarà, distolto
dal suo lavoro, agl’interessi pubblici
badare non potrà. Malanno grande
è per gli onesti, quando un uomo tristo
e venuto dal nulla, acquista credito,
e con le ciance sue dòmina il popolo.
teseo
È sottil questo araldo, e di parole
artefice sagace, anche se impronto.
Or, poiché tu proposta hai tale gara,
poiché m’inviti a tal disputa, ascoltami.
Nulla per un paese infesto è piú
d’un assoluto re. Qui, per primissima
cosa, leggi non son, per tutti uguali.
In propria casa un uomo sol detiene
le leggi, uno il potere; e l’uguaglianza
non c’è. Ma quando leggi scritte esistono,
ugual giustizia ottiene il ricco e il povero.
Il debole può allor, quando l’insultano,
rimbeccare il possente: allora il piccolo,
quando ha ragione, può vincere il grande.
Ecco che cosa è libertà: «Chi ha
qualche utile consiglio, e vuole offrirlo
alla città?». Chi se la sente, celebre
divien di colpo; e chi non se la sente,
se ne sta zitto. Uguaglïanza piú
perfetta, esiste? E dove della terra
il popolo è sovrano, ivi si gode
d’aver nella città pronta una florida
gioventú; ma nemica invece un principe
assoluto la stima, e i piú gagliardi
uccide, e quanti ch’abbian senno reputa,
ché pel suo regno teme. E come, allora,
può divenir gagliarda una città,
se v’ha chi tronca, quasi a Primavera
spighe dal prato, ogni baldanza, e il fiore
dei giovani discerpa? Ed a che giova
agi e ricchezze procurare ai figli,
perché piú cresca del tiranno il lusso?
A che fanciulle costumate in casa
crescere, se sollazzo esser dovranno,
quand’ei lo voglia, del signore, a che
lagrime seminare? Oh, ch’io non viva,
se alcun mai debba vïolar mia figlia!
Con questi colpi i colpi tuoi rintuzzo.
Ma quale scopo a questo suol t’adduce?
Col tuo malanno qui giunto saresti,
se tu non fossi araldo: ché tu chiacchieri
piú del bisogno; e un messaggero, esporre
dovrebbe quanto gli fu imposto, e andarsene
alla piú spiccia. E d’ora in poi, Creonte
men loquaci di te ci mandi i nunzi.
coro
Ahimè, ahimè! Se la fortuna un dèmone
accorda ai tristi, come se dovessero
sempre aver buona sorte, insolentiscono.
araldo
Sia; parlerò. Quanto alla nostra disputa,
tu sei di ciò convinto, io del contrario.
Adesso io t’inibisco, e tutto il popolo
meco è di Cadmo, che s’accolga Adrasto
in questa terra; e s’egli pur v’è giunto,
pria che del Sol tramonti il raggio, sciogliere
devi l’incanto delle sacre bende,
e scacciarlo di qui, né con la forza
le salme devi riscattar: legame
non c’è che d’Argo alla città ti stringa.
Ché, se tu retta mi darai, la nave
della città potrai senza tempesta
governare; se no, grandi marosi
piomban di guerra già, su noi, su te,
sugli alleati tuoi. Bada che, irato
per le parole mie, tu che una libera
città governi, nel valor fidando
del braccio tuo, gonfiar troppo non debba
la tua risposta. È confidenza pessimo
mal, che l’ire accendendo al punto estremo,
molte città sospinse a guerra. E quando
nell’assemblea del popolo si mette
la guerra ai voti, nessun v’è che in conto
ponga la propria morte; e la sciagura
storna su gli altri ognor. Se invece, quando
vota la guerra, ognuno innanzi agli occhi
la guerra avesse, l’Ellade in rovina
mai non andrebbe per manía di guerre.
Eppure, ogni uomo il bene e il mal distingue,
e bene giudicar fra guerra e pace
sa, quanto questa sia miglior di quella.
Alle Muse la pace è dilettissima,
odïosa alle Furie; e l’opulenza
ama, e i pargoli belli; e noi gettiamo
tal bene, o stolti, e la ragion del forte
e la guerra eleggiamo, onde asserviti
son lo stato allo stato, e l’uomo all’uomo.
Ora i nemici spenti, a cui die’ morte
la tracotanza, tu soccorri, e vuoi
ch’abbian riscatto e sepoltura. E dunque,
giusto non fu che Capanèo, dal folgore
arso, piombasse, ei che, la scala ai muri
appoggiando, giurò che presa avrebbe
Tebe, volesse o non volesse il Nume?
E non rapí, schiuso improvviso, il bàratro,
il vate degli augelli2, e la voragine
non inghiottí la sua quadriga? E giacciono
presso alle porte gli altri duci, l’ossa
alle giunture han dai macigni infrante.
Or, di Giove piú saggio esser presumi,
dunque, o ammetti che i Numi a buon diritto
sterminano i malvagi. Un uom di senno
amare deve prima i figli, poi
i genitori, e poi la patria, e fare
che prosperi, e non già che sia distrutta.
Ben poco affida temerario duce,
temerario nocchiero; e saggio è l’uomo
che sa, quando bisogna, esser tranquillo.
E per me, la prudenza è pur coraggio.
coro
Bastò che Giove li punisse: offenderli
di tanta offesa, a noi mal si conviene.
adrasto
O scellerato!
teseo
Taci, Adrasto, frena
la lingua, e non voler parlare prima
di me: ché a me spedito, e non a te
fu questo araldo; e a me spetta rispondere.
E cònfuto per primo il primo punto.
Non mi risulta che Creonte sia
il mio padrone, né che tanto sia
di me piú forte, da poter costringere
Atene al suo voler. Se ci lasciassimo
imporre, i fiumi risalir dovrebbero
alle sorgenti loro. Io, questa gara
provocata non ho, ché non irruppi
nella terra cadmèa, con questi supplici.
Senza far danni a Tebe, e senza pugne
micidiali addurre, io dar sepolcro
bramo alle salme degli eroi, difendere
una legge comune a tutti gli Èlleni.
Che di men giusto in ciò? Se dagli Argivi
riceveste sopruso, ora son morti,
ché gl’inimici voi sconfitti avete,
con vostra gloria e con vergogna loro,
e trionfa giustizia. Or, consentite
che le lor salme sian rese alla terra,
che torni là donde alla luce venne
ogni elemento: all’ètere lo spirito,
e le membra alla terra: esse, perché
fosser l’albergo della nostra vita,
ci furono concesse; e poi le deve
chi le nutrí, recuperare. Quando
non seppellisci i morti, ad Argo pensi
danno recar? No, punto! A tutta l’Ellade
infliggi un colpo, se di tomba privi
tu lasci e degli onor debiti i morti.
Questa legge, se poi sancita fosse,
viltà consiglierebbe ai cuor piú forti.
Messaggi di minacce or tu mi rechi;
e poi sgomento avete che sotterra
scendano i morti? E di che mai temete?
Forse che quando sian laggiú, vi scavino
la terra sotto i piedi? Oppur che possano
negli anfratti del suol dar vita a figli
che vendichino i padri? Oh, sciocco sperpero
è di parole, il confutar sí tristi
sí maligni terrori. Oh, stolti, via,
considerate la miseria umana:
una lotta è la vita; e la fortuna,
chi l’ha prima, chi poi, chi l’ebbe già.
Ella in sollazzo vive ognor: ché il misero
l’esalta, che sollievo ai mali spera,
e, per timor che l’abbandoni l’aura
sua, la porta a le stelle il fortunato.
Tanto saper dunque bisogna, e senza
cruccio patir le offese lievi, e torti
non fare ad altri che alla patria nocciano.
Or come finirà? Concedi a noi
che vogliamo esser pii, dar sepoltura
ai corpi estinti; o ben si vede quale
sarà la fine: io là verrò, darò
sepolcro ai morti con la forza. Mai
detto sarà fra gli Èlleni che a me,
che di Pandïone alla città, l’antica
legge dei Numi giunse, e fu spregiata.
coro
Fa’ cuor: se di giustizia il raggio salvi,
potrai fuggire il biasimo degli uomini.
araldo
Soggiunger posso una parola breve?
teseo
Parla, se vuoi: parole non ti mancano.
araldo
Non torrai d’Argo i figli al suolo d’Àsopo.
teseo
Anche la mia risposta odi or, se vuoi.
araldo
Odo: a vicenda favellar conviene.
teseo
Li trarrò quindi, e li seppellirò.
araldo
Degli scudi affrontar dovrai la sorte.
teseo
Altri perigli molti affrontai già.
araldo
Forse il padre ti die’ che tutti fiacchi?
teseo
I prepotenti: non m’appiglio ai buoni.
araldo
Troppo vi sobbarcate, Atene e tu.
teseo
Sí, molto si sobbarca, e molto prospera.
araldo
Vieni: t’aspettan le spartane cuspidi.
teseo
Qual può furia di guerra avere un drago?
araldo
Alla prova il saprai: troppo or sei giovane.
teseo
Tanto eccitarmi non potrai, che l’animo
pei tuoi vanti io mi crucci. Orsú, ripígliati
le vane ciance che portasti, e vattene
da questo suol, ché nulla si conclude.
Ora ogni oplita muova, ogni guerriero
che dal carro combatta, e di sudore
stillando i morsi, verso il suol di Cadmo
spingan le bocche dei cavalli. Andrò
col ferro in pugno verso le settemplici
porte di Tebe, araldo io stesso. Tu
devi restare, Adrasto, e non confondere
la tua sorte e la mia. Novello duce,
a nuova guerra io movo col mio Dèmone.
Solo una cosa occorre a me: che i Numi
stiano con me, che la vittoria accordino.
Perché nulla il valor profitta agli uomini,
quando non ha propri alleati i Dèmoni.