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cito ungherese si avvicinava ai Russi per metter giù le armi. L’esercito credeva di andare a battersi ancora, e non domandava che la battaglia, quantunque ormai certo della sua disfatta finale.

Bem m’inviò a portare i suoi ordini a Görgey, nella sua qualità di generalissimo, poichè egli considerava come incostituzionale la trasmissione di poteri fatta da Kossuth a Görgey, senza la sanzione della Dieta. Arrivai a Vilagos il 12 agosto, alla sera, ma non potei penetrare nel castello di Bohus, ove risiedeva Görgey, e non insistetti. Circolai un po’ nelle file dell’esercito.

Gli ufficiali erano tristi, i soldati in collera. Tutti gli aspetti che la disgrazia, lo scoraggiamento, la malinconia, la rabbia e l’abbattimento possono prendere, si dipingevano sulle fisonomie di quegli uomini. Tutte le impronte strazianti, che il dolore e la disperazione possono scolpire sopra una faccia virile e vivente, i tratti di quei soldati le portavano. La notizia della reddizione era ormai conosciuta. Non c’era più subordinazione. I bivacchi della notte furono tregende. Qui gridavano, bestemmiavano, maledicevano, od insultavano gli ufficiali meno afflitti; là si rompevano le armi, si ammazzavano i cavalli, si suicidavano. Il dolore ebbe voci diverse, ma immense e spaventevoli. Nessuno mangiò. Nessuno dormì. I cavalli stessi parevano penetrati da un sentimento di pesante tristezza. Si facevano dei progetti assurdi. Si concepivano speranze insensate. Tutti erano accusati, e nessuno si scusava. Si ricordavano i giorni gloriosi della vittoria, della gioia, l’entrata trionfale nelle città, il perdono generoso accordato al nemico dopo di averlo vinto, i colpi fortunati, le orride se-