Le piacevoli notti/Notte IV/Favola II
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FAVOLA II.
Non sarebbe, graziose donne, al mondo stato il più dolce, il più dilettevole, nè ’l più felice, che trovarsi in servitù d’amore, se non fusse l’amaro frutto della subita gelosia, fugatrice de gli assalti di Cupidine, insidiatrice dell’amorose donne, diligentissima investigatrice della loro morte. Laonde mi si para davanti una favola che vi doverà molto piacere; perciò che per quella poterete agevolmente comprendere il duro ed infelice fine che fece un gentiluomo ateniense; il quale con la sua fredda gelosia credette la moglie per man di giustizia finire, ed egli al fine condennato e morto rimase. Il che giudico che vi sarà caro udire; perciò che, se io non erro, penso che ancor voi innamorate siete.
In Atene, antiquissima città della Grecia, ne’ passati tempi domicilio e recettacolo di tutte le dottrine, ma ora per la sua ventosa superbia totalmente rovinata e distrutta, ritrovavasi un gentiluomo, messer Erminione Glaucio per nome chiamato: uomo veramente grande ed estimato assai nella città e ricco molto, ma povero d’intelletto. Perciò che essendo oramai attempato, e attrovandosi senza figliuoli, deliberò de maritarsi; e prese per moglie una giovanetta, nominata Filenia, figliuola di messer Cesarino Centurione, nobile di sangue, di maravigliosa bellezza e d’infinite virtù dotata: nè vi era nella città un’altra che a lei pareggiar si potesse. E perciò che egli temeva per la sua singolar bellezza non fusse sollecitata da molti e cadesse in qualche ignominioso difetto, per lo quale poi ne fusse dimostrato a dito, pensò di porla in un’alta torre nel suo palazzo, non lasciando che da alcuno fosse veduta. E non stette molto che il povero vecchio, senza sapere la cagione, divenne di lei tanto geloso, che appena di se stesso si fidava. Avenne pur che nella città si trovava un scolare cretense, giovane di età, ma sacente ed aveduto molto e da tutti per la sua gentilezza e leggiadrìa assai amato e riverito: il quale per nome Ippolito si chiamava, ed innanzi che ella prendesse marito, lungo tempo vagheggiata l’aveva; ed appresso questo teneva stretta domestichezza con messer Erminione, il quale non meno l’amava se figliuolo li fusse. Il giovanetto, essendo alquanto stanco di studiare e desideroso di ricoverare gli spiriti lassi, di Atene si partì; ed andatosene in Candia, ivi per un spazio di tempo dimorò, e ritornato ad Atene, trovò Filenia che maritata era. Di che egli fu oltre misura dolente; e tanto più si doleva, quanto che si vedeva privo di poterla a suo bel grado vedere: nè poteva sofferire che sì bella e vaga giovanetta fusse congiunta in matrimonio con sì bavoso ed isdentato vecchio. Non potendo adunque l’innamorato Ippolito più pazientemente tollerare gli ardenti stimoli ed acuti strali d’amore, se ingegnò di trovare qualche secreto modo e via, per la quale egli potesse adempire i suoi desiri. Ed essendogliene molti alle mani venuti, ne scelse prudentissimamente uno che più giovevole li pareva. Imperciò che, andatosene alla bottega di uno legnaiuolo suo vicino, gli ordinò due casse assai lunghe, larghe ed erte, e d’una medesima misura e qualità, sì che l’una da l’altra agevolmente non si poteva conoscere. Dopo se ne gì da messer Erminione; ed infingendosi avere bisogno di lui, con molta astuzia li disse queste parole: Messer Erminione mio, non meno di padre da me amato e riverito sempre, se non mi fusse noto l’amore che voi mi portate, io non mi ardirei con tanta baldanza richiedervi servigio alcuno; ma perciò che hovvi trovato sempre amorevole verso me, non dubitai punto di non poter ottener da voi ciò che l’animo mio brama e desidera. Mi occorre di andare fino nella città di Frenna per alcuni miei negozii importantissimi, dove starò fin a tanto che saranno ispediti. E perchè in casa non ho persona di cui fidare mi possa, per essere alle mani di servitori e fantesche, de’ quali non mi assicuro molto, io vorrei, tuttavia se vi è a piacere, deporre appresso voi una mia arca piena delle più care cose che io mi trovi avere. Messer Erminione, non avedendosi della malizia del scolare, li rispose che era contento: e acciò che la fusse più sicura, la metterebbe nella camera dove egli dormiva. Di che lo scolaro li rese quelle grazie le quali egli seppe e puote le maggiori: promettendoli di tal servigio tenere perpetua memoria; ed appresso questo sommamente lo pregò che si dignasse di andare fino alla casa sua per mostrargli quelle cose che nell’arca aveva riservate. Andatosene adunque messer Erminione alla casa d’Ippolito, egli vi dimostrò un’arca piena di vestimenti di gioie e di collane di non poco valore. Indi chiamò un de’ suoi serventi; e dimostratolo a messer Erminione, li disse: Ogni volta, messer Erminione, che questo mio servente verrà a tor l’arca, prestaretegli quella fede, come se egli fusse la persona nostra. Partitosi messer Erminione, Ippolito si pose nell’altra arca che era simile a quella delle vestimenta e gioie; e chiusosi dentro, ordinò al servente che la portasse là dove egli sapeva. Il servente, che del fatto era consapevole, ubidientissimo al suo patrone, chiamò uno bastaggio; e messagliela in su le spalle, la recò nella torre dove era la camera in cui messer Erminione la notte con la moglie dormiva. Era messer Erminione uno de’ primai della città; e per esser uomo ricco molto e assai potente, gli avenne che per l’autorità ch’egli teneva li fu bisogno contra la sua voglia di andare per alquanti giorni fino ad uno luogo addimandato Porto Pireo, lontano per spazio de venti stadi dalla città d’Atene, per assettare certe liti e differenze che tra’ cittadini e quelli del contado vertivano. Partitosi adunque messer Erminione mal contento per la gelosia che dì e notte lo premeva, ed avendo il giovane nell’arca chiuso più volte udito la bella donna gemere, rammaricarsi e piangere, maladicendo la sua dura sorte, e l’ora, e ’l punto che ella si maritò in colui che era distruttore della sua persona, aspettò l’opportuno tempo che ella s’addormentasse. E quando li parve che ella era nel suo primo sonno, egli uscì dell’arca, ed al letto si avicinò; e disse: Destati, anima mia, che io sono il tuo Ippolito. Ed ella destata vedendolo e conoscendolo, perciò che era il lume acceso, volse gridare. Ma il giovane, messa la mano alla sua bocca, non la lasciò gridare; ma quasi lagrimando disse: Taci, cuor mio; non vedi tu ch’io sono Ippolito, amante tuo fedele, che senza di te il viver mi è noioso? Achetata alquanto la bella donna, e considerata la qualità del vecchio Erminione e del giovane Ippolito, di tal atto non rimase scontenta; ma tutta quella notte giacque con esso lui in amorosi ragionamenti, biasmando gli atti ed i gesti del pecorone marito, e dando ordine di potersi alcuna volta ritrovare insieme. Venuto il giorno, il giovane si rinchiuse nell’arca; e la notte se ne usciva fuori a suo piacere, e giaceva con esso lei. Erano già passati molti e molti giorni, quando messer Erminione, sì per lo incomodo che pativa, sì anche per la rabbiosa gelosia che di continovo lo cruciava, assettò le differenze di quel luogo, e ritornossi a casa. Il servente d’Ippolito, che inteso aveva la venuta di messer Erminione, non stette molto che se n’andò a lui, e per nome del suo patrone chieseli l’arca: la quale, secondo l’ordine tra loro dato, graziosamente da lui li fu restituita; ed egli, preso un bastaggio, a casa se la recò. Uscito Ippolito de l’arca, andò verso piazza, dove s’imbattè in messer Erminione; ed abbraciatisi insieme, del ricevuto servigio come meglio puote e seppe cortesemente lo ringraziò: offerendoli e sè e le cose sue sempre a’ suoi comandi paratissime. Ora avenne che, standosi messer Erminione nel letto una mattina con la moglie più del solito a giacere, se li rappresentorono nel pariete innanzi a gli occhi certi sputi che erano assai alti e lontani molto da lui. Onde acceso dalla gran gelosia che egli aveva, molto si maravigliò, e tra sè stesso cominciò sottilmente considerare se gli sputi erano suoi overo di altrui; e poi che egli ebbe ben pensato e ripensato, non vi puote mai cadere nell’animo ch’egli fatti li avesse. Laonde temendo forte di quello che gli era avenuto, si voltò contra la moglie, e con turbata faccia le disse: Di chi sono quei sputi sì alti? Quelli non sono sputi di me; io mai non li sputai; certo che tradito mi hai. Filenia allora, sorridendo di ciò, li rispose: Avete voi altro che pensare? Messer Erminione, vedendola ridere, molto più se infiammò; e disse: Tu ridi, ah? rea femina che tu se’; e di che ti ridi? — Io mi rido, rispose Filenia, della vostra sciocchezza. Ed egli pur tra se stesso si rodeva; e volendo isperimentare se tanto alto poteva sputare, ora tossendo ed ora raccagnando, si afforzava col sputo di aggiungere al segno; ma in vano si affaticava, perciò che lo sputo tornava indietro, e sopra il viso li cadeva, e tutto lo impiastracciava. Avendo questo il povero vecchio più volte isperimentato, sempre a peggior condizione si ritrovava. Il che vedendo, conchiuse per certo dalla moglie esser stato gabbato; e voltatosi a lei, le disse la maggior villania che mai a rea femina si dicesse. E se non fusse stato il timore di se stesso, in quel punto con le propie mani uccisa l’arrebbe; ma pur si astenne, volendo più tosto procedere per via della giustizia, che bruttare le mani nel suo sangue. Onde non contento di questo, ma di sdegno e d’ira pieno, al palaggio se n’andò; ed ivi produsse innanzi al podestà contra la moglie una accusazione di adulterio commesso. Ma perchè il podestà non poteva condannarla, se prima non era osservato lo statuto, mandò per lei diligentemente essaminarla. Era in Atene un statuto in somma osservanza, che ciascheduna donna, di adulterio dal marito accusata, fusse posta a’ piedi della colonna rossa, sopra la quale giaceva un serpe; indi se le dava il giuramento, se fusse vero che l’adulterio avesse commesso. E giurato che ella aveva, erale di necessità che la mano in bocca del serpe ponesse; e se la donna il falso giurato aveva, subito il serpe la mano dal braccio le spiccava: altrimenti rimaneva illesa. Ippolito, che già aveva persentita la querela esser data in giudizio, e che il podestà aveva mandato per la donna che comparesse a far sua difesa, acciò che non incorresse ne i lacci della ignominiosa morte, incontanente da persona astuta e che desiderava camparle la morte, depose le sue vestimenta, e certi stracci da pazzo si mise indosso; e senza che d’alcuno fusse veduto, uscì di casa, ed al palagio come pazzo, se ne corse, facendo di continovo le maggior pazzie del mondo. Mentre che la sbirraglia del podestà menava la giovane al palagio, concorse tutta la città a vedere come la cosa riusciva; ed il pazzo, spingendo or questo or quello, si fece tanto innanzi, che puose le braccia al collo alla disconsolata donna, ed un saporoso bascio le diede: ed ella, che aveva le mani dietro avinte, dal bascio non si puote difendere. Giunta adunque che fu la giovane innanzi al giudizio, le disse il podestà: Filenia, come tu vedi, qui è messer Erminione tuo marito, e duolsi di te, che abbi commesso l’adulterio, e perciò addimanda ch’io secondo lo statuto ti punisca; e però tu giurerai se il peccato che ti oppone il tuo marito, è vero. La giovane, che a-stuta e prudentissima era, animosamente giurò che niuno di peccato l’aveva tocca, se non il suo marito e quel pazzo che v’era presente. Giurato che ebbe Filenia, i ministri della giustizia la condussero al serpe: al quale presentata la mano di Filenia in bocca, non le fece nocumento alcuno; perciò che aveva confessato il vero, che niuno altro di peccato, se non il marito ed il pazzo, tocca l’aveva. Veduto questo, il popolo ed i parenti, che erano venuti a vedere l’orrendo spettacolo, innocentissima la giudicorono, e gridavano che messer Erminione tal morte meritava, quale la donna patire doveva. Ma per che egli era nobile e di gran parentado e dei maggiori della città, non volse il podestà, come la giustizia permetteva, che fusse pubblicamente arso; ma pur, per non mancare del debito suo, lo condannò in una pregione: dove in breve spazio di tempo se ne morì. E così miseramente finì messer Erminione la sua rabbiosa gelosia, e la giovane da ignominiosa morte si disviluppò. Dopo non molti giorni Ippolito presala per sua legittima moglie, seco molti anni felicemente visse.
Finita la favola dalla prudente Vicenza raccontata ed alle donne molto piaciuta, la Signora le impose che l’ordine dello enimma seguisse. La quale, alzato il piacevole e polito viso, in vece di canzone così disse.
Con sviscerato amor speme e desio
Nasce una fiera macra e scolorita;
E ’n un bel volto mansueto e pio,
Com’ellera si serpe a tronco ordita.
Si pasce di cordoglio acerbo e rio;
E va di panno brun sempre vestita.
Vive in affanno e cresce nel dolore;
Miser chi cade in un sì grande errore.
Qui impose fine Vicenza al suo enimma: il quale da diversi diversamente fu interpretato; ma niuno fu de sì saputo ingegno, che l’intendesse. Il che vedendo, Vicenza prima trasse un focoso sospiro; indi con chiaro viso così disse: Altro non è il mio proposto enimma, che la fredda gelosia: la quale, macilente e scolorita, con amore ad un medesimo tempo nacque; ed abbraccia gli uomini e le donne, come l’amichevole ellera il caro tronco. Costei di cordoglio si pasce, perciò che il geloso sempre in affanno vive. Veste di bruno, per esser il geloso di continovo malenconico. Questa dechiarazione molto piacque a tutti, e specialmente alla signora Chiara, il cui marito ingelosiva di lei. Ma acciò che niuno non s’avedesse ciò esser detto per lui, la Signora comandò che alle risa si ponesse silenzio, e che Lodovica, a cui toccava di favoleggiare la volta, desse principio; la qual così cominciò.