Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/146

gettato sopra un’umida pietra, e la porta si rinchiuse con rumore sopra di me. Cercai, brancolando, un angolo, in cui mi lasciai cascare, e mi addormentai. Nella kibitka, io non aveva avuto da parecchi giorni che una continua insonnia. Il sonno, che allora mi cadde sopra come piombo, fu benefico; esso mi sottrasse al supplizio di quella folla di farnetiche larve, che s’impadroniscono del prigioniero, e popolano di orribili immagini, le prime ore della prigione.

All’indomani fui risvegliato d’improvviso dal carceriere e dal rumore dei calci dei fucili, che percuotevano le lastre del corridoio. Venivano a cercarmi per presentarmi al Consiglio di guerra. «Tanto meglio, dissi io, l’affare sarà presto finito». Però non fu davanti al Consiglio di guerra che mi condussero.

Mi trovai in mezzo alla Commissione dello stato d’assedio. Ciò mi sorprese, ma il mio stupore non durò a lungo.

Si sfiorò l’interrogatorio in quanto alle mie imprese militari. Pareva loro inutile sciupar tempo con un uomo che, fin dal primo istante, aveva dimostrato non voler parlare; e cercare altri elementi, quando ve ne erano già bastanti per condannarmi, sia ad esser fucilato, sia ad esser impiccato — secondo l’umore, la fantasia, lo stato di digestione dei giudici, e l’ora del giudizio. L’istruzione s’aggirò sopra altro terreno.

Pareva loro straordinario che un giovane, della mia famiglia, co’ miei principii e le mie relazioni, fosse restato a Varsavia, quasi per due anni, in una specie di febbrile indifferenza, in una calma irrequieta, mentre i miei compatriotti, i giovani della mia età e della mia nascita si battevano per la causa nazionale. Si sapeva l’ostilità che regnava fra