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stare a nudrir quella gente. Le giovanette portavano una specie di astuccio di pelle d’orso in lembi. La madre, scarna, squallida, cogli occhi stralunati di fame, somigliava a bestia feroce, anzi che a donna. L’uomo soccombeva sotto il peso della rassegnazione, delle privazioni, dei gemiti di questi esseri affamati. Io diedi loro un po’ di pesce secco. Metek sospettò di quegli sventurati, cui la fame poteva cangiare in assassini. E’ fumò tutta la notte, fuori della yurta, a guardia delle renne e della slitta. Il dì seguente, cominciammo a discendere l’Arga.

Il vento era violento. Eravamo al 15 dicembre. Il freddo si era un po’ calmato. Il letto del fiume, ora incassato fra due alti margini, ora a fior di terra, in una steppa immensa che saliva verso il nord, non offriva accidenti insormontabili. Avanzavamo quindi in media da sette ad otto chilometri l’ora. Ad un sito, ove il fiume faceva gomito, ci arrestammo per lasciar pascere le renne e preparare il nostro desinare. Noi facevamo due pasti caldi al dì: l’asciolvere, prima di metterci in cammino, e la cena la sera. Nel mezzo del dì, rosicchiavamo un biscotto, e strappavamo coi denti un lembo di carne salata. La tenda era affumicata e rischiarata ad un tempo dal fuoco dei ginepri verdi che bruciavamo. Io aveva disteso uno strato di piccoli rami rotti sul ghiaccio, e vi spiegavo sopra le molte pellicce della slitta per preparare il letto di Cesara, quando udimmo un rumore intorno al nostro accampamento ed un bramito straziante nel lontano profondo della foresta. Prendemmo le nostre armi, ed uscimmo. Le nostre tre renne tremavano, e si avanzavano dietro la slitta per cercarvi un ricovero; le altre due renne non vi erano più.