Le solitarie/Nella nebbia

Nella nebbia

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Il posto dei vecchi Una serva
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NELLA NEBBIA.

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Raimonda alzò il bavero del soprabito, attillato come una fascia sul suo bel corpo, di serpentina flessuosità: avvolse intorno al bavero il boa di pelliccia fino all’altezza del naso, ficcò le mani nel manicotto, e via, a capo basso, fra la nebbia.

Così densa, così opaca era la nebbia, che si sarebbe potuta tagliar col coltello. Penetrava nella bocca e nelle narici, mozzava il respiro, dava il senso dell’asfissia. Vie e case scomparivano, dissolte nell’impalpabile massa dei vapori. Atmosfera di sogno. Ma un sogno sinistro, pieno d’agguati.

Si doveva aprirsi il varco a guisa di nuotatori nell’acqua, respingendo la potenza d’un elemento. Le carrozze, rarissime, avanzavano adagio, passo passo, ombre vaghe e difformi [p. 24 modifica] nel grigio, scampanellando dalle sonagliere dei cavalli. La coltre spessa e morbida tappava ogni fessura, attutiva ogni rumore, mascherava ogni fisionomia.

Di questo, sovra tutto, era felice Raimonda, che camminava sicura, conoscendo così bene la sua via quotidiana dall’ufficio alla casa, che i piedi gliel’avrebbero potuta far da sè senza l’aiuto degli occhi. Raimonda aveva la parte destra del viso orribilmente sfregiata. A dieci anni, una mala caduta sulla brace rovente del caminetto l’aveva ridotta così. Per ironia della sorte era cresciuta agile e bellissima di corpo, calda di sangue, chiara nell’animo, pronta nei sensi, certo creata per un destino d’amore, se l’atroce mezza maschera raggrinzata, paonazza, costringendo anche la bocca ad una smorfia grottesca nel riso, non l’avesse deturpata senza rimedio.

Dinanzi all’apparente gaiezza di lei, d’una esuberanza a tratti eccessiva, parenti ed amici pensavano e dicevano: — Per fortuna è indifferente alla sua disgrazia. Pel mostro non esiste la propria mostruosità.

S’ingannavano. Non forse la madre, alla quale il sesto senso materno dava pupille più [p. 25 modifica] penetranti; ma, debole e incerta creatura crepuscolare, tentava, illudendosi, di sopire dentro di sé vergogna, dolore, rimorso.

La verità era questa: tolte le obliose ore del sonno, non un minuto della vita di Raimonda era trascorso senza che, — nel camminare, nel parlare, nel ridere, durante le più gravi e le più semplici occupazioni, sola o fra molti — ella non si fosse veduta nell’inesorabilità della sua laidezza, con quei terribili occhi in dentro, che non ingannano mai.

Per questo, nella propria camera, non teneva specchi. Per questo, portava feltri o cuffiette di paglia d’un’estrema semplicità, che si potessero calcar sul capo alla brava, senza aiuto di spilloni; e vi avvolgeva intorno larghe e fitte velette a fiorami, le quali tuttavia non riuscivano a nascondere compiutamente il segno del fuoco.

Talvolta, a notte alta, un incubo angoscioso la svegliava di soprassalto, col batticuore; ed ella sbarrava nel buio gli occhi ancor ciechi di sonno; e, subito, nell’implacabile memoria dei sensi le si scolpiva la visione del proprio volto; e pensava, con terrore, la disgraziata, che l’ombra sarebbe svanita con la [p. 26 modifica] notte, che la luce avrebbe fatto ritorno, e con essa gli sguardi pietosi o ironici o stupiti o sfuggenti, sulla sua deformità.

Vi sono tragedie che afferrano una creatura in piena bellezza, in piena felicità, in piena armonia d’azione; e l’incalzano e l’aggirano vorticosamente nel loro turbine ruinoso: poi la lasciano, a terra, inerte, uno straccio, ma libera: ed ella a poco a poco si riconosce, si ritrova intatta, riprende a vivere, a gioire delle forze naturali, a respirare energia e speranza, quasi che nulla fosse avvenuto. — Vi è, invece, la tragedia muta, sorda, costante, fissa, che ha l’inesorabilità d’un cancro. Non v’è scampo contro di essa. Non v’è forza d’oblio che possa dimenticarla, o di dominio che possa vincerla.

In tale stato viveva Raimonda. Non lasciava, tuttavia, trasparire agli uomini se non quel ch’era impossibile nascondere: il marchio del viso.

Ella si sentiva isolata. Fra il suo fluido e il fluido altrui s’interponeva un divieto. Quel divieto la disonorava come una condanna. Dai dodici ai sedici anni, alle scuole tecniche, [p. 27 modifica] nei gruppi delle compagne non aveva udito che bisbigliar d’amore. Pareva che in tutte quelle fanciulle destinate a guadagnarsi la vita fra l’odor di muffa dei magazzini o l’odor d’inchiostro degli uffici, in tutte quelle adolescenze verdastre ed asprigne come i frutti acerbi, non germinasse che il desiderio dell’amore. Aritmetica, disegno, fisica, grammatica, non sembravano in realtà che pretesti inventati dalla dura esistenza e dalla volontà dei parenti, per ingannare, per strozzare in boccio l’istinto atavico in quelle piccole future femmine, che già davano furtivamente un nome ed un corpo al loro bisogno di amare e di sentirsi amate.

Più tardi, nel laboratorio di macchine e strumenti fotografici, dove Raimonda aveva potuto collocarsi in qualità di dattilografa, ella, intorno a sè, fra i compagni di lavoro, non aveva veduto che amore, illusione d’amore, menzogna d’amore. Le commesse, eleganti in abiti tagliati sull’ultimo figurino negli scampoli da trenta soldi al metro, colle trecce serrate intorno alle tempie secondo la moda, con tacchi altissimi, con ciglia e palpebre offese dal bistro, civettavano, nervose, [p. 28 modifica] coi giovanotti dello studio; oppure trovavan sulla porta, la sera, l’amico pronto per accompagnarle. Le varie correnti si urtavano, sprizzavan scintille nell’urto, creando per Raimonda un’irrespirabile atmosfera magnetica. La sua giovinezza era tagliata fuori da quelle vibrazioni di gioia. Per lei non poteva sussistere la legge naturale dell’esistenza. Lo sapeva. E vi pareva rassegnata; ma, in fondo, avvilimento, desiderio insoddisfatto, rancore, le si aggrovigliavan dentro come un viluppo di serpi.

Ed era giunta a desiderar d’esser cieca, quasi che la cecità personale riuscisse a nasconderla agli occhi altrui: simile in questo al bambino che, celandosi il volto col braccio alzato ad arco, crede di essersi reso invisibile ad ognuno. Era giunta a non trovarsi bene che nell’ombra; e sempre avrebbe voluto moversi fra la densa bruma che ravvolgeva quella sera di novembre, dandole un senso inatteso e mordente d’agilità, di libertà, di sicurezza.

Un fanale a gas, d’un fosco rosso di piaga nella compagine nebbiosa, le indicava lo svolto di via Solferino in via Pontaccio. Scivolava [p. 29 modifica] rasente i muri, imbacuccata e felice, quando una voce maschia le susurrò alle spalle:

— Signorina....

Non si volse, continuò la strada, col cuore che le martellava. Nessuno, nessuno, fino a quel momento, l’aveva seguita per via.

— Signorina....

L’uomo la seguiva davvero, accordando il passo con quello di lei, mormorando altre parole, vuote, incoerenti, dolcissime. Raimonda le udiva per la prima, forse per l’unica volta; e la maschia voce era calda, profonda, vellutata, di quelle che agiscono immediatamente sui sensi.

Con un rapidissimo volger del capo e delle pupille aveva scòrta l’alta figura d’un giovane, sfumata nella bruma che intorbidava, velandoli, i lineamenti del viso. Ah!... Quell’ignoto non l’avrebbe vista in faccia, non avrebbe celato il brivido del ribrezzo davanti alla mezza maschera deforme. Fitta veletta, fitta nebbia, ora di sogno, nella quale ella pure poteva esser bella per un uomo: ora che forse non sarebbe ritornata più!...

Tacque, lasciò dire, lasciò che l’ignoto le si avvicinasse alle spalle, le si serrasse [p. 30 modifica] dappresso, tanto da alitarle nel collo il respiro profumato di sigaretta.

— Signorina.... Come si chiama?... Non corra tanto. Mi dica il suo nome, il suo bel nome. Signorina....

Nessuna udibile risposta; ma un consenso pieno di turbamento nel silenzio stesso, nel passo un poco rallentato, nell’atto di alzare il manicotto fino a celare il mento e la bocca. La nebbia li univa e li divideva nel medesimo tempo. Altre fantastiche ombre passavano, larve nere apparenti nelle orbite dei fanali, subito inghiottite dall’elemento grigio. Milano era un’immensa nave naufragata, ove Raimonda agonizzava in una dolcissima agonia: rivelata finalmente a un uomo: finalmente donna: tremante di muta felicità: solo temendo che l’ora dell’incantesimo finisse.

In corso Garibaldi, quando comprese che soli cento passi la separavano dalla porta di casa, indugiò in un istante di perplessità, s’appoggiò al muro, sempre in silenzio. L’ignoto vide, in quel trepido atto, un invito. Trasse a sè la fanciulla pel braccio, cercò, avido, la bocca, senza vederla; e, attraverso la veletta, la baciò. [p. 31 modifica]

Con sua immensa maraviglia, il bacio gli fu reso.

Ladra d’amore, sì, ella era; e sapeva e godeva d’esserlo, chiudendo in quell’attimo l’intera sua vita di donna, accumulando in quell’attimo sogni, desideri, brividi, carezze, impeti di dedizione, voluttà di sensazioni, tutta l’occulta parte di sè che alla luce spietata del sole non aveva diritto di esistere.

Quando le ingorde labbra lentamente si staccarono, e il lunghissimo bacio ebbe fine, l’uomo stupefatto, inebriato, cieco, rimasto intontito sul marciapiede, sentì la fanciulla guizzargli di mano con agilità di lucertola, e sparir nell’ombra.

Non tentò di seguirla. Ad un metro di distanza non sarebbe stato possibile riconoscere una persona. La massa fluttuante dei vapori s’addensava sempre più, diveniva un corpo quasi solido, benda agli occhi, bavaglio alla bocca.

Ritrovata per virtù di consuetudine la porta della sua casa, infilata a capo basso un’umidiccia scala a chiocciola anch’essa invasa di nebbia, Raimonda suonò il campanello d’un modesto usciolo bruno. Alla madre che, [p. 32 modifica] inquieta e premurosa, le aperse, mormorò un frettoloso saluto. Poi, con voce rauca: — Stasera non mangio, ho male alla testa, voglio riposare, abbi pazienza.... — E sgusciò nella sua camera e vi si rinchiuse.

Nel letto, al buio, colle braccia avvinte sul seno, coi begli occhi sbarrati nell’oscurità, rabbrividendo ancora per tutto il corpo sotto l’invisibile carezza della maschia voce carnale, rigustando in bocca il sapore dell’unico bacio, si raggomitolò, sussultò, si contorse, pregò Iddio che di quell’ora non le togliesse mai più la memoria — e pianse, e rise.