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terrare sotto la neve e pascere un po’ di lichene come può; e quando si è riposata e nudrita, viene a prendere spontaneamente la coreggia della slitta. Coraggiosa al lavoro, la renna percorre da trenta a quaranta chilometri di un sol fiato; poi si corica un istante sulla neve, ed un quarto di ora dopo riprende il suo volo di rondine. La sua carne è squisita, sopra tutto la lingua; la sua pelle è preziosa a mille usi.

Mentre le nostre renne andavano a disotterrare il loro nutrimento, noi cacciavamo un istante. Cesara alimentava il fuoco, che avevamo acceso, faceva bollire il calderino pieno di neve, e preparava, col thè, la farina ed un po’ di sale, una densa polenta. Se la caccia era stata prospera, aggiungevamo al nostro desinare un arrosto; se ritornavamo a secco, ciò che non succedeva di rado, il pesce e la carne secca apparivano sul tappeto di neve che ci serviva di tovaglia. Cesara dormiva nella slitta. Io riposavo a fianco a lei un paio di ore. Metek non conosceva queste umane debolezze; tutto al più, ei sonnecchiava un quarto d’ora ogni due giorni, un occhio chiuso ed uno aperto. La neve rifletteva, la notte, un crepuscolo scialbo, che ci permetteva di viaggiare, se il tempo era calmo, il cielo sereno. Incontrammo qualche povero cacciatore col suo cane, e di tempo in tempo, un lupo o due, che ci vedevano passare malinconicamente, non sentendosi tanto forti da attaccarci. Il freddo, quantunque a 28 gradi, non c’incomodava ancora.

A partir dal terzo giorno, io cominciai a respirare più liberamente. Avevo qualche centinaio di verste di vantaggio sui cani dello Czar.