Le rivelazioni impunitarie di Costanza Vaccari-Diotallevi/Considerazioni/IX
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IX.
Conclusione.
Le presenti Considerazioni volgono alla conclusione. — Alcune circostanze di fatto indicate nelle lettere sequestrate; sono pel tribunale della Sacra Consulta l’ultimo argomento, il quale mentre rafforza i precedenti, pone nella più limpida luce di evidenza la reità liberalesca del Fausti, la sua instancabile operosità, il suo implacabile accanimento per iscassinare le fondamenta del trono pontificale.
Queste stesse circostanze di fatto, sono pel Comitato Nazionale Romano un argomento di una evidenza unica piuttostochè rara, per dichiarare solennemente rei principali di calunnia per ispirito di parte e di assassinio giuridico nella persona del cavalier Lodovico Fausti e degli altri nove condannati colla Sentenza del 30 Maggio 1863, Salvo Maria Sagretti Presidente del Tribunale giudicante, Eucherio Collemassi Giudice istruttore del processo; e complici i coniugi Costanza ed Antonio Diotallevi, ed i giudici Gaetano De Ruggero, Giovanni Capri Galanti, Luigi Marioti Toruzzi, Girolamo mattei, Augusto Theodoli; e come tali li consacra all’esecrazione di tutti i popoli civili, senza pregiudizio di ogni altra qualsiasi azione o ragione, da sperimen- tarsi ora, come e quando che sia.
Le circostanze di fatto, dalla Sentenza notate alle pagine 33, 34, 35 sono lo seguenti. Nella lettera sequestrata all’ufficio postale il 9 febbraio si diceva: «Non per me; sono stati abbastanza impacciati per De Angelis per prenderla con me» In quella sequestrata il 21 dello stesso mese «Monsignor Governatore mi assicura per ora ... in caso per la fuga ho tutto pronto; il processo è chiuso. Per Fantini non temete».
Or bene, sussiste in fatto che il Governo pontificio fosse stato pressato dagli insistenti e continui uffici di un personaggio di alto rango sociale, e che moltissimi contrasti e difficoltà si erano dovuti vincere per giungere all’ottenimento dell’esilio del De-Angelis1. Sussiste pure in fatto che incontratosi il Fausti con monsignor Matteucci governatore di Roma, gli domandasse se alcun pregiulizio fosse potuto derivargli dalle lettere, rinvenute presso il Venanzi, e che fosse assicurato del no.
Per la menzione che del Fantini si fa nella citata lettera del 21, è manifesta la relazione che ha colla nota lettera rinvenuta presso il Venanzi. Son queste tre circostanze, le quali non potevano conoscersi che dal Fausti, o da nessuno meglio che dal Fausti. La lettera del Fantini era a lui diretta, egli spedizioniere addetto all’ambasciata di Francia, gentiluomo ed intimo del Cardinale Segretario di Stato, non poteva non conoscere le pratiche segrete fatte pel De Angelis, egli che mentre ammetteva l’abboccamento con monsignor Matteucci, ammetteva pure di non averne parlato soltanto in famiglia, e con altro soggetto per lui rispettabile e scevro da qualsiasi sospetto La difficoltà pertanto, o meglio l’impossibilità che altri in sua vece potesse in una lettera racchiudere questi concetti che si riferivano a cose note a lui solo, sembrò al Tribunale rilevarsi abbastanza da sè stessa.
Così la Sentenza: e non v’è dubbio che se non potesse esservi altri, a cui quelle particolarità riferentisi a fatti veri, potessero essere ottimamente note, l’argomento che se ne deduce avrebbe un peso gravissimo.
Ma è egli vero che non potessero esistere altre persone, alle quali quelle particolarità fossero note e pienamente note? È falso. V’era chi per la sua posizione e pel suo ufficio poteva benissimo aver risaputo l’abboccamento del Fausti col Matteucci, v’era chi non poteva non conoscere per la sua posizione e pel suo ufficio le pratiche fatte pel De-Angelis, la lettera relativa al Fantini. — Potevano esser molte queste persone? L’abboccamento avvenuto fin dal Natale dal 1862 e non già nei giorni prossimi alla carcerazione del Fausti, poteva pure esser noto a più d’uno.2 — Chi poteva essere del numero? Salvo Maria Sagretti Presidente del Tribunale e direttóre del processo, ed il compilatore od istruttore di questo Eucherio Collemassi, ai quali poterono domandarsi schiarimenti in seguito appunto di quell’abboccamento. E le pratiche fatte pel De-Angelis potevano non esser note a costoro, dai quali dipendeva necessariamente la riuscita, e che avendo in mane la posizione dovettero necessariamente esser richiesti a dare informazione?
E la lettera del Fantini, a quali ed a quante persone poteva osser nota e pienamente nota? A due persone soltanto: Al direttore ed all’istnittorc del processo, al Sagretti ed al Collemassi che gelosamente la custodivano.3
E può dunque concludersi fondatamente che sieno costoro, e costoro soltanto, i mestatori dell’intrigo, gli autori delle lettere sequestrate, degli ordini, dei permessi e delle ricevute? Per grande, per enorme che sia l’iniquità senza pari, che in conseguenza di quella conclusione sarebbe provato essere stata commessa in Roma, nell’anno di grazia 1863, regnando Pio IX Pontefice Vicario di Gesù Cristo, da due ministri della giustizia pontificia, uno de’ quali prete e prelato; la conclusione è indubitata, è indeclinabile, come quella che parte da una prova di fatto evidentissima.
Il Processante, i sei giudici, il difensore del Fausti, due periti calligrafi fiscali, dieci periti calligrafi difensivi, hanno tutti d’accordo unanimemente riconosciuto, che tutti gli scritti ultimamente ricordati sono scritti con carattere similissimo a quello con cui fu scritta la traduzione della lettera Fantini ed il motto «Ch’io di Roma son figlio ec.» — Dalle cose esposte in tutto il corso delle presenti Considerazioni, rimane provatissimo che il Fausti non fu e non potè essere autore di questa lettera e degli altri scritti; il Fausti dunque è vittima di una calunnia. Ma se è indubitato il fatto della perfetta somiglianza dei caratteri, deve di necessità essere egualmente indubitato che il calunniatore dovesse poter avere sottocchio e istudiare a suo agio la lettera relativa al Fantini, la quale ad ogni modo volevasi ritenere che fosse del Fausti, per imitarne, il carattere negli altri scritti; e poichè quella lettera si teneva in gelosa custodia dal Sagretti e dal Collemassi, è pur necessario il concludere, o che essi stessi sieno i compositori delle lettere sequestrate, degli ordini, permessi e ricevute; o più verosimilmente, che, mostrata la lettera alla Diotallevi, siensi scritti dalla mano di costei, che come pittrice aveva maggior facilità ad imitare e ritrarre il carattere.
E che di tal contraffazione del carattere della lettera relativa al Fantini sieno il Sagretti ed il Collemassi autori o comittenti viene pur anco provato a maraviglia dalle quattro lettere che furono dal Mastricola ricevute, delle quali a questo fine specialmente si dà il fac-simile, che per essere stato fatto sulla fotografia può dirsi fatto sull’originale. — La Relazione fiscale e la Sentenza dicono che le prime tre di queste quattro lettere furono dal Fisco fermate in posta, aperte, lette, copiate, e quindi originalmente spedite; della quarta invece fu spedita la copia e ritenuto l’originale che, secondo avverte la Relazione a pag. 288. si conserva alligato in processo ai fogli 2968 e 2969 t. Mentre dunque nelle prime tre lettere si avrebbero tre scritti vergati dalla stessa mano del Fausti, nella quarta non può aversi che una copia, cioè uno scritto che per certo non può essere di mano del Fausti. Ciò posto, abbia la bontà chi legge di dare uno sguardo ai fac-simile; e chi può e vuole, alle fotografie depositate nel luogo indicato, e di osservare se per avventura si scorga somiglianze fra il carattere della lettera in copia e quello delle lettere originali. Il Comitato non dubita di asserire che una sola mano scrisse la copia e gli originali. L’identità apparisce manifesta dall’andamento generale dello scritto, specialmente se si raffronti la copia della quarta lettera coll’originale della terza; e questa speciale somiglianza fra l’uno e l’altra è ben naturale, per essere la terza di pochissimi, giorni anteriore alla quarta. Nel fare il raffronto fra questi due scritti pongasi mente in modo particolare a quelle scipitissime ©d insulse parole «Spazio per Roma » che leggonsi in fine della lettera originale, e si osservi se esse possano essere state scritte da mano diversa da quella che scrisse nella copia sapie35za, il per che precede ora, l’altro che precede la fuga ed il pro di processo.
È ben facile a rispondere esser ben naturale che nel far la copia si studiasse d imitare l’originale, affinchè il Mastricola non si avvedesse di essere stato scoperto. Ma se questa parata svia il colpo dalla testa, la spada va diritta a trafiggere il cuore. Come può in pochi momenti contraffarsi una lettera altrui in modo che la persona a cui è diretta non avverta la diversità del carattere? Evidentemente ciò, non può farsi se non da chi abbia l’abitudine di contraffare quel tal carattere. Forse che abitudini siffatte sono un requisito necessario per un Monsignore Presidente di tribunale, e per un Processante negli Stati della Santa Madre la Chiesa cattolica, apostolica, romana? O forse in questi santissimi Stati, fra gli arnesi del mestiere deve esservi pur anco un falsario per uso di monsignor presidente ed il suo subalterno il processante?
Che se si volesse negare la somiglianza fra i due caratteri, in tal caso sembra ragionevole il dimandare: perchè spedire la copia di quella lettera senza imitare il carattere dell’originale? Non abbiamo dimenticato che il Processante a pag. 292 della Relazione, parlando della coscienza sua e del suo dovere, ci diceva che, segnatamente dopo il pervenimento della lettera del 21 febbraio, non poteva ulteriormente sospendersi l’arresto del Fausti, sia nelle viste di troncare il filo a quei disordini, che si dicevano soltanto incominciati in quel foglio, e che il fatto stesso additava se fossero temibili, sia per la responsabilità che pesava su di esso, stante l’imminente e minacciata fuga. S’intende bene che le lettere antecedenti dovevano essere spedite, affinchè il Fasti potesse proseguire la sua corrispondenza; ma questa ragione non può valere per quella del 21, una volta che per le esposte ragioni, dopo il pervenimento di essa, non poteva ulteriormente sospendersi V arresto del Fausti, che di fatti fu arrestato la mattina del 22. Che si spedisse colla speranza che il cavalier Mastricola rispondesse per la posta, non è supponibile, perchè, come il Fisco dice, non era per la posta, ma altrimenti che il cavalier Mastricola rispondeva; e quando tal supposizione volesse ammettersi, bisognerebbe pure ammettere la somiglianza dei caratteri, perocchè non si sarebbe per certo dipartito dal modo consueto per riscontrare una lettera, che, sebbene portasse il nome del Fausti, fosse stata di carattere diverso da quello a lui noto. Invero non è facile l’indovinare la vera ragione per la quale il Processante spedisse quella copia: è però non improbabile che ciò si facesse per tenersi aperta la via postale per poter proseguire a tessere in seguito intrighi a danno di altri. La qual cosa per quel mezzo sarebbe riuscita impossibile, se l’ultima lettera o non fosse stata mandata affatto, o mandata con caratteri affitto dissimili dalle precedenti. Nell’uno e nell’altro caso, stante la seguita carcerazione del Fausti, il Mastricola avrebbe dovuto supporre che la lettera fosse stata sequestrata, e quindi se l’uso del mezzo postale toccava prima l’assurdo, l’avrebbe da quel tempo in poi sorpassato. Questa ragione trova conferma nella spedizione dell’altre due lettere sottoscritte Erba, ed inviate, per ciò che apparisce dal bollo postale, l’una nel marzo, l’altra nell’aprile 1863.
Ma qualunque possa essere stata la ragione che mosse il Processante a spedire quella copia, riesce sempre indubitato che, non potendo essere stata spedita per ozio o per giuoco, la contraffazione doveva per necessità curarsi; ed è perciò che all’argomento dedotto dalla simiglianza dei due caratteri rimane sempre il suo pieno valore.
Per assolvere il Sagretti ed il Collemassi, non potrebbe dirsi che autrice della calunnia sia stata la Diotallevi, e molto meno l’innominato, che, come si è visto, è un essere imaginario. Si trova bene la ragione per cui questa femmina disonesta, moglie adultera di un marito ruffiano, si prestasse e dovesse prestarsi a farsi istrumento della calunnia nelle mani del Collemassi e del Sagretti. Soggetta come schiava all’imperio assoluto di costoro, era divenuta la Diotallevi, dopo che colla promessa della impunità e del premio s’era fatta accusatrice del Fausti e di tant’altri. Qualora avesse ricusato farsi istrumento a proseguire e compiere la calunnia, essa per le prime denunzie si vedeva nuovamente aperto dinanzi il carcere, come calunniatrice. Dopo quel primo passo era una necessità inevitabile a proseguire o soccombere. Fra tante lordure di preti e meretrici, di processanti, di prelati e di ruffiani, la figura che commuove l’animo a minor schifo e ribrezzo è quella della prostituta Diotallevi. Quella che non si trova nè può trovarsi, è la ragione sufficiente ad ispiegare come colei potesse essere autrice della calunnia.
Se non impossibile, come pur dice la Sentenza, è peraltro molto improbabile che altri e più che ogni altro la Diotallevi, potesse conoscere l’abboccamento del Fausti col Governatore di Roma, le pratiche fatte per la liberazione del De Angelis; ma è veramente impossibile che essa potesse conoscere la lettera relativa al Fantini, in modo da poter contraffare il carattere della traduzione con quella perfezione con cui fu contraffatto. Oltre che per contraffarla siffattamente bisognava avere quella lettera dinanzi agli occhi; la Diotallevi non poteva neppur averla veduta mai, sia perchè non conosceva nè il Venanzi nè l’amico, per le mani de’ quali era passata, sia perchè, se l’avesse veduta, non avrebbe mancato di darne cenno nelle deposizioni impunitarie una volta che l’avesse avuta sì bene presente. Nè solamente mancava nella Diotallevi la scienza delle cose, ma eziandio la causa che chiamasi impellente a calunniare a perdere il Fausti, che essa neppur conosceva.
Finalmente se colei fosse la sola autrice della calunnia, non solamente il Fausti non sarebbe stato condannato per titolo politico a venti anni di galera, ma neppure tradotto in carcere. — In conseguenza delle cose discorse in queste Considerazioni, la calunnia, tanto rispetto alla persona calunniata che al modo con cui fu tessuta, era ed è sì manifesta, che qualunque Processante, qualunque Tribunale il più imbecille non poteva restarne ingannato. Quanti sono in Roma onesti cittadini, liberali e non liberali, tutti, udita l’accusa e le prove, hanno gridato all’assassinio. L’ambasciatore di Francia, l’ambasciator d’Austria, il Cardinale Antonelli, il Cardinal Marini, Monsignor Matteucci Governatore di Roma, e molti altri o Cardinali o Prelati, non hanno avuto il coraggio di negare che erasi in Roma compiuto un assassinio giuridico, regnante, permettente e volente Papa Pio IX Vicario di Gesù Cristo!
Ma se alla Diotallevi mancavano i mezzi e la causa movente a calunniare il Fausti, non mancavano nè al Sagretti, nè al Collemassi. I mezzi li abbiam veduti: la causa movente od impellente è la conseguenza delle pose esposte in principio e che giova ricordare. Si voleva Rimostrare che il Governo Italiano era la causa dell’agitarsi incessante del partito Nazionale in Roma ed infamare questo e quello, facendoli autori di delitti comuni e specialmente d’incendi.4 Inoltre dal Collemassi e compagno s’era compilata la nota degli impiegati traditori, per questo stesso fine di dimostrare l’ingerenza del Governo Italiano nelle cose di Roma, per contentare la manìa processuale, per compiacere e secondare le idee del capo del partito cattolico legittimista puro sangue, il Belga furibondo, Monsignor Saverio De Merode, la cui potenza veniva crescendo ogni giorno col crescere di grazia e favore presso l’epilettico Pontefice. Quali potenze necessarie sarebbero divenuti pel governo pontificio il Collemassi e il Sagretti riuscendo a tanto? Bisognava avere le prove a documentare l’accusa contro il Governo Italiano ed il partito Nazionale; quella nota che doveva figurare in processo come le spoglie opime al tempio di Giove Feretrio, non poteva rimanere quale gratuita asserzione della Diotallevi. Se il pubblico, leggendo nella Relazione Fiscale che la"giustizia pontificia era venuta, in seguito delle inquisizioni pro~ cessuali, a scoprire ogni cosa, e fra lé altra un grandissimo numero d’impiegati traditori, notò con somma maraviglia che contro di questi non si fosse proceduto, la maraviglia sarebbe cresciuta a dismisura, se nè uno pure di tanti impiegati fosse stato colpito. Era dunque mestieri di dare una prova che, dimostrando la verità della nota in una parte, le procacciasse credito nell’intiero. Bisognava pertanto scegliere una vittima Chi scegliere? — Non v’era da rimanere incerti nella scelta. L’indirizzo delle lettere rinvenute presso il Venanzi mentre designavano a vittima il Fausti, costituivano pei calunniatori come un precedente da cui prender le mosse, davano loro come una trama su cui ordire la calunnia.
Trovata la vittima, trovate le prove della verità di quanto alla Diotallevi si era fatto deporre, dell’ingerenza del Governo del Re negli affari del partito Nazionale in Roma, della iniquità dell’uno e dell’altro come rei dei delitti comuni in genere, e d’incendi in ispecie. Ecco il Fausti in corrispondenza continua col Regio Sotto-Prefetto di Rieti, il Regio Sotto-Prefetto di Rieti riceve dal Fausti piante di edificii da mandarsi, in ruina; il teatro Alibert va a fiamme in poche ore, e il Fausti scrive al Sotto Prefetto che gl’incendi sono incominciati La calunnia è una evidenza, evidenti sono i mezzi, evidentissima la causa a calunniare!
Il teatro Alibert è andato a fiamme e fuoco! La Sentenza a pag. 30 e 31 dice così: «La giudiziale ispezione assunta dal Tribunale ordinario, ed il giudizio reso con giuramento da cinque Periti, fecero risultare a piena evidenza che non solamente l’incendio era avvenuto per dolo, nè già per colpa o caso, ma che di più il fuoco era stato appiccato colla cooperazione simultanea di più individui in vari punti della platea, e al di sotto di essa mediante le molte materie incendiarie e combustibili sparse e contemporaneamente cese nei punti medesimi.» Sta bene! Ma se, come dalle predette cose risulta, autori delle lettere inviate al Mastricola poterono essere soltanto il Sagretti ed il Collemassi, se opera loro è la pianta dell’edificio da mandarsi in ruina, se essi avevano uno speciale interesse a provare che dal partito Nazionale incendii si commettessero, se risulta che il teatro Alibert è stato dolosamente incendiato; sarà, per Dio, una avventata calunnia raffermare, che il teatro Alibert sia stato incendiato per mandato del Sagretti e del Collemassi? Quest’altro capo di accusa che il Comitato Nazionale Romano non esita a gettare in faccia al Governo Pontificio nella persona de’ suoi ministri e rappresentanti, trova piena conferma nel contegno tenuto dalla Autorità giudiziaria in presenza di quel fatto gravissimo. Si è ben voluto constatare che l’incendio fosse doloso e non fortuito; ma l’Autorità giudiziaria che ha essa fatto per iscoprire gli autori dell’incendio, che o conosceva o poteva facilmente conoscere, una volta che sapeva essersi essi recati al caffè alle Convertite, a quello degli Scacchi per riscuotere il prezzo dell’incendio? Nulla ha fatto l’Autorità Giudiziaria.
Tornando anche una volta sulla persona del Fausti prima di por termine alle presenti Considerazioni, non può pretermetterai di avvertire, che nel prescegliere il Fausti a vittima, concorreva anche un’altra ragione oltre l’indicata; cioè, di far cosa specialmente grata al De Merode. Costui già antagonista, ed oggimai nemico sfidato, acerrimo, e trionfante del cardinale Antonelli, non poteva non vedere con pienissima sodisfazione che questo fosse colpito nella persona di un suo intimo famigliare ed amico. È un fatto noto a tutti in Roma, e pubblicato dai giornali italiani e stranieri, che appena risaputasi dall’Antonelli la carcerazione del Fausti fatta per mano dell’Eligi birro di proprietà particolare ed esclusiva del De Merode, rimettesse al Papa la sua dimissione dall’ufficio di Segretario di Stato.
Non è per certo una chimera il proposito della fazione De Merodiana di farsi via calunniando il Fausti a scalzare il cardinale Antonelli ed i suoi aderenti. Se ne ha una prova di fatto nella prima delle due lettere inviate al cavalier Mastricola da Roma e per la posta, dopo la carcerazione del Fausti. Quel Porporato, di cui dicesi, ha fatto quanto promise, ma la Corte sospetta, è evidentemente l’Antonelli. Amico dell’Antonelli e suo partigiano è il Matteucci Governatore di Roma, ed in questa lettera è detto: «Matteucci dice che1 nulla può fare, ma tenterà ogni via;» le quali parole s’accordano perfettamente colla garanzia od assicurazione, che l’ultima delle prime cinque lettere diceva essersi data dal Matteucci al Fausti.
Queste due ultime lettere non possono non esser note al Sagretti, al Collemassi, e probabilmente al De-Merode. Se a Dio piace, le vedremo comparire in qualche altro processo, ed è da credere che frattanto se ne sia fatto uso privatamente mostrandole al Papa. Ne diamo il fac simile, accompagnandolo con altro del carattere della Diotallevi, perchè il lettore osservi se non sia evidente che questa le abbia scritte. Se taluno volesse sospettare che autore possa esserne stato il Comitato Nazionale o qualunque altro che non sia nè il Sagretti nè il Collemassi, è pregato riflettere che quelle lettere inviate per la posta colla direzione All’Sig. Mastric-cola, scritta con carattere evidentissimamente alterato, non si sarebbero fatte passare dalla Polizia, che dopo la grande scoperta doveva stare cogli occhi aperti.
Quantunque l’evidenza delle cose discorse sia tale nelle parti e nel tutto da non lasciar luogo a dubitare che una iniquità senza pari sia stata consumata colla Sentenza del 30 maggio 1863 negli Stati di Santa Chiesa dalli stessi ministri della gustizia, tuttavia chi non conosce le leggi di procedura che regolano i processi criminali politici in questi Stati, dalla stessa evidenza dell’intrigo potrebbe esser tratto a dubitarne; ed è ben per questo che il Comitato Nazionale conchiudeva l’Avvertenza premessa alla Difesa del Fausti dicendo esser questo vittima di una iniquità senza pari, incredibile e possibile soltanto sotto il Governo de Preti. Qui nelle cause di Stato si fa un processo strettamente inquisitorio in cui l’accusato non ha alcuna garanzia, nessun freno il ministero inquirente, rappresentato da un processante che agisce sotto la direzione del Presidente del Tribunale Giudicante5
L’inquisito assoggettato ai costituti non conosce, e la legge vieta che gli si facciano conoscere, le persone degli impunitari e de’ testimoni che depongono contro di lui.6 Quindi nessun confronto di testimonii; di modo che, per sentenza non contraddetta di tutti i criminalisti antichi e moderni, il processo è nullo per difetto di legittimazione.
I Giudici giudicano seguendo ciecamente quanto al Processante è piaciuto di scrivere, in processo, o meglio nella Relazione fiscale che quello fa, e nella quale, come si è praticato nella causa di cui si è trattatolo tace ciò che crede, o ciò che crede trasforma e travisa coordinando tutto all’assunto che siasi proposto. Seduta può dirsi che non vi sia, come può dirsi che non vi sia difesa. La seduta infatti si fa a porte chiuse e rimosso qualunque non debba per necessita di ufficio intervenirci,7 ed i difensori degli accusati dissuadono quasi sempre i loro clienti dall’intervenire, per la ragione che se in ogni modo riesce inutile la loro presenza, può anche riuscire dannosa; essendo che, se l’accusato si difenda troppo calorosamente, la delicata coscienza e la limpida mente dei Giudici, ne rimangono facilmente offuscate ed irritate. Non v’è difesa, sia per la qualità degli uditori che devono ascoltare, sia perchè non è libera la scelta dei difensori,8 sia per la qualità dei difensori fra i quali può scegliersi. Gli Uditori, che sono i Giudici, vanno alla seduta portatori di un voto che non e già il risultato dei loro studii, ma di un tapino ed ignoto leguleio che, in compenso di uno stipendio assai minore di quello de’servi del Prelato, formula il suo voto non già sul processo originale, ma sulla Relazione fiscale, che, come si è detto, viene abborracciata a piacere del Processante. In tutti i Giudici ecclesiastici, e sono questi ai quali è esclusivamente devoluto il giudizio delle cause criminali in genere e di quelle di Stato in ispecie, la legge suppone ed ammette una legittima ignoranza.
La qualità poi dei difensori è questa. Esiste una Procura detta de’ Poveri, alla quale per lo più sono addetti, in numero assai limitato, i meno versati nella giurisprudenza, tanto che rarissimo è il caso che alcuno di costoro goda in curia di qualche riputazione, frutto questa più della nullità dei compagni, che della sufficienza propria. E perchè poi si paga dal Governo a costoro uno stipendio mensile, si ha cura che non entri nel numero chi del Governo non gode la piena fiducia. La legge non circoscrive esplicitamente la scelta fra costoro, ma implicitamente la circoscrive, dando al Presidente del Tribunale illimitato arbitrio di escludere l’avvocato designato dall’accusato; il quale inoltre si trova già limitato in fatto, perchè antico uso degli avvocati della Curia Romana è di attendere esclusivamente alla difesa delle cause civili; il qual’uso è la conseguenza del monopolio che delle criminali fa quella cosidetta Procura de’ Poveri. In questo rispettabile consesso pertanto deve l’accusato scegliere chi lo difenda, e questa scelta, già limitatissima, viene ancora limitata dall’indicato arbitrio concesso al Presidente del Tribunale. In questa causa, per esempio, il Venanzi aveva nominati a suoi difensori gli avvocati Marchetti e Palomba, i quali, perchè non accetti al Presidente Sagretti, furono costretti a rinunciare alla difesa.
Quindi è che frequentissimamente accade che l’accusato o per abbreviare le noie e le torture sia costretto a chiedere che il difensore gli venga deputato d’officio, o che, d’esclusione in esclusione, debba rassegnarsi a subire la difesa dell’ultimo rimasto. E la parola si lascia forse libera al difensore? Non v’è invero censura preventiva delle difese scritte, ma v’è bene una censura repressiva che su gente di quella specie che si è descritta agisce preventivamente Lo stipendio potrebbe pericolare, ed in ogni modo la libera favella sarebbe seguita dalla disgrazia governativa, tale sempre da produrre presto o tardi i suoi frutti. Il popolo di Roma, che per lunga e dolorosa esperienza se ne intende, tiene per assioma che l’odio e la vendetta del prete, che collettivamente considerato non muore mai, perseguita la vittima fino alla settima generazione! Perchè infine, condizione indispensabile della processura deve essere il segreto, il mistero impenetrabile; Giudici, Fisco, Difensori, Cancellieri e chiunque abbia parte o nel processo o nella seduta, devono prestare 11 giuramento solenne, de servando secreto. Guai a quel difensore che comunicasse al difeso il nome di un solo dei testimoni! Circondato pertanto come è dal mistero e dalle tenebre, il giudizio criminale politico dalla sua prima origine al suo termine ultimo, quando il direttore e l’istruttore del processo congiurino a perdere un infelice, la vittima non ha scampo. Costoro possono impunemente permettersi ogni eccesso, ogni iniquità, perchè il silenzio, le tenebre ed il mistero li assicurano della impunità.
Se il Comitato Nazionale non fosse riuscito a sequestrare gran parte dell’incarto processuale, ad avere copia della Difesa fatta dal Dionisi, la quale perchè scritta con sufficiente libertà e coscienza fu rigorosamente soppressa per ordine del Tribunale giudicante, se questi fatti non avessero costretto il Tribunale a pubblicare la Sentenza, a divulgare la Relazione Fiscale, ogni cosa sarebbe rimasta sepolta nelle tenebre e nel mistero, com’è rimasta pur troppo nelle centinaia di processi politici orditi e giudicati dalla Sacra Consulta dal 1849 in poi; e se si fosse potuto gridare alla iniquità all’assassinio, le prove sarebbero mancate. Questo orribile dramma avrebbe avuto per termine il trionfo degli autori; imperocchè il senso morale pubblico avrebbe provato minor difficoltà a persuadersi che Lodovico Fausti potesse essere un liberale, che non ad ammettere ed a persuadersi che un Tribunale potesse essere o autore o complice di una iniquità senza esempio.
Le cose che quest’opuscolo discorre e prova; sembrano abbastanza serie e gravi per esser degne che l’Europa se ne occupi. L’Europa e perfino la gelida Diplomazia si sono commosse agli strazi che fa il Russo de’ Polacchi, e la commozioae è giunta a tale, che la pace d’Europa ne è minacciata. La Diplomazia e l’Europa esaminino se meno malvagio o meno crudele del Governo Russo sia il Governo del Papa, e quindi giudichino se non sia giunto il tempo, in cui, senza danno della pace pubblica, sia resa giustizia ai Romani, permettendo che finisca di cadere quel Governo che è tristo avanzo del medio evo, abbominio e disonore all’uman genere; e se potrebbe ragionevolmente imputarsi ai Romani la responsabilità di quegli eccessi in cui finirebbe per trascinarli chi si ostinasse più a lungo di sostenerlo.
Roma, Agosto 1863.
Il Comitato Nazionale Romano.
Note
- ↑ Presso informazioni che il Comitato ha ragione di credere esatte, la liberazione del De Angelis dal carcere sarebbe dovuta non tanto agli insistenti o continui uffici del marchese Lavalette, già ambasciadore di Francia a Roma, quanto ad una vistosa somma di denaro che, per gratitudine s’intende, sarebbe stala falta colare’ nelle tasche del sagretti e del Collemassi Questa notizia si rende tanto più credibile se pongasi mente, che il 14 luglio 1862, giorno in cui il De Angelis usci duelle carceri di San Michele per andare in esilió, la deposizione impunilaria della Diotallevi, che tanto!o gravava, era già stala ricevuta ed inserita in processo. Né il Sagretti, né il Collemassi sono animali si graziosi e benigni da lasciarsi fuggire dalle zanne la preda, se non sia per azzaroarne altra migliore. Come con quella deposizione si sono condannale dieci persone polevasi condannare l’uudeoimo, e lasciar dire l’AmbasciatoÈ quasi superfluo 11 nolare, essere una pretta falsità quanlo alla Diotallevi si è fatto dire del De Angelis, il quale fu sempre un uomo onesto, di principii sufficientemente libeberali; ma nulla più.
- ↑ Importava di interrogare giudizialmente il Matteucci per porre in solo una circostanza abbastanza importante, ma non fu fatto, non si volle. S’interrogò peraltro privatamente, il Dionisi, che a pag. 58, 59 della Difesa potè dire: «Soltanto è vero che in un tempo non vicino all’arresto del mio cliente, bensì anteriore alle feste natalizie del 1862, si diè un eventuale incontro di lui coll’inclito prelato, e forse cadde in acconcio il far parole dell’abuso di nome nella direzione delle lettere, come si era praticato verso monsignor vescovo d’Aquila, senza che per altro si entrasse nel merito della causa che il Fausti riguardava.»
- ↑ L’autore delle lettere del Sotto-Prefetto di Rieti per voler troppo colorire di verità la sua cabala riuscì proprio all’opposto. In una delle lettere sequestrate al Venanzi coll’indirizzo del Fausti, che lo stesso processante afferma venute dalla provincia di Campagna, si parlava del Fantini. Era questi imputato di diserzione e poco tardò che il Tribunale Militari lo condannò ai lavori forzati. Era affare finito da molto tempo. Ma l’autore delle nuove lettere, per non fasciar dubbio ohe fossero del Fausti, ripetè in esse il nome del Fantini. — Pel Fantini non temete. — Il povero dottore Eucherio non sapeva che pel Fantini non c’era più nulla da temere.
- ↑ Si ricordi il lettore dei rerolvers incendiarli!!
- ↑ V. Regol. di procedura crim. art. 555 e 556.
- ↑ V. Regol art. 560.
- ↑ Cit. Regol. art.561 e 562.
- ↑ Cit. Regol. art. 558.