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dell’affluente eravi una barra di rocce, che formavanoFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376 una cascata di otto o dieci metri di altezza. L’acqua gelata e la neve soprapposta cangiavano la cascata in un piano inclinato assai rapido, per non dire a picco. Fu mestieri distaccare le renne e farle saltare a parte, poi alleggerire la slitta e farla scivolar giù, ritenendola per di dietro con le corregge delle renne; poi operar la discesa, o piuttosto lo sdrucciolo, di Cesara, il mio e quello di Metek. Ciò ci prese lungo tempo, ma ci procurò un ricovero per la notte. Noi eravamo come al fondo di un pozzo, salvo il corso immenso della riviera, che si apriva dinanzi a noi come un viale a perdita d’occhio. Il vento, che spirava in questo corridoio di granito, era intollerabile. Dico corridoio, perchè le due sponde del fiume erano bastionate di rocce merlate. La tenda fu spiegata, il veicolo raggiustato. Faceva un freddo di 35 gradi, almanco.

Scalammo la ripa a sinistra, la più bassa, ed andammo a cercar dei bruscoli. Le renne ci seguivano. Mentre che Metek trasportava il legno ed allumava il fuoco, e che Cesara si occupava del desinare, io restai per sorvegliare le renne e cacciare. Rimuginando nel selvatico dai cespi intrecciati di ginepri e salici, scoversi sul nevischio gelato della notte precedente una pesta, che mi arrestò. Era il piede di un animale della famiglia dei cervi, che aveva gironzato per là: — forse — mi dissi — una delle nostre renne perdute. Presi a seguire la traccia. Ben presto, Metek mi raggiunse. Era difficilissimo procedere; il chiarore insufficiente limitava la portata dello sguardo. Ma le peste si seguivano. La speranza di una bella preda ci diede lo slancio. Penetrammo sempre