Le solitarie/Il posto dei vecchi
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IL POSTO DEI VECCHI.
Feliciana non provò grande sorpresa, nè grande commozione, quando, un giovedì, nell’ora delle visite agli infermi, alla sua solita domanda l’impiegato di turno all’ospedale rispose a muso duro, senza preamboli, scartabellando un registro:
— Il numero cinquantanove?... della corsia San Giuseppe?... è morto stanotte.
Quel burocratico della beneficenza, grazioso come un porcospino, aveva fatto benissimo a risparmiarle le condoglianze.
Già da qualche mese, in un angolo della sua camera in via Vetere, ella accendeva quotidianamente un lumicino dinanzi all’immagine della Madonna di Caravaggio; e lei sola ne sapeva il perchè, lei sola custodiva il voto. Ed ecco, la Madonna aveva compiuto il miracolo necessario: aveva tolto alla vita e all’osteria Gigi Fracchia detto Rossini, popolare nelle taverne di porta Ticinese per la sua splendida voce tenorile e per la burlesca e parolaia prodigalità, colla quale gettava nel fondo paonazzo dei bicchieri i suoi guadagni di vetturino pubblico e quelli di sua moglie, cucitrice di bianco.
La filosofia di Feliciana era dritta e logica: chi è inutile è dannoso, chi è dannoso deve morire. Suo marito era morto in tempo. Per due bimbi piccoli, è ben più provvida una madre vedova, ma attiva e sana, che non lo siano cento padri beoni. E basta, di uomini, nella sua vita. Quell’uno, in sette anni di malinconica esperienza coniugale, gliene aveva lasciata la nausea. Avrebbe tirato il carro da sola, fino a quando le fossero bastate le forze; e allora i ragazzi, cresciuti ed a posto, avrebbero pensato a lei.
Tuttavia, convinta a ragione che i guadagni d’una povera cucitrice di bianco son troppo incerti e saltuari perchè tre bocche possan fondare su di essi la certezza di vivere, Feliciana andò senza esitanze a raccomandarsi al cavaliere Agliardi — al quale da anni ed anni portava camicie e colletti per conto di un elegante magazzino, e che era proprietario d’una fabbrica di lanerie.
Il cavaliere Agliardi cadde dalle nuvole.
— Come, come, come?... (balbettava un poco, era il suo difetto e il suo incubo). Come, come, come?... Feliciana!... In una fabbrica, tu?... Ma non vedi quanto sei delicata?... Credi tu di resistere, in un inferno simile?...
La donnina che gli stava davanti aveva, infatti, l’aspetto minuscolo. Ma lo fissava con due larghi occhi lucenti di fosforo e d’energia: gli parlava con una larga bocca tagliata dritta sopra un mento sporgente. Maschera di resistenza: piccolo organismo d’acciaio, nel quale ogni molla era al proprio posto, ogni rotella funzionava a tempo, come nelle macchine di fattura perfetta.
Più che dalla compassione, il buon cavaliere fu vinto da un senso inconscio di rispetto per quella forza femminile foggiata, piegata a strumento di lavoro. E Feliciana potè entrare nell’officina; e qualche mese dopo diveniva assistente d’una squadra di tessitrici — per una lira e settantacinque centesimi al giorno.
Già. Una lira e settantacinque centesimi al giorno. Poichè il cavaliere Agliardi era buono; ma, allora, verso il milleottocentosettanta, le paghe femminili non salivano più in là. Se ne accontentava, la coraggiosa, pur d’essere sicura del pane. In quei tempi non si parlava ancora di cooperative operaie, di sindacati e di scioperi. Ed ella riusciva, in letizia, a bastar con quel denaro a se stessa ed ai figli, che, dopo la scuola, le venivan sorvegliati da una vicina. A se stessa?... Oh!... Una ciotola di pane e latte a mezzogiorno, una minestra o una fetta di polenta alla sera.... Soleva dire ridendo: “Chi predica che questo non è sufficiente per vivere, mente per la gola: il resto è buono per l’asma e per la gotta„.
Feliciana era magnificamente ottimista. Sul balcone della sua unica stanza fioriva un geranio scarlatto, ch’ella inaffiava alle cinque del mattino, prima di partire per l’opificio, e salutava la sera con dolci e gaie parole, quasi fosse la sua terza creatura. La domenica, a passeggio coi due monellucci pei magri campi polverosi fuori porta, cantava con voce fresca la canzonetta di moda, e da tutti i pori del corpo e dell’anima respirava la gioia del sole, del verde, di quelle poche ore di libertà. E il tempo passò. Perchè il tempo passa così rapido?... Quel che noi lasciamo indietro è sempre il meglio, anche quando è il dolore.
La donna si era insensibilmente assimilata al ritmo e alla qualità della sua giornaliera fatica. Era come se andasse e venisse con le spolette d’acciaio: come se accordasse le pulsazioni del cuore e dei polsi a quelle dei licci, dei brancali, delle leve, di quei piccoli e silenziosi bracci di macchina che sembrano moncherini dal gesto tragicamente preciso. Non poteva più immaginare la propria vita senza rotear di cinghioni sul capo, polvere di lana e odor d’olio rancido in gola, e l’amicizia rumorosa e cordiale dei compagni di fabbrica.
I figliuoli crescevano. Francesco, già a bottega, dimostrava felicissime attitudini alla meccanica e portava a casa un piccolo guadagno. Leonardo, nervoso, concentrato, intelligente, con la snella ossatura e la maschera energica della madre, s’era messo in testa di studiare, di divenir qualcuno; ed era entrato nelle scuole normali col sussidio governativo, dando lezioni per comperarsi i libri. Nel temperamento eccitabile, nell’ambizione repressa, nella fantasia di quel suo fanciullo Feliciana si riconosceva; così come vedeva riprodotta, nella robusta serenità di Francesco, la miglior parte di sè, l’ottimismo invincibile. La continuavano, forza tra le forze: era certa di trovare un giorno, in loro, il proprio riposo.
Ebbe tuttavia un muto, terribile periodo di crisi, fra i quarantacinque e i cinquant’anni. Non le sembrava più d’esser lei. Stanchezze improvvise l’abbattevano sul lavoro: insonnie aspre d’arsura, agitate da confusi incubi, la tenevan desta durante le lunghe notti, lasciandola, verso l’alba, e proprio quando doveva levarsi per correre all’officina, disfatta come un cencio. Cosa che non le era mai accaduta prima, e che l’opprimeva di vergogna, non poteva fissar gli occhi sulle larghe spalle o sulle massicce collottole de’ suoi compagni, senza sentirsene la carne turbata da brividi. Mani invisibili, ma delle quali aveva profonda la sensazione, le scorrevano lungo il corpo, gonfiato e appesantito da un misterioso travaglio interiore.
Soffriva. Scoppi di dissonanze isteriche partivan da lei, fino allora così uguale e serena. Si stringeva talvolta, perdutamente, ai figli, ormai pezzi di giovanotti, respirando con affannosa delizia il profumo di quelle fresche forze. Si sorprese, una notte, nel buio, a rimpiangere di non avere, qualche anno prima, accettato per secondo marito Gianni Forgia, il capotessìtore, che per amor di lei si sarebbe volentieri sobbarcato anche il carico dei ragazzi. Lo capiva: le era necessario un uomo, la sua carezza e il suo pugno, la sua protezione e il suo dominio. Ma gli uomini non la guardavano più: ella era giunta all’età in cui la donna, disperatamente tesa verso l’amore con tutta la maturità della carne, non desta più il desiderio.
A poco a poco le insonnie cessarono, il sangue si calmò, i nervi si distesero in un opaco equilibrio, una rilassatezza giallognola fiaccò i muscoli del corpo e del volto — e Feliciana fu vecchia.
Vecchia; ma non invalida. Per dieci anni ancora il grande viale suburbano che conduceva alla fabbrica vide, più rapida il mattino, più lenta la sera, la piccolissima figurina avvolta nello scialle nero, con la nuda testa nimbata d’argento, con la bocca pronta al frizzo, all’affettuoso richiamo, al gaio ritornello, fra le schiere dei camerati. Solo quando una sciatica l’ebbe inchiodata, tra febbri e spasimi, all’ospedale, e ridotta da non poter quasi più reggersi in piedi, Feliciana abdicò. Senza un soldo di pensione, povera in canna, col solo abito che aveva indosso, ma lieta e fiduciosa come san Francesco, disse a’ suoi figli, aprendo le braccia in croce:
— Eccomi. Ho finito. Adesso tocca a voi. —
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Francesco, il primogenito, le rispose:
— Vieni con me.
Era buono, Francesco; e guadagnava più di cinque franchi al giorno, in una fabbrica d’automobili. Non eran più i tempi nei quali Feliciana ringraziava Iddio di poter mantenere i bambini col lusso di una lira e settantacinque centesimi la giornata; ma tutto costava il triplo: pigione, carne, legumi.
E non era più libero, Francesco: aveva preso moglie: una sartina biondiccia, belloccia, energica, che lavorava in casa.
Le stanze eran tre: la madre dovette rassegnarsi a dormire in cucina, su una branda, dietro un paravento di cartone: poichè la cosidetta sala, attigua alla camera nuziale, serviva da laboratorio a Teresella durante il giorno, e da tinello la sera.
La cucinetta puzzava d’acquaio e di rinchiuso: l’unica sua finestrella a vetri smerigliati si schiudeva su una specie di pozzo-cortile, oscuro e sgretolato come lo sfogo di un carcere. Nel vecchio corpo indebolito, il giovine cuore d’allodola di Feliciana si strinse. Ella ripensò al vaso di geranio scarlatto sul balcone dell’alto nido pieno di sole ove s’era covati i suoi figli. Ora, in presenza di quell’estranea, di quella nuora dagli occhi taglienti e dalla faccia lentigginosa, sentiva bene di non essere a casa propria, sentiva bene che il figliuolo non era più suo.
Aiutava, come poteva, umilmente: rifacendo i letti, riordinando le stanze, rigovernando le stoviglie. Avrebbe anche voluto cucire e far da mangiare, canticchiando le sue canzoni; ma venticinque anni d’opificio e di dieta a pane, latte e polenta avevan ridotte a zero le sue abilità nell’ago e sui fornelli: e i malumori di Teresella, sempre furibonda contro il rincaro dei viveri e la pretensiosa grettezza delle clienti, le strozzavano il ritornello in gola. Povera donna!... Non poteva vincere, dentro di sè, la penosa impressione di essere, nella casa del suo primogenito, quasi una serva — certo una tollerata.
Ma Leonardo, dal grosso borgo dove aveva ottenuto un posto di maestro comunale, le scriveva: Pazienza, mammetta!... Presto verremo a prenderti!... Presto vivrai con noi!...
.... Noi. Anch’egli non era più solo. La solita commedia: matrimonio immaturo, capitombolo dell’ambizione nel sentimento: il giovine poeta pallido d’estri e di sogni, costretto a concorrere col diploma d’onore ad una scuoletta di campagna, pur di trovar da vivere: il “colpo di fulmine„ pei riccioli neri ed il fiorito linguaggio della collega maestrina: molti contrasti, molta retorica, una capanna ed il tuo cuore, i versi messi a dormire in un cassetto, l’uomo legato per la vita al bisogno quotidiano, con la catena da lui stesso ribadita al piede....
Ma Tittì compiva i quattordici mesi, Tittì cominciava a camminare sulle incerte gambucce un po’ storte; e Leonardo aveva riscritto alla mamma: Veniamo a prenderti, vivrai con noi.
Senza dolore ella lasciò la cucinetta al quarto piano e le acri querimonie di Teresella, per andare a divenir la bambinaia di Tittì. Dio benedetto mille e mille volte!... C’era dunque ancor qualcuno al mondo, al quale poteva essere necessaria!...
Ebbe una cameruccia, questa volta, con la culla di Tittì accanto al letto. Si svegliava spesso, la bimba, durante la notte; e bisognava lasciar riposare tranquilla la nuora, che per ragioni d’economia non aveva voluto rinunciare all’impiego.
A Feliciana parve di ringiovanire, di rivivere i tempi lontani, in cui Francesco e Leonardo erano stati nient’altro che due batuffoli di carne morbida e rosea, tutti suoi. Aveva posto qualche vaso di cineraria e di garofano sul davanzale della finestra; la finestra s’apriva su campi e su cieli; Tittì balbettava le prime confuse parolucce; la vita era buona, il Signore era giusto.
Ma dopo Tittì venne Totò, e dopo Totò venne Bebè. Malgrado la retorica chiaro-di-luna, il poeta rientrato e la maestrina agrodolce e nervosa dimostravan d’essere prosaicamente, spaventevolmente prolifici. Due parti immaturi finirono col rovinar del tutto il già sfasciato organismo della giovine donna, e le impedirono di continuar la scuola. A trentacinque anni ella era irriconoscibile, vittima d’una di quelle forme di squilibrio, che l’oscura, malefica perversità dell’utero ingenera in tante disgraziate.
Nella stretta casa le sei creature vivevano a ridosso, in promiscuità: urli di bambini, cieche e manesche collere della madre agitata dalla nevrosi, sfoghi di bile e crisi di misantropia dell’uomo sovraccarico di lavoro e di pesi morali: — e Feliciana, là in mezzo, viveva ancora.
La morte l’aveva dimenticata. Non possedeva di suo che il letto e un attaccapanni: il resto le era stato preso dai ragazzi. Quasi le mancavano i metri cubi d’aria necessari al respiro. Grandi e piccoli, con la prepotenza della loro rabbiosa vitalità, la serravano in una cerchia asfissiante, la spingevano involontariamente in là, su que’ suoi passi barcollanti e lentissimi, che intralciavano i giochi di Totò e le capriole di Bebè.
Mangiava, adesso, a parte, in una scodella speciale, zuppe di latte e di brodo, quantunque, coll’età, fosse divenuta golosissima della carne e dei legumi: ciò, da quando s’era accorta che la nuora le contava i bocconi in bocca, e che il faticoso masticar delle sue gencive vuote di denti dava nausea alla donna, divenuta un sol nervo spasmodico. Aveva oltrepassato i settantacinque, s’avvicinava all’ottantina.
Il curvo scheletro del suo corpo, solo ricoperto di pelle accapponata, conservava pure, in quella lenta mummificazione, un sangue ancor rosso, un cuore ancor valido, un cervello ancor vigile, un desiderio ancora appassionato d’esistere.
Il magnifico strumento d’attività ch’ella era stata, l’antica Feliciana padrona del mondo davanti ad un telaio in moto, tentava a volte di far rifiorire, sulle labbra incartapecorite della larva superstite, brani di allegre ariette; ma la voce non teneva più la nota, si spezzava a metà, in un umile e tremante miagolio.
Tra lo sfacelo, la sola fronte era rimasta incolume, senza una ruga, statuaria nel duro disegno quadrato. La luce di quell’anima coraggiosa s’era raccolta tutta nella fronte. Ma, se il sonno veniva a chiudere gli occhi impalliditi, e il capo si lasciava cader ciondoloni sull’esilissima e curva spalla, allora il volto, nel rilassamento dei muscoli, diveniva terribile. Dalla bocca storta e rientrante colava, alternato al respiro, un fischio unito ad un filo di bava: la fronte possente schiacciava la parte inferiore della tragica maschera carica di tutti gli anni vissuti, di tutte le fatiche affrontate, le battaglie vinte, le umiliazioni sofferte: il color terreo ad ombre verdastre, unito all’assenza dello sguardo, faceva pensare al cadavere.
Ma il sonno dei vecchi è ingannevole. Somiglia alla morte; ed è così leggero!... Feliciana pareva, sì, dormire; invece ascoltava, con l’orecchio rimasto fine come la vista.... ed una sera tremò dentro, udendo queste parole tra figlio e nuora:
— Non parlare così. Non sai quel che dici. Infine è mia madre, mi ha allevato, ha allevato Tittì. Non posso cacciarla via.
— E chi ti dice di cacciarla via?... Se la pigli Francesco. È il primogenito, insomma. A novanta, a cento anni, colei sarà ancor viva. Tu lo vedi, qui non abbiamo più posto: Tittì ha bisogno della camera per impiantarvi il suo piccolo laboratorio di ricamatrice in oro: i bambini dormono in un bugigattolo: allargarsi non si può. Tocca a Francesco: ci pensi lui!...
— Francesco ha anch’esso due figli che non guadagnano l’acqua che bevono, per ora. Anch’esso, nella sua casa, litiga con lo spazio.... Povera mamma!... Abbiamo pietà.... sarà per poco!...
— Per poco?... per poco, tu dici?... Saluterà il centenario, quella tempra di bronzo. E come mangia!... e come gode di vivere!...
La voce malvagia, rompendosi in uno stridulo riso isterico, feriva il cuore di Feliciana, con punte acutissime d’aghi. Bisognava dunque morir per forza, perchè non c’era più posto per lei?... E con qual coraggio la nuora aveva potuto affermare che ella godeva di vivere?... Non viveva, ecco, e non moriva. Era una sopravvissuta. La provvidenza dovrebbe, in tempo, concedere la buona morte ai vecchi poveri: concedergliela in premio, a lavoro finito, quando le energie di resistenza sono esauste, e i figli si son già messi in cammino.
Trangugiò in silenzio il tossico della nuova umiliazione: chiese ella stessa, più tardi, il favore d’essere ricondotta alla casa di Francesco. E rivide la grande città manifatturiera, e risalì, sorretta dai due figliuoli ormai canuti alle tempie, le ripide scale troppo pesanti al suo fiato; e tornò a rifarsi il lettuccio nell’angolo della stretta cucina dal puzzo d’acquaio. Gli occhi gelidi di Teresella le dissero senza reticenze quanto la sua misera persona quasi distrutta le fosse di peso.
Le cognate, che si odiavano, se l’eran scaricata a vicenda sulle spalle: gli uomini, deboli, nel dominio della moglie, tacevano e tolleravano; ed ella non viveva e non moriva.
La lotta per lo spazio e per il pane tendeva il nerbo d’ogni discorso, d’ogni gesto, in quell’angusto appartamento senza sole. Giornali socialisti, dal titolo e dai caratteri di fiamma, vi entravano, fra le mani dei robusti adolescenti e dei loro compagni di laboratorio e di lega. La sera, intorno alla tavola, sotto il giallo becco del gas, per bocca loro, con frasi balzanti e frementi, si ricomponeva la società secondo un magnifico assetto ideale. Tutti ricchi ad un modo!... Tutti lavoratori!... E un pugno di terra in ogni bocca inutile!...
Feliciana, dimenticata in un angolo, colla fronte di marmo giallognolo china sul petto, ascoltava, in silenzio, avvilita. Anche la sua era una bocca inutile. Era tempo di chiuderla con un pugno di terra, con due, tre, cento palate di terra, l’una sopra l’altra.
E venne, la morte. Tanto la chiamò che venne, una sera in cui, dormendo cogli occhi, ma non cogli orecchi, aveva udito figli e nipoti discorrere d’un ospizio di cronici dove l’avrebbero presto collocata, grazie all’alta protezione del principale di Francesco. Cambiare ancora, ridiscender le scale, dormire in un letto di carità, vivere fra suore dalla tonaca grigia, diventare una mendicante mimetizzata....
No, no. — Tanto pregò la morte, che la morte venne. E se la portò via quietamente, a due ore di notte, senza un sussulto, nella visione d’un geranio scarlatto fiorito sul davanzale d’una finestra solatìa.
All’alba, dinanzi al cadavere già stecchito nel lettuccio in cucina, il senso della liberazione fu nei familiari così pronto ed intenso, che parve dolore, e ne assunse le forme più rumorose e commosse. Giunse Leonardo con la moglie e la nidiata. Le due cognate vegliarono tutta una notte la morta, ubriacandosi di caffè; ma la morta non le vide, era già lontanissima.
Il funerale riuscì magnifico, tanto più ch’era di domenica: gran numero d’operai, camerati di Francesco, lo seguiva, con viso di circostanza, feltro nero e cravatta rossa.
E l’un d’essi tenne, al cimitero, dinanzi alla cassa, un discorso: un discorso eloquente, pieno di paroloni terminanti in a, che strappò molte lagrime, e per poco non fu applaudito da tutti i presenti.
E la cassa, così piccina, così leggera che un bimbo l’avrebbe potuta portare, fu calata nella fossa e ben ricoperta con la buona terra umida e fresca, che non rimprovera il loro sonno ai morti. E Feliciana trovò finalmente il posto ove solo possono riposare i vecchi poveri, quando i figli si son messi in cammino, il lavoro è compiuto e le forze non reggono più.