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rate del bivacco d’inverno, coricati sulla neve, senza fuoco, senza mantello, senza cena, e pure felici. Si gittava al vento un ritornello patriottico di Petöfy, ormai senza eco: un flebile ritornello delle arie della pianura, che provocava una esplosione di lagrime, che ricordava il villaggio, le serate d’estate sotto l’effluvio delle stelle, le serate d’inverno all’angolo dell’amato focolare, la madre, la sorella, la fidanzata, la sposa lasciate per la patria, i fanciulli benedetti partendo, che giocavano colle sciabole. I buffi d’indignazione e di annientamento si alternavano e si succedevano. C’erano là 30,000 uomini, che domandavano di battersi ancora. Si desiderava la battaglia del destino — la disperazione contro la potenza.

Una notte serena, irradiata da uno spolverio di stelle, filtrata da un vapore bianco e leggero, avviluppava di ombre tutto il paesaggio. Le finestre del castello di Bohus risplendevano. Là si macchinava il disonore, e si vegliava. Là stavano forse l’insonnia ed il rimorso degli uni, il dubbio e l’esitazione degli altri, la volontà calcolata del capo. Poi, quando l’alba principiò a imbiancare il cielo, quando arrivò l’ora dell’esecuzione, e’ fu come un accesso di delirio. Ad un punto, centinaia e migliaia d’uomini presero la fuga, e si nascosero nei boschi: 7,000 uomini sparvero dalle file in pochi quarti d’ora.

Il sole si alzò.

La resa doveva aver luogo a mezzogiorno, nella pianura di Szöllös. L’agitazione della notte cessò. Un silenzio sinistro seguì, interrotto soltanto da qualche singhiozzo soffocato, da qualche singulto indomabile. Quelli che restavano sembravano rassegnati. Si compiacevano a credere in qualche cosa d’ignoto