Le notti degli emigrati a Londra/Il conte Giovanni Lowanowicz/IV
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IV.
Lasciai Radziwitow il 7 agosto. Il colonnello Semenow, che mi aveva dimostrato tutta la cortesia che aveva creduta compatibile col suo grado e la sua posizione, si trovò presente alla mia partenza per darmi un tacito addio. Mi avevano poste le manette e le catene ai piedi. Nella KibitkaFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376, un ufficiale di gendarmeria sedeva a lato a me, e due gendarmi coi fucili carichi stavanmi dirimpetto. L’ufficiale era un tedesco, grossolano, ma non cattivo, chiamato Krünn. Fumava sempre, beveva finchè aveva denari, e prendeva molto diletto a conversare, onde aver il solletico di vantarsi dei servigi che aveva resi e rendeva allo Czar per domare i Polacchi. Siccome nel mio caso eravi alcun che di straordinario, cui io non aveva voluto spiegargli, così mi trattò con molta deferenza. Forse il colonnello Semenow l’aveva messo in guardia. Comunque si fosse, gli è che noi viaggiavamo quasi a seconda della mia volontà, cui, del resto, io dissimulava sotto la più delicata urbanità. Il colonnello gli aveva consegnata la borsa lasciatami da mia madre, ed il degno gendarme trattavami, e si trattava, da principe.
Il tempo era splendido. Un sole raggiante animava la continua monotonia delle contrade cui traversavamo, e le pozzanghere d’acqua putrida degli stagni divenivano scintillanti, il verde nero delle foreste si smaltava di una vernice fosca, che incantava lo sguardo. Il cielo della Polonia è di un azzurro dolce e carezzevole, tra il celeste grigio del cielo di Francia ed il denso cobalto del cielo d’Italia. Viaggiavamo notte e giorno, cangiando di tempo in tempo i gendarmi. Le notti divenivano fresche, soprattutto verso l’alba, e quasi sempre umide. La nebbia, che c’investiva il mattino, ci lasciava quasi sempre bagnati. Il capitano Krünn temeva che io ne soffrissi, vedendomi così delicato, di un aspetto quasi femmineo. Imperciocchè il cielo della Siberia non mi aveva dato ancoraFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376 la tinta virile, che mi osservate oggidì. Il bleu dei miei occhi si è addensato sotto l’ardente riverbero dei ghiacci del paese degli TsciuktsciasFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376; la lanugine dorata, che copriva le mie labbra, è divenuta baffi biondi; la bianchezza diafana della pelle si è abbronzata sotto l’alito dei venti del mare del polo; la vita snella e fine si è ingrossata e fortificata sotto le strette del lavoro. Ma, a quell’epoca, si sarebbe detto che io fossi una amazzone, che lasciavasi andare ai capricci del viaggiare. Vestivo la tunica grigia degl’insorti e portavo una specie di kepì rosso orlato di nero.
Bisogna aver viaggiato in Polonia od in Russia per aver un’idea della celerità che può raggiungere una vettura a cavalli. Avremmo potuto percorrere duecento verste (chilometri) al giorno, con una rapidità vertiginosa, se io non avessi pregato il capitano Krünn di moderare il corso del nostro leggero veicolo. Le manette e le catene mi facevano soffrire orribilmente, e risentivo nel capo i balzi prodigiosi e gli sbattimenti amorosi della kibitka. In certi momenti parevami divenir pazzo, talmente il sangue, che mi affluiva alla testa, mi dava delle allucinazioni, delle vertigini, dei miraggi fantastici. Tentavo scacciare del mio spirito l’orrido pensiero della mia posizione, ma esso mi assediava, mi possedeva, e diveniva più pressante ad ogni versta che ci ravvicinava a Varsavia. Il pieno sole, l’aria libera, l’infinito cielo, il movimento e l’imponente linguaggio della natura, la vista dell’uomo, dei boschi, delle città, delle acque, la vita che spirava dovunque, mi facevano però ancora illusione. Io non era ancora in faccia al mio delitto, abbaruffandomi col carnefice. Ero in faccia alla società ed alla natura. Questa scappatoia della speranza doveva ben tosto svanire. Finalmente una sera, a dieci ore, arrivammo a Varsavia.
Se io non avessi lasciata questa città due mesi avanti, avrei creduto di entrare in una necropoli. Lo stato d’assedio pesava sugli abitanti, come uno spegnitoio gigantesco, che intercetta il suono, la luce, l’aria, limita lo spazio, sopprime la vita. Non una vettura, non un viandante nelle strade. Non si udiva che il passo delle pattuglie, ed il rombo gutturale, cadenzato delle sentinelle. Si sarebbe detto che i lampioni mandassero una fiamma a corruccio, tanto essi spandevano quella caliginosa e rossastra luce delle lucerne fumose. Nessuno strepito trapelava dalle case; non uno spiraglio, che lasciasse trapelare un raggio. Tutte le imposte e le persiane restavano chiuse. Passai dinnanzi alla mia casa: mi parve una tomba. Mi si serrò il cuore. Che faceva mia madre a quell’ora? Pregava, senza dubbio. Alcuni cani abbaiavano lontano lontano. Forse i Cosacchi li torturavano, prima di mangiarli.
La kibitka si arrestò dinanzi la cittadella. Io aveva tutte le membra intirizzite. I gendarmi mi presero nelle loro braccia, e mi portarono. Fui deposto prima in una specie di sala di cancelleria del colonnello, comandante della cittadella. E’ fu avvertito del mio arrivo. Infrattanto mi perquisirono, onde non perdere l’abitudine; perocchè sapevano bene che altri avevan dovuto compiere quella formalità parecchie volte prima di loro. Il colonnello arrivò subito, ed il capitano Krünn s’intrattenne con lui alcuni istanti, parlando a voce bassa e consegnandogli una filza voluminosa di carte.
Il colonnello m’interrogò. La sua voce tradiva la collera, ma egli si sforzava di conservarsi calmo. Risposi a monosillabi, ovvero mi tacqui. Il mio nome fu scritto sopra un registro. Credetti udire il colonnello chiedere al cancelliere se restasse ancor vuota una cellula. La risposta fu negativa. Si consultarono, poi fu pronunziato un numero, ed i soldati mi trasportarono attraverso un dedalo di corridoi. La domanda di essere liberato dalle manette mi corse più volte alle labbra; ma per timore di un rifiuto, m’astenni di emetterla. Fu quindi in tale stato che mi deposero in una muda, in fondo ad un corridoio, donde l’avevano tagliata fuori, chiudendolo fino alla vôlta con un’immensa porta munita di un abbaino.
È stato molto scritto e detto contro le prigioni russe. Esse non sono nè più nè meno atroci di quelle dell’imperatore Francesco I d’Austria, e del fu re di Napoli Ferdinando. Vi sono così orride rivelazioni da fare contro la Russia, che l’esagerazione diviene inutile, e disonora chi se ne serve. Fui gettato sopra un’umida pietra, e la porta si rinchiuse con rumore sopra di me. Cercai, brancolando, un angolo, in cui mi lasciai cascare, e mi addormentai. Nella kibitka, io non aveva avuto da parecchi giorni che una continua insonnia. Il sonno, che allora mi cadde sopra come piombo, fu benefico; esso mi sottrasse al supplizio di quella folla di farnetiche larve, che s’impadroniscono del prigioniero, e popolano di orribili immagini, le prime ore della prigione.
All’indomani fui risvegliato d’improvviso dal carceriere e dal rumore dei calci dei fucili, che percuotevano le lastre del corridoio. Venivano a cercarmi per presentarmi al Consiglio di guerra. «Tanto meglio, dissi io, l’affare sarà presto finito». Però non fu davanti al Consiglio di guerra che mi condussero.
Mi trovai in mezzo alla Commissione dello stato d’assedio. Ciò mi sorprese, ma il mio stupore non durò a lungo.
Si sfiorò l’interrogatorio in quanto alle mie imprese militari. Pareva loro inutile sciupar tempo con un uomo che, fin dal primo istante, aveva dimostrato non voler parlare; e cercare altri elementi, quando ve ne erano già bastanti per condannarmi, sia ad esser fucilato, sia ad esser impiccato — secondo l’umore, la fantasia, lo stato di digestione dei giudici, e l’ora del giudizio. L’istruzione s’aggirò sopra altro terreno.
Pareva loro straordinario che un giovane, della mia famiglia, co’ miei principii e le mie relazioni, fosse restato a Varsavia, quasi per due anni, in una specie di febbrile indifferenza, in una calma irrequieta, mentre i miei compatriotti, i giovani della mia età e della mia nascita si battevano per la causa nazionale. Si sapeva l’ostilità che regnava fra mio fratello e me. Non s’ignorava il mio odio contro i Russi. Perchè dunque mi ero deciso così tardi ad entrare in campagna?
— Voi siete membro del Comitato, mi disse il colonnello presidente.
— Voi mi fate troppo onore, signore, sclamai, fremendo internamente.
Il colonnello fissò sopra di me il suo sguardo grigio, petulante, e ripetè:
— Voi siete membro del Comitato, e latore dei suoi ordini.
— Voi leggete dunque nella coscienza, signore, poichè vi permettete simili accuse!
— Leggerò ben tosto in queste carte, rispose il colonnello con un sorriso trionfante.
Allora ei frugò nel quaderno del mio processo, compilato a Radzewilow, e ne tirò fuori un pezzo di carta, sul quale correvano dall’ovest al sud, di traverso, a zig-zag, degli sgorbi, delle strisce, delle piccole chiazze di inchiostro, delle zampette di mosca, ed ogni sorta di segni grotteschi. Ei me lo presentò, e mi disse:
— Leggete un po’ codesto.
Io guardai, e proruppi in un omerico scroscio di riso.
Ecco di che si trattava.
La sera avanti la mia partenza per la Volinia, io era andato a far visita ad una signora, che aveva suo figlio tra gl’insorti di quel paese. Mentre noi conversavamo, seduti intorno ad un tavolo su cui c’era carta e calamaio, una bambina di quattro anni s’era divertita a scarabocchiare sopra un foglio, che poi mi aveva presentato, dicendo: «Ho scritto al mio piccolo marito che lo amo tanto!» La ragazzina aveva quindi rotolato la parte scritta della carta a foggia di zigaretto, e l’aveva, a mia insaputa, cacciata nella tasca della mia tunica, ove era rimasta sotto la pezzuola. Dopo la mia ferita, frugando nelle mie tasche, quello stoppino era stato trovato, era stato svolto, ed avevan veduto lo strano geroglifico. «È uno scritto in cifra!» aveva probabilmente esclamato il commissario incaricato dell’istruzione del mio processo. E come tale, ei l’aveva inviato fra le carte a mio carico. Da uno scritto in cifra all’esser membro del Comitato, ci correva certo un vasto spazio. Ma vi è nulla di comparabile alla miracolosa velocità d’immaginazione d’un giudice d’istruzione che ha già un partito preso?
La mia ilarità sconcertò ed offese il colonnello.
— Si può conoscere la causa di codesta gaiezza? disse egli lentamente.
— Ma non vedete, signore, che codesti sono gli sgorbi d’un bimbo, che vuole scimmiottar la scrittura?
— E chi è il bimbo che l’ha fatti?
Tacqui. Ero preso. Dovevo io nominare la figliuola della mia amica? Avrei scatenato la tempesta su quella povera famiglia, già tanto provata dalla sventura, poichè due dei suoi giovani erano morti, uno era prigioniero, e il quarto si batteva ancora. Il mio silenzio cangiò il dubbio in convinzione: io era membro o emissario del Comitato! Io era dunque la prima luce che poteva guidarli, onde scandagliare quell’abisso di tenebre che metteva in iscompiglio il Governo dello Czar.
L’onnipotenza di quel Comitato, cui tutta una nazione conosceva forse e nessuno tradiva, al quale tutti obbedivano, che agiva come la folgore, e maneggiava a suo grado l’anima nazionale, stordiva l’imperatore Alessandro, irritava il granduca Costantino, costernava la burocrazia moscovita. Potete immaginarvi quindi se dovessero rassegnarsi alla mia risposta ed al mio silenzio. Tutto quello che io potei soggiungere per confermare la mia spiegazione, non valse che a consolidare il sospetto. Occorreva quindi trovare il mezzo di farmi parlare a mio malgrado.
Ciò che v’ha di terribile in tutte le istruzioni criminali si è che il giudice vi arriva sempre imbevuto di una convinzione, cui si sforza di realizzare, come il matematico si mette a provare il problema che si è proposto. Le mie ragioni non ebbero dunque alcun valore. Si trattava omai di strapparmi, in qualunque modo, delle confessioni, che venissero a confermare l’opinione prestabilita dalla Commissione dello stato d’assedio. Ecco il suo còmpito. Ora il Corpo della polizia e quello della magistratura in Russia si servono di una quantità di mezzi più o meno terribili per isciogliere lo scilinguagnolo ed anche nel senso che meglio loro aggrada. Questa procedura si riassume in una parola: la tortura.
— Vi accordo ventiquattr’ore di riflessione, mi disse il colonnello presidente. Se domani voi persistete a tacere, sappiate che noi abbiamo il potere di fare per lo meno gridare queglino che non vogliono parlare.
— Signor presidente, io parlo; ma non è colpa mia, se non posso accettare il linguaggio che m’imponete.
Mi ricondussero alla mia secreta. Era mezzogiorno. Vi ho detto che quel buco non aveva altra apertura che un piccolo abaino praticato nella porta, pel quale filtrava un’aria mefitica e la luce d’una lanterna, accesa notte e giorno all’altra estremità del corridojo. Restai in piedi dietro quel finestrino, onde respirare quant’aria potessi, perocchè mi sentivo venir meno. Allora udii un lagno nel carcere, e mi accorsi che non ero solo.
— Soffoco, disse la voce; di grazia levatevi di là.
— Scusate, sclamai, non sapevo di avere acquistato un compagno.
Impossibile distinguer altra cosa che un mucchio di stracci di carne umana tritata, accovacciato in un angolo. Scambiammo i nostri nomi. Ci eravamo conosciuti in società. Tutta la Polonia conosce i suoi poemi. Era il poeta studente Zoliwski, arrestato dopo la manifestazione del 15 ottobre, e torturato, perchè anch’egli sospetto di appartenere al Comitato. Aveva già presi due bagni di sangue, essendo passato due volte per le verghe. Le sue ossa erano rotte, la sua carne cadeva a brani; il corpo non presentava più che una piaga putrescente. Agonizzava, senza poter morire, e si vedeva morire! Il carceriere interruppe la nostra conversazione. Ci portava il pasto: del pane, della carne salata, ed una sola brocca d’acqua per Zoliwski.
— E la mia brocca? chiesi io.
— L’ho dimenticata; ve la porto...
La porta si rinchiuse.
— Non toccate la carne, prima che v’abbiano portato l’acqua, disse Zoliwski. Questa dimenticanza è forse premeditata. Vogliono farvi fare le vostre prime armi nella tortura, provandovi colla sete.
Non toccai nè la carne, nè il pane. Il carceriere non ricomparve.
La notte era già avanzata, quando l’ispettore della prigione venne ad annunziarmi la visita di mio fratello Casimiro.
— Non ho fratello, risposi io con fermezza, quantunque il cuore mi si serrasse; non voglio riceverlo.
Mio fratello seguiva a due passi l’ispettore. Udì la mia risposta, e non rispose. Scorsero due minuti o tre. Forse ei rifletteva, esitava; poi udii il tintinnio dei suoi speroni risuonare lentamente ed allontanarsi. Piegai il capo fra le mani, ed i miei occhi si inumidirono.
L’indomani non fui chiamato dinanzi alla Commissione dello stato d’assedio, e ne seppi più tardi la ragione. Il granduca Costantino, il quale non era poi un diavolo così nero come lo si è voluto dipingere, era stato informato del mio interrogatorio e della spiegazione umoristica che io aveva dato sul documento principale dell’istruzione contro di me: lo scritto in cifra! Il granduca aveva sorriso della gherminella, che io giuocava alla giustizia russa, ma aveva, in pari tempo, ordinato che una Commissione di calligrafi emettesse la sua opinione su quel curioso geroglifico. Nondimeno, mio fratello era spaventato, non della sorte finale che mi aspettava, non dubitando punto che io saprei morire, ma delle sofferenze orribili che io doveva traversare prima di annientarmi nella morte. Egli non temeva che io mi disonorassi con una confessione estorta dal dolore: sapeva che io mi sarei mozzata la lingua co’ miei denti, e l’avrei inghiottita piuttosto che parlare; ma egli avrebbe voluto raddolcire la mia via crucis, e presentare dinanzi ai miei occhi quell’estasi che nascondeva ai martiri il supplizio. Implorò dal granduca che mia madre potesse visitarmi. Il granduca aveva accordato allora tale permesso alla madre del mio compagno di carcere; e consentì. L’ispettore aveva dunque accompagnata la madre di Zoliwski, quando, sul cader della notte, accompagnò ed introdusse anche la mia nella muda.
Io mi era fatto più piccino che avevo potuto, e mi ero rannicchiato in un angolo della secreta, per non turbare il mistero sacro del colloquio, forse l’ultimo, del mio compagno con sua madre. Avrei voluto convincerli che io era cieco e sordo, per non isgomentare il loro dolore, per non soffocare i loro lamenti, — i lamenti sono di rado eroici — , per lasciare ogni libertà alle loro confidenze, all’effusione delle loro anime. Fui spaventato del dolore infinito di quei due esseri, dolore che non ebbe neppure un grido! La madre cadde in ginocchio presso il corpo del suo figliuolo, le loro bocche si avvicinarono, le loro lagrime si confusero. Non dissero una parola. Che cosa avevano a dirsi, del resto? La madre sapeva che il figlio doveva in breve morire sotto le verghe, in una spaventevole agonia; il figlio sapeva che la madre non gli sopravviverebbe. Mia madre arrivò.
Mia madre era donna d’altra tempra. Ella aveva il carattere forte, ma drammatico. Sarebbe stata grande e nobile nella ristretta cerchia della famiglia; ma sostenere una parte la seduceva: ricoprire l’intera nazione col velo delle sue disgrazie, era il suo sogno. La sua tenerezza verso di me non aveva limiti; ma avrebbe creduto derogare al suo carattere, se l’avesse lasciata vedere, ed ella fosse apparsa più madre che Polacca. Nullaostante mi strinse fra le sue braccia, ed io sentii per la prima volta l’atrocità delle manette, non potendola stringere fra le mie. La mia presenza nel carcere aveva forse intimidito la madre di Zoliwski. La presenza di quei due testimonii esaltò invece mia madre. Ella respinse quanto vi poteva esser di donna nel suo cuor lacerato, e si atteggiò a cittadina.
Lo confesso, ne fui afflitto.
Io non le domandava un’ora di eroismo, ma un’ora di tenerezza materna.
— Ho veduto tuo fratello, mi diss’ella. Egli mi disse che tu non hai voluto riceverlo. Mi ha informato delle complicazioni terribili, che si sono aggravate su te.
— Io le affronto tranquillamente, madre mia, risposi io.
— Tu non sai forse ciò che ti riservano, continuò essa.
— Se l’avessi ignorato, madre mia, ho lì, nella persona del mio compagno, Carlo Zoliwski, l’esempio terribile del loro potere, di ciò ch’essi fanno prima di uccidere.
— Tu non hai a temere nè le verghe, nè lo knut, rispose mia madre; tu godi ancora del privilegio della nobiltà, l’esenzione dalle pene corporali. Ma essi hanno altri mezzi per maciullare la carne vivente e colpire l’anima.
— Lo so.
— Konarski fu quasi sul punto di confessare, nella tortura della fame.
— Ma egli resistette.
— Levitox subì tali slogamenti di membra, che preferì mettere il fuoco al suo pagliariccio ed abbruciarsi, per paura di parlare suo malgrado.
— Voi vedete dunque che vi sono dei mezzi per sottrarci all’infamia.
— Gorski restò quarantott’ore sospeso pei piedi, colla testa in giù, sopra un focolajo, ove si faceva ardere della paglia inumidita.
— Ciò avveniva al tempo di quel mostro che si chiamò lo czar Nicolò; ora non si commettono più di tali atrocità.
— Se ne commettono sempre, se ne commettono delle altre.... tu lo vedrai domani.
— Sì, mi hanno minacciato di ciò. Ma io voglio vederlo. Io son preparato.
— Ebbene! io non voglio che tu soffra, io. Se fosse almeno per salvarti la vita! Ma no. Tu sei condannato, avvenga che vuolsi. Ti si tormenterà per istrapparti delle confessioni; e ti si manderà al patibolo perchè ti sei battuto. Oh no! ho veduto impiccare tuo padre, mi basta.
— Ma che possiamo noi fare, madre mia? Quand’anche avessi qualcosa a dire, e non ho nulla, io non posso parlare.
— Ma, disgraziato figliuolo, gli è appunto quello che io temo. Tu potresti parlare, perchè non sai nulla. Il dolore potrebbe strapparti dei gemiti, che essi prenderebbero per parole. Puoi divagare. Il delirio potrebbe impossessarsi di te nello spaventevole turbamento che essi gettano nel tuo sangue. Chi può esser sicuro di sè? Chi conosce appuntino la tempera dei propri nervi? Ora, figliuolo mio, un solo sospiro, che può esser interpretato come una confessione, è il disonore.
— Oh! Dio mio, madre mia, perchè venite voi a mettere questa costernazione nell’anima mia, sclamai io in una suprema angoscia. Ho io mostrato qualche segno che v’ispiri codesti dubbii?
— Io voglio prevenire, voglio risparmiarti il dolore. Voglio strapparti al supplizio. Ah! se tu potessi vivere. Ma la tua sentenza è segnata. Il tuo patibolo è rizzato. La sorte che ti destino, del resto, sarà anche la mia. Io non posso sopravvivere alla tua morte, avendo l’altro figlio nel partitoFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376 dei carnefici. Sono stanca di piangere, di sperare, di pregar Dio che non ci ascolta, di credere ad uomini che ci tradiscono. Vuoi tu che io divenga russa alla mia volta, e che io solleciti lo Czar onde castighi codesta Germania, codesta Francia, per le quali noi abbiamo versato tanto sangue e che non hanno per noi neppure una fiera parola?...
— Madre mia, voi parlate come mio fratello. Rassegnatevi.
— Io preferisco non più vederti, anzi che perdonare ai nostri nemici. Dunque, figlio mio, la mia risoluzione è presa. Io non voglio che tu subisca la tortura; non voglio che tu sii esposto al pericolo di una confessione per debolezza nervosa; non voglio che tu muoia per mano del carnefice. Poichè tu devi morire, muori di mia mano; poichè tu devi passare per un’agonia spaventevole e lunga, abbreviala. Schiaccia sotto i tuoi denti questo lampone di vetro: ho anch’io il mio.
— Che cos’è ciò, madre mia?
— Dell’acido prussico. Essi verranno a cercarti or ora per trascinarti dinanzi ai giudici: troveranno due cadaveri. L’Europa ne sarà atterrita, e avrà forse un rimorso.
— Mai più, madre mia, gridai io. Io non mi ritraggo dinanzi al mio destino, qualunque possa essere. Non più una parola su ciò. Voi mi fate arrossire. Guardate dunque quel giovane, in quell’angolo della segreta, ridotto un gruppo di carne marcita. Sono io a quel punto forse, perchè mi proponiate di suicidarmi nel fondo di un carcere? Sono io più vile, che debba spaventarmi di soffrire almeno quanto lui? No, madre mia, io voglio andare fino alla fine; io non sono ancora esaurito.
— Ma io lo sono, disse allora Zoliwski con una voce sì affranta, sì spenta, che parve mandasse l’ultimo anelito. Di grazia, o signora, datemi la salvezza che vostro figlio rifiuta, senza sapere ciò che rifiuta.
Essi avevano udito la nostra conversazione, benchè tenuta a voce bassa. La madre di Zoliwski si trascinò ai piedi di mia madre, senza aprir bocca, e li abbracciò. Io era annientato. Mia madre tremava in tutta la persona.
— Guardatemi, signora, continuò Zoliwski. Non ho un pollice della mia pelle che non sia lacerato. Non ho un muscolo che non sia straziato; non ho più un osso al suo posto; non ho più un organo che funzioni altrimenti che per darmi gli spasimi più atroci. Le ore della mia spaventevole agonia sono contate. Abbiate pietà di un cristiano, signora; abbreviate, poichè lo potete, il mio terrore: io assisto alla mia distruzione.
La madre non diceva nulla. Ella abbracciava sempre i piedi della mia. E mia madre, profondamente scossa, pareva convinta, benchè esitasse.
— Sarebbe un omicidio! esclamai io.
— No, riprese Zoliwski, è una liberazione, forse una redenzione. Io sento che non resisterei più. La prossima volta parlerei forse.... Orrore! l’infamia per me, la morte per chi sa quanti altri! Oh grazia, signora, grazia! Voi avete nelle vostre mani l’onore e la vita di un uomo, che non è stato figlio indegno della patria.... Pietà per il vinto! mercè pel debole! abbiate carità di me.
— Prendete, gridò mia madre, non resistendo più. Dio mi giudicherà.
Non fu che un lampo. Prima che avessi raggiunto il braccio di mia madre per arrestarla, la madre di Zoliwski aveva abbrancato il lampone di acido prussico, e se l’era cacciato in bocca.
— L’altro per mio figlio, diss’ella alzandosi: Dio onnipotente non mi strapperebbe più questo.
Non posso descrivervi il terrore, che s’impadronì di noi. Chiamare i carcerieri era un tradire mia madre. Lasciar compiere il suicidio di quella donna era un assassinio. Tentare di strapparle la capsula fatale, le cui pareti avevano lo spessore di una pellicola di cipolla, era forse affrettare la catastrofe. Aggiungere al martirio di Zoliwski lo spettacolo della morte di sua madre era un’esecrabile atrocità. Le preghiere, le ragioni, le minaccie, le promesse non servirono a nulla. La madre supplicò che la si lasciasse morire nelle braccia del figlio. La disperazione tranquilla di quei due infelici era irresistibile. L’eloquenza del figlio avrebbe intenerito lo Czar Niccolò. Io non sapeva più che dire. Io non trovava più una sola ragione seria. — Mia madre tremava come una foglia, ma era intenerita. La madre di Zoliwski si gettò di nuovo ai suoi piedi, e pianse, supplicò.... Mia madre cedette. Volse il capo, nascose il suo viso nel mio seno, allungò la mano, abbandonò la capsula, e compì l’omicidio. La madre di Zoliwski gettò un grido di gioia selvaggia, baciò la mano di mia madre, e si precipitò sul suo figlio.
Si fece silenzio. I nostri cuori non battevano più. I nostri petti non respiravano. Tutto ad un tratto l’abaino della segreta si rischiarò. Udimmo dei passi nel corritoio, poi il rumore dei fucili, poi lo stridere delle chiavi. L’ispettore delle prigioni entrò. L’ora del colloquio era scorsa, egli veniva per far escire le due signore. — La cellula era rischiarata dalla lucerna del carceriere. Ci volgemmo verso il gruppo delle due creature, che avevamo fulminate. La madre ed il figlio si tenevano allacciati nelle braccia l’uno dell’altra, bocca a bocca, cuore su cuore. L’ispettore li scorse, e non ricevette risposta... Dio nella sua misericordia infinita avrà perdonato a mia madre! Fu un grido di terrore, che scappò da tutte le bocche.
Tre giorni dopo, io partiva per la Siberia, «la terra dalla quale non si ritorna più!»
La Commissione dei calligrafi avendo constatata la verità del mio racconto, mio fratello aveva ottenuto dal granduca Costantino la commutazione della pena di morte, pronunziata dal Consiglio di guerra, in quella della deportazione a perpetuità e cinque anni di lavori forzati in Siberia.