Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/222

più nella macchia, Metek avanti, io dietro a lui. A un tratto, Metek fermossi, e per di dietro fecemi segno colla mano di fermarmi altresì. Guardammo. A un tratto, un alce sbuca da una specie di cespuglio di rododendri e di piante fanerogame, di cui sbioccolava i tralci gelati. I nostri due colpi partirono ad un tempo. L’alce cadde.

Questo bello antilope è al presente rarissimo in questa contrada. Una provvigione così inaspettata e felice ricolmocci di gioia. Ci mettemmo a modo di trascinarlo all’accampamento. Ma come caricare le nostre povere renne di questo soprappiù di peso? Esse avevano già tanta pena a camminare, sia per il freddo, sia per l’insufficienza del nutrimento. Bisognollo nondimeno. Solo, procedevamo più lentamente.

Ci fermammo due giorni per far riposare la nostra muta, regalandoci della carne squisita dell’alce. Poi rimontammo la Moma; e dopo un giorno di viaggio voltammo la corrente a sinistra.

Dinnanzi a noi spiegavasi, a perdita di vista, a destra ed a sinistra, una bastionata di montagne, della forma presso a poco simile alle mezze lune delle piazze forti. Il versante ovest rizzavasi quasi a picco davanti a noi, in distanza, mentre i versanti nord ed est si abbassavano, e disegnavano come delle vallate alberate. Risalivamo la corrente. La superficie della neve gelata era increspata sotto il soffio del vento, che l’aveva agitata quando cadeva. Procedevamo quindi con infinito disagio. Una burrasca secca, che sollevava la neve, ridotta ad un polverio di punte acuminate, ci tagliava la faccia, e percuoteva i fianchi. Le renne non ne potevano più. Io apriva ad ogni momento le store della slitta, perocchè avevo notato