Le monete di Venezia/Giovanni Dandolo

Giovanni Dandolo

../Jacopo Contarini ../Pietro Gradenigo IncludiIntestazione 18 dicembre 2023 75% Da definire

Jacopo Contarini Pietro Gradenigo

[p. 120 modifica]

GIOVANNI DANDOLO

DOGE DI VENEZIA

1280 - 1289.


Dopo che Jacopo Contarmi ebbe deposto il potere, i voti degli elettori si raccolsero su Giovanni Dandolo, di antica ed illustre prosapia. Egli fece la pace cogli Anconetani, ma continuò la guerra contro Trieste e le città insorte dell’Istria, sostenute dal Patriarca di Aquileja, guerra dapprima sfortunata, ma in fine coronata d’esito felice, con l’occupazione di Trieste e delle altre città. Erasi stretto un trattato con Carlo d’Angiò e con Filippo di Francia per la conquista di Costantinopoli, ma i vespri siciliani fecero abortire la spedizione progettata, ed anzi non avendo i veneziani lasciato bandire la crociata contro Pietro d’Aragona, il Pontefice li colpì di scomunica. Venezia in quel tempo, oltre ai danni della guerra e dell’interdetto, ebbe a soffrire carestia, inondazione, terremoto e pestilenza, ma tutte queste disgrazie non impedirono che fosse migliorata l’amministrazione interna e curato l’abbellimento della città.

Il principato di Giovanni Dandolo, sotto l’aspetto numismatico, è sopratutto famoso per la istituzione del ducato d’oro. Prima però di trattare di questo importante argomento, conviene soffermarsi un poco su due parti del Maggior Consiglio, che riguardano le monete d’argento già esistenti, del seguente tenore:

» Millesimo, ducentesimo, octuagesimo secundo. Indictione decima. Die XXVIII Maij. Pars fuit capta quod denarius grossus debeat dari a modo ad parvos prò denariis XXXIT et quilibet debeat ipsum recipere prò denariis XXXII ad [p. 121 modifica]parvos de omnibus rebus que current ab hodierna die in antea, tam de illis rebus que sunt modo in terra, quam de» illis que de cetero intrabunt in terram»1.

«Millesimo, ducentesimo LXXXII . die VI octubris. Capta fuit pars quod denarii parvi debeant fieri secundum scriptum massariorum. Et si illis vel aliis aliquod melioramentum videbitur fiat; et ipsi teneantur facere. Scriptum autem massariorum est istud. Videtur nobis quod in unziis VI et dimidia minus uno grosso de pondere de rame, et unza una et dimidia et grosso uno de peso de argento de grosso sumat totum marcham unam et fiant denarii qui vadant soldos Vili et denarios II per unziam qui sumabunt libras III et soldos V et denarios IIII prò marcha. Et sic ibant alii novi qui fuerunt batuti; et taliter fieri possint denarii parvi stando in capitali Commune nichil inde perdendo. Et isti denarii erunt deterio» res quam primi fuerunt sol. V et denar. II ad grossos pro marcha»2.

Il primo di questi decreti ordina che il grosso debba essere dato per 32 piccoli, e che per tal prezzo sia ricevuto a modo ad parvos. Che cosa sia la valutazione ad grossos e quella ad parvos, sarà argomento di studio successivo: basti per ora sapere che il valore del grosso era così portato a 32 piccoli e che questo ragguaglio si usava, nelle contrattazioni di tutti i giorni, dove è necessaria la moneta effettiva.

Il secondo documento fa sapere che la zecca non poteva utilmente continuare la battitura dei piccoli collo stesso intrinseco di prima. Era questa una conseguenza naturale della precedente deliberazione 28 maggio, perchè dandosi 32 invece di 28 piccoli per grosso, se questi avessero contenuto la stessa quantità di metallo nobile, l’erario avrebbe risentito una perdita rilevante. Infatti il decreto del 6 ottobre più sopra riportato, ne diminuisce il fino ed il peso. Esso stabilisce che la lega dei [p. 122 modifica]nuovi denari sia composta di 3702 grani veneti di rame, e di 906 grani veneti d’argento per marca, e cioè meno di 2/5 di fino, mentre quelli precedentemente coniati ne avevano circa 1/4, come risulta da un assaggio istituito sopra un piccolo di Lorenzo Tiepolo. Di più da ogni marca della nuova composizione dovevasi ricavare 3 lire, 5 soldi e 2 denari e cioè 784 pezzi, mentre lo stesso documento osserva che tale ricavo è superiore a quello avuto precedentemente di soldi 5 e denari 2 per marca Senza riportare qui tutto il conteggio, si possono riassumere i dati in questo modo: i denari di Enrico Dandolo pesavano oltre 6 grani veneti, e contenevano approssimativamente grani veneti 1.56 d’argento; quelli di Lorenzo Tiepolo pesavano meno dì sei grani ed avevano di fino circa grani veneti 1.40, mentre quelli fatti secondo il decreto 6 ottobre non avevano che grani veneti 5.877 di peso, e 1.155 di fino.

Abbiamo dunque tre qualità di denari che corrispondono alle diverse epoche ed alle differenti proporzioni fra il grosso ed il piccolo, e cioè quando il grosso valeva 26 piccoli, quando ne valeva 28 e quando 32; non era dunque il grosso che avesse aumentato il suo valore, ma bensì il denaro che andava perdendo del suo pregio intrinseco.

Oltre a questa indispensabile e naturale diminuzione conviene notarne un’altra, anch’essa assai rimarchevole; che cioè mentre i piccoli dell’epoca più antica, esaminati colla bilancia e col crogiuolo, contengono tanto argento che corrisponde esattamente a quanto si trova nei grossi, quelli delle epoche posteriori hanno una quantità di fino notevolmente minore di quella che dovrebbero avere, anche tenuto conto della mutata proporzione fra le due monete. Infatti 26 piccoli di Enrico Dandolo a grani veneti 1.56 di fino, contengono più di 40 grani veneti d’argento puro, mentre 28 piccoli di Lorenzo Tiepolo non vi arrivano, e 32 piccoli di Giovanni Dandolo, secondo il decreto 6 ottobre 1282, a grani veneti 1.155, fanno grani veneti 36.960 ed a grani veneti 1.121, come fu stabilito più tardi, soltanto 35.872. Ciò vuol dire che anticamente, esistendo il solo denaro, era desso il termine di confronto per il valore delle cose e la base della [p. 123 modifica]monetazione, mentre dopo l’istituzione del grosso, questa nuova moneta rimasta sempre costante nel peso e nell’intrinseco, diventava la misura del valore commerciale ed il piccolo era ridotto ad una moneta spicciola di importanza secondaria.

Questa condizione di cose andò peggiorando sempre più, e già nell’11 dicembre 1289, una deliberazione della Quarantia, che si trova nel capitolare dei massari della moneta, affida agli ufficiali della moneta grossa la coniazione della moneta minuta. Nei paragrafi 80, 81 ed 82 sono raccolte le disposizioni relative alla fabbricazione dei piccoli, nelle quali il fino è bensì migliorato di 6 grani per marca, ma è aumentato il ricavo tenendolo fra lire 3, soldi 5 1/2 e lire 3, soldi 10 per marca, con ima media di 813 pezzi per marca, e cioè un lieve miglioramento di lega, ma una maggiore diminuzione di peso, per cui il denaro fabbricato secondo questa norma dovrebbe pesare grani veneti 5.667 ed avere di fino 1.121.

Veniamo ora al ducato d’oro, istituito con una legge del Maggior Consiglio, che giova riprodurre integralmente, sebbene da lungo tempo pubblicata e conosciuta da tutti gli studiosi:

“1284 die ultimo octubris. Capta fuit pars quod debeat laborari moneta auri communis videlicet LXVII prò marcha auri tam bona et fina per aurum vel melior ut est flore nus accipiendo aurum pro ilio precio quod possit dari moneta pro decem et octo grossis et fiat cum illa stampa que videbitur domino duci et consiliariis et capitibus de quadraginta et cum illis melioramentis que eis videbuntur, et si cousilium est contra sit revocatum quantum in hoc: pars de XL et erant XXVIIII de quadraginta congregati ex quibus voluerunt hanc partem XXII et septem fuerunt non sinceri et nulius de non 93».

Dopo la grande riforma della monetazione fatta da Carlo Magno, l’Europa non aveva quasi più specie d’oro, tranne quelle che erano rimaste in circolazione dei tempi longobardi e del [p. 124 modifica]basso impero, e quelle che si coniavano nei paesi occupati dagli Arabi. Federico II per il primo fece stampare (1231) l’Augustale, moneta che, per il metallo e per il conio, ricorda i bei tempi dell’impero romano; poscia nel 1252 Firenze decretò il fiorino, che imitato da altre città italiane, si diffuse in tutti i paesi commerciali del mondo, e la moneta d’oro di Firenze e di Venezia, conservandosi per lungo corso d’anni sempre uguale di peso e di bontà, divenne una specie di moneta universale in un tempo, in cui non erano popolari le scienze economiche, ma una buona e savia pratica non era ignota ai commercianti accorti ed intraprendenti. L’importanza del fatto non isfuggì nemmeno allora e ne fanno menzione tutti i cronisti e storici contemporanei, anzi Marin Sanudo nelle sue vite dei dogi4 riporta un’iscrizione posta per ricordare il grande avvenimento.

Come risulta dalla lettura del documento, lo scopo del decreto 31 ottobre 1284, era quello di creare una moneta di oro fino buona quanto e più del fiorino fiorentino. Così fu fatto, perchè nel ducato si adoperò l’oro più puro che si potesse avere coi mezzi chimici di allora; gli assaggi moderni provano il titolo 0.997, per cui si può calcolare che l’oro migliore del medio evo avesse per lo meno 1/1000 d’impurità.

Per il tipo e per il conio il Maggior Consiglio si rimette al parere del doge, dei consiglieri e dei capi della Quarantia, i quali adempirono l’incarico con tutta coscienza e con buon risultato, riproducendo sulle nuove monete le stesse figure e lo stesso concetto che era diventato tradizionale del grosso, ma l’arte veneziana aveva fatto grandi progressi negli ultimi ottant’anni e si era liberata dalle pastoje della scuola bizantina, per cui il conio di questa moneta è superiore a tutti i contemporanei, e mostra che gli artefici della zecca di Venezia erano in un epoca remota, arrivati a notevole altezza nel gusto e nella finitezza del disegno. In luogo delle due figure tozze e stecchite di un’arte imbarbarita, vediamo sul diritto del nuovo ducato, il Santo protettore [p. 125 modifica]vestito di ampio paludamento, il quale offre il patrio stendardo al doge inginocchiato ohe riverente lo prende colla destra, il principe ha sul capo la berretta ducale di forma antica con cerchio di gemme e la cuffia o camauro allacciato sotto il mento. La testa e gli ornamenti sono finamente lavorati, il manto ornato di pelliccia cade artisticamente sul corpo; solo le gambe del doge genuflesso hanno una certa piegatura alquanto primitiva, che mostra l’infanzia dell’arte, ma non è priva di grazia e di ingenuità.

Sul rovescio il Redentore non ha più il seggiolone, sul quale siamo soliti vederlo seduto in tutte le manifestazioni più importanti dell’arte e del culto bizantino, ma ritto in piedi, abbandona le forme abituali per prendere un’ampio vestito drappeggiato con buon gusto. Non ostante queste mutazioni, dal libro che tiene nella mano sinistra, dalla destra ehe benedice, e sopra tutto dal greco nimbo colla croce, si riconosce, che l’artista ebbe per modello non solo il rovescio del grosso, ma anche la tradizione dell’arte religiosa bizantina e le successive modificazioni ad essa recate dai primi albori del rinascimento italiano. La figura del Redentore è chiusa in un aureola elittica, o per dir meglio composta di due archi di cerchio che si uniscono a sesto acuto. È questa una concezione poetica ed allegorica prediletta del medio evo, che si vede nelle antichissime tavole di soggetto mistico e religioso ed anche in alcuni mosaici che esistevano nella facciata della chiesa di S. Marco, fedelmente riprodotti dal pennello di Gentile Bellino. Se fossero conservati i disegni di tutti quelli che nell’interno della basilica furono sostituiti da lavori più recenti, si avrebbe forse una serie completa, da cui studiare la graduale trasformazione del pensiero religioso ed artistico. Essa rappresenta una parte e precisamente un fuso delle sfere celesti, che sul rovescio del ducato è cosparso di stelle per far comprendere meglio l’idea dove manca il colore. Questa bella moneta ha molta rotondità e rilievo ed è superiore a tutte quelle coniate nella stessa epoca, perfezione che durò pochi anni, essendosi più tardi trascurato assai il lavoro d’intaglio per la fretta causata dall’abbondantissima fabbricazione.

[p. 126 modifica]Firenze che prima istituì la moneta d’oro, la fece di un peso che corrispondeva all’ottava parte di un oncia e di un valore esatto e perfetto, vale a dire una lira fiorentina di 20 soldi; Venezia che volle approfittare della diffusione e della celebrità acquistata dal fiorino, dovette conservarne il peso e la bontà, decretando che da ogni marca si tagliassero 67 monete, ognuna delle quali risultava del peso di grani veneti 68 52/67. Il ducato all’epoca della sua creazione (1284) fu valutato 18 grossi, con una proporzione fra l’oro e l’argento di 1 a 10 6/10; più tardi l’argento diminuì di prezzo grado a grado, e nei primi lustri del secolo XIV il ducato fu portato a 24 grossi ed il rapporto fra i due metalli come 1 a 14 circa.

Nel 2 giugno 1285, il Maggior Consiglio5 ordinava che il ducato d’oro fosse valutato 40 soldi ad grossos. Per comprendere questo decreto e per avere un’idea del prezzo del Ducato, che ha tanta importanza nella storia del valore, conviene addentrarsi un poco nel sistema monetario veneziano e studiare le differenti maniere colle quali si conteggiava nel secolo XIII. Due lire erano usate in quel tempo a Venezia, entrambe divise in 20 soldi, ed ogni soldo in 12 denari; la sola differenza era il valore del denaro, che nell’una era il piccolo e nell’altra il grosso, per cui si chiamavano: la prima lira di denari piccoli, la seconda lira di denari grossi.

La moneta di conto principale e più diffusa fu sempre la lira di piccoli e durò quanto la Repubblica, dalla fine del X° secolo, in cui si trovano i più antichi conteggi espressi in denari veneziani fino alla caduta del governo col quale si era, per così dire immedesimata. Nel 1806 fu introdotto nel regno d’Italia il sistema decimale, poi la moneta Austriaca, e finalmente ritornò la italiana, ma la lira di piccoli, ovvero lira veneta non è ancora completamente scomparsa nel territorio veneto, quale lira di conto. Ho già parlato di questa lira, della sua origine, del suo valore intrinseco e della diminuzione subita dall’epoca di Carlo Magno in cui fu istituita, fino a quella di Enrico Dandolo.

[p. 127 modifica]Da questo tempo in poi una nuova falcidia era avvenuta nella quantità d’argento contenuta in una lira. Infatti quando fu creato il grosso, esso equivaleva a 26 piccoli e per formare una lira di piccoli erano necessari grossi 9 6/26, corrispondenti a grani veneti 388 61/100 di argento buonissimo a peggio 40 sistema veneta, che equivale a grammi 20.110 a titolo 965/1000, e cioè a circa italiane lire 4.31 della nostra moneta. Quando si ricominciò a coniare il piccolo, ducando Lorenzo Tiepolo, il valore del grosso fu portato a 28 piccoli e nel 1282 a 32 piccoli. Nel primo caso occorrevano 8 grossi e 16/28 a formare una lira, nel secondo bastavano grossi 7 1/2, e siccome il grosso aveva sempre lo stesso titolo e lo stesso peso, ne viene naturalmente che nella prima epoca, la lira conteneva grammi 18.024 d’argento puro, quanti circa si trovano in 4 lire italiane; nella seconda invece 15.771, quanti si trovano in lire 3.50 circa della nostra moneta.

Verso la metà del secolo XIV il grosso fu valutato 4 soldi ossia 48 piccoli, più tardi lo stesso grosso peggiorò di peso e di fino, ciò che equivaleva ad una continua diminuzione di pregio della lira. Per maggiore chiarezza darò in fine alcune tabelle ove saranno riuniti i dati di peso e di fino di ogni singola moneta, e così pure il valore del ducato e le conseguenti variazioni sul metallo contenuto in una lira nelle differenti epoche; cosi si avrà sott’occhio lo svolgersi di questo interessante fenomeno che fu detto volgarmente accrescimento del fiorino o ducato, ma, come il Carli6 giustamente osserva, fu accrescimento numerario e non reale, perchè di quanto crescevano in numero le lire contenute nel ducato, di tanto diminuivano nel peso, e peggioravano nell’intrinseco.

L’altra lira di conto adoperata dai veneziani nelle maggiori valutazioni era la lira di grossi o, per dire più esattamente, la lira di danari grossi. Questa moneta ideale si divideva essa pure in 20 soldi composti di 12 denari, ma ognuno di questi denari era un grosso, per modo che questa lira conteneva 240 [p. 128 modifica]grossi invece di 240 piccoli. Il rapporto fra la lira di grossi e quella di piccoli, corrispondeva naturalmente alla proporzione fra il grosso ed il piccolo: originariamente essa valeva 26 lire di piccoli, ma quando aumentarono i piccoli contenuti in un grosso aumentarono pure le lire di piccoli che corrispondevano ad una lira di grossi.

La lira di piccoli e la lira di grossi erano pure usate a Padova, Verona, Treviso e nei loro territori, dove le monete veneziane avevano corso ed erano pregiate al pari di quelle locali, come insegnano il Brunacci7 il Dionisi8 e l’Azzoni Avogadro,9, e come mostrano i documenti dell’epoca anteriore alla dominazione veneziana, che si conservano in quei paesi.

In tutti i documenti riguardanti Venezia e le città del Veneto la lira di piccoli viene indicata coi nomi di libra parvorum, libra denariorum, libra venetorum, libra denariorum venetorum10 e quella di grossi, coi nomi di libra grossorum, libra denariorum grossorum e libra denariorum venetorum grossorum; quando poi si trova scritto; lira, soldo e denaro senza altra indicazione, si intende la lira di piccoli.

Come fu già detto la lira di grossi ebbe dapprima il valore di 26 lire di piccoli, ma aumentò mano mano che crescevano i piccoli contenuti nel grosso, così che la lira di grossi fu portata a 28 lire di piccoli, quando il grosso ebbe il valore di 28 piccoli. Nel 1282 quando il grosso fu portato a 32 piccoli, la lira di grossi arrivò al valore di 32 lire di piccoli, che le viene attribuito anche nel principio del secolo XIV da Marino Sanuto detto Torsello nel Liber Secretorum fidelium crucis, Liber II, Pars IV, Cap. X pag. 64, ove dice: “Valet enim grossus venetus de argento parvos denarios venetos XXXII. Ita quod septem grossi cum dimidio XX soldorum parvorum summam perficiunt et XX soldi grossorum venetorum ad summam XXXII librarum parvorum ascendunt.»

[p. 129 modifica]Allorché fu istituito il primo ducato d’oro, col decreto 31 ottobre 1284, esso fu ragguagliato a 18 grossi, ma più tardi crebbe notevolmente di pregio in confronto dell’argento, sinché un decreto della Quarantia del 12 settembre 1328, che si conserva nel Capitolare dei Signori di notte, confermò tale aumento 11 ordinando che i ducati dovessero spendersi ed essere ricevuti per 24 grossi. Da questo ragguaglio ne venne un modo di conteggiare la lira di grossi assai facile e semplice, che incontrò così grande favore nel pubblico da resistere a tutte le mutazioni posteriori, di guisa che la lira di grossi divenne sinonimo di 10 ducati. Difatti, essendo il ducato 24 grossi, corrispondeva a due soldi di grossi e così ogni soldo di grosso era mezzo ducato e dieci ducati formavano 240 grossi effettivi, uguali alla lira di grossi, allora quasi universalmente adottata a Venezia.

Verso la metà del secolo XIV, durante il principato di Andrea Dandolo, il peso del soldo fu nuovamente diminuito ed il valore del grosso, elevato a 48 piccoli, ossia 4 soldi. Da ciò due differenti lire di grossi; una di queste conservava il valore di 82 lire di piccoli, e in essa il grosso, unità, era diventato convenzionale e di minor peso dell’effettivo, come in proporzione era diminuito anche il valore della lira di groSsi, perchè quelle 32 lire contenevano tanto minor quantità di metallo, quanto era cresciuto il valore nominale del grosso.

L’altra lira di grossi si basava sopra l’unità del grosso effettivo e sopra il valore di dieci ducati per lira, e cioè rimaneva uguale all’antica lira di grossi nel peso del metallo, tanto in argento, quanto in oro: ma aveva acquistato il ragguaglio convenzionale di 48 lire di piccoli. In questo secondo modo di conteggio si mantenne la divisione del grosso in 32 piccoli che naturalmente non si trovavano in ispecie, ma divennero ideali e di un valore maggiore di quello dei veri piccoli. Questo modo di conteggiare, che aveva la sua base nel valore del ducato [p. 130 modifica]d’oro, diede origine alla lira di grossi a oro, al grosso a oro ed al piccolo a oro, così chiamati per distinguerli dalle monete dello stesso nome che si usavano nella lira di piccoli e che erano materialmente in circolazione.

Nei documenti contemporanei abbiamo esempi numerosi dell’una e dell’altra lira, e le Memorie di zecca ricordano che nell’anno 1408 le lire di grossi valevano L. 32 et a oro L. 48.

Ecco adunque una complicazione singolare, due lire di comune origine e di uguale suddivisione, ma di differente valore, delle quali una ha il grosso ideale, l’altra ha ideale il piccola La minore però ebbe poca durata, perchè le contrattazioni popolari si facevano in valuta di piccoli e nelle maggiori si preferiva la lira di grossi a oro.

Questa maniera di calcolare la lira di grossi a oro che prese piede nella seconda metà del secolo XIV, dava un ottimo assetto alla monetazione veneziana, lasciando uno speciale campo di azione a ciascuno dei due metalli. La moneta di piccoli aveva la sua base nel grosso, e più tardi nella lira d’argento, ed era destinata al piccolo commercio ed alle transazioni giornaliere e di poca importanza, ove gli inconvenienti della instabilità e del lento ma progressivo deprezzamento presentavano minori pericoli per la poca entità del valore, per la grande suddivisione e breve durata delle transazioni. Invece la lira di grossi, quando abbandonò l’antica base d’argento per prendere un valore fisso ed immutabile di 10 ducati d’oro, ebbe il grande pregio di rendere più sicure le operazioni commerciali di maggiore importanza o di lunga scadenza, i prestiti e le operazioni finanziarie dello stato, nello stesso tempo che rendeva più facili e semplici le scritturazioni in quei conti nei quali alla cifra romana non erasi ancora sostituita l’arabica.

Questo risultato tanto soddisfacente non si ottenne in breve nè senza tentativi che non raggiunsero completamente l’intento. Sino dai primi tempi si sentì il bisogno di sottrarre le principali contrattazioni agli inconvenienti, gravissimi nel medio evo, dell’aggio e delle oscillazioni di valore. A tale scopo furono introdotti due modi di conteggiare che entrambi avevano per punto di [p. 131 modifica]partenza il grosso effettivo, sola base di valore costante prima del ducato e cioè la lira di grossi e la lira ad grossos le quali sparirono quando divenne generale l’uso di valersi della lira di grossi a oro e fu necessario abolire il grosso diminuito e deprezzato.

Avendo già parlato della lira di grossi è duopo occuparsi della lira ad grossos o per meglio dire di due modi di conteggiare la lira di piccoli che cominciarono ad usarsi nella seconda metà del secolo XIII. Il primo e più antico è quello ad parvos sul quale poco resta da dire, perchè è quello che ha per base la moneta effettiva del piccolo o denaro, e corrisponde al valore effettivo di 240 piccoli come uscivano dalla zecca. Così il decreto 28 maggio 1282 già citato stabilisce «quod denarios grossos debeat dari a modo ad parvos pro denariis XXXII.» Naturalmente in questo modo la lira diminuiva di valore ogni volta che i piccoli diminuivano di pregio, così che la lira di piccoli, la quale al tempo di Enrico Dandolo superava 19 grammi d’argènto puro, al tempo in cui furono soppressi i grossi e coniata la lira Tron, non ne aveva che 6 1/4 circa e nel 1797 soltanto 2,352.

Quando incominciarono a fiorire in Italia gli studi storici ed economici, gli illustri scienziati che piantarono le basi della numismatica medioevale del nostro paese, si avvidero che a Venezia, nel secolo XIII esistevano una lira ed un soldo ad che non potevano confondersi colle lire e coi soldi già conosciuti. Fu precisamente nel cercare di chiarire il decreto 2 giugno 1282, che attribuiva al ducato il valore di 40 soldi ad grossos, che si constatò questo fatto. Ma non seppero darne soddisfacente spiegazione, nè quel profondo storico del valore che fu il Conte Carli12 nè l’Azzoni Avogadro13 che studiò con amore tale argomento, portando lumi e documenti nuovi, e nemmeno Guidantonio Zanetti14 nelle note sapienti ch’egli soleva aggiungere ai lavori della sua raccolta.

[p. 132 modifica]Il Galliciolli15 ed altri scrittori, appoggiandosi ad una nota esistente nelle carte del Savio Cassier e tratta nel 22 marzo 1703 da Domenico Brusasette da una simile esistente nel Capitolar del Magistrato Eccellentissimo de’signori Provveditori sopra ori e monete in Cecca, asseriscono che il ducato alla sua origine fu apprezzato 60 soldi dei piccoli, e quindi che tale somma è pari a 40 soldi ad grossos. L’illazione è naturale perchè due cose eguali ad una terza sono eguali fra di loro; ma allora dovrebbero allo stesso valore corrispondere i 18 grossi fissati nel decreto che ordina la coniazione del ducato nel 1284. Ora qui incominciano gli imbarazzi, perchè noi sappiamo che il grosso era valutato 32 piccoli e che questo ragguaglio si conservò per tutto il secolo XIII e fino alla metà del XIY: moltiplicando 18 per 32 abbiamo 576 e cioè 48 soldi invece di 60 indicati nella nota citata dal Galliciolli, la quale sebbene documento autorevole, non può meritare intera fede quando si trova in contraddizione coi documenti autentici contemporanei e per ciò ritengo la stessa cosa i 40 soldi ad grossos ed i 18 grossi (ossia 48 soldi di piccoli) scritti nei decreti che si trovano nel registro originale del Maggior Consiglio che porta il nome Luua.

Eliminato questo errore di fatto, osservo che il decreto 2 giugno 1285 non fa menzione del primitivo valore di 18 grossi, attribuito al ducato, ma si esprime così: «quod ducatus aureus debeat currere in Yenetiis et ejus districtus pro soldis XL ad grossos et omnis persona tam veneta quam forensis debeat ipsum ducatum auri prò suo pagamento accipere pro soldis XL ad grossos, sub ea pena et hanno etc. etc.» Sembra quindi ch’esso voglia definire un prezzo ed un ragguaglio, sul quale tutti non eran d’accordo, ma che si riferiva ad un conteggio speciale, quale era la lira ad grossos. Troviamo infatti un’altro decreto del Maggior Consiglio del 16 luglio 129616, nel quale si ordina ai massari della moneta di dare il ducato [p. 133 modifica]non a 39 Vs ma a 40 soldi ad grossos e nel 9 marzo 133817 una deliberazione della Quarantia, dalla quale risulta che la zecca faceva pagamento dell’oro, che veniva condotto dai siti entro il golfo, in ragione di 39 1/2 soldi per ducato e di quello che veniva da fuori del golfo in ragione di 39 soldi a grossi, finalmente nel 24 marzo 135218 si ordina ai massari di rendere i conti al Comune a 39 soldi per ducato come si fanno i pagamenti. Anche il Pegolotti19 afferma che l’oro messo alla zecca di Venezia era pagato a 39 soldi per ducato, e Giovanni da Uzzano20 fa testimonianza che, anche molti anni dopo, la Zecca di Vinegia rendeva per una marca d’oro ducati 66:18 di soldi 39 il ducato. Ciò mostra che il prezzo di 40 soldi a grossi era un valore di aggio, ossia quello attribuito alla nuova moneta dalla preferenza commerciale, ma che il valore originario, quello considerato in zecca come ufficiale era di soli 39 soldi. Infatti 39 soldi sono il valore esatto di 18 grossi al primo originario ragguaglio di 26 piccoli per grosso, e la lira a grossi altro non è che la solita lira di piccoli, valutata secondo l’antico peso d’argento, quando il grosso si divideva in 26 denari, e per poterlo calcolare dello stesso intrinseco valore, invece di numerare i piccoli decaduti, si numeravano i grossi rimasti sempre dello stesso peso, e cioè grossi 9 6/26 per lira. Da questo fatto di contare i grossi che componevano la lira, venne il nome di lira ad grossos, come il metodo più volgare di contare i piccoli fu detto ad parvos.

La lira a grossi continuò ad essere adoperata dal governo nella sua contabilità, ed anzi ho dovuto persuadermi che di essa, assieme alla lira di grossi, si servissero lo stato ed il grande commercio, lasciando la lira dei piccoli soltanto alle contrattazioni popolari, per cui quando il valore del ducato raggiunse i 24 grossi, esso divenne a grossi 52 soldi, valutazione che ci [p. 134 modifica]viene confermata dal Pegolotti in diversi capitoli della sua Pratica della Mercatura. Ogni volta ch’egli parla di moneta veneziana per ragguagliarla alla moneta degli altri paesi, adopera sempre la lira dei grossi, ovvero quella a grossi e mai la lira dei piccoli; p. e. si esprime chiarissimamente sul valore della lira a grossi, quando parla del cambio del perpero in moneta veneziana21 colle parole: «e vagliando in Gostantinopoli il fiorino, ovvero ducato d’oro soldi 2 di grossi, come si mette a pagamento di mercatanzia di cambi, e vogliendo cambiare di Gostantinopoli a Vinegia, sì varrebbe il perpero a denari per denari tanti soldi a grossi di Vinegia, di soldi 52 a grossi di Vinegia uno fiorino d’oro ovvero ducato, di 9 denari 26 a grossi, il grosso di Vinegia, quanto etc. etc.»

Una delle stranezze di questa lira ad grossos, ch’è pur uno degli ostacoli a ritrovarne il valore, è il suo ragguaglio colla lira di grossi. In questo trasporto la lira dei grossi perde un grosso per lira, e non si può dubitarne, perchè lo dice chiaramente un documento da me trovato nel Libro d’oro22. In esso si stabilisce che lo stipendio del Conte di Zara e dei suoi consiglieri debba essere pagato nella stessa forma, nello stesso modo che si usa nei pagamenti a Venezia, e cioè 20 soldi di grossi meno un grosso per ogni 26 lire. Tale differenza è confermata da una ducale23 del 13 febbraio 1315 (m. v.), la quale stabilisce: «che lire CC denariorum venec. ad grossos, que valunt ad denarios parvos libras CCXLV soldos duos, denaries octo, secando morem nostræ patriæ», e così pure dagli antichi registri della Procuratia di S. Marco24 ove la provvisione annua dei Procuratori nel secolo XIII è valutata 200 lire a grossi, che importano ducati 76, grossi 14 1/2 che fanno egualmente a piccoli L. 245:2:8 (calcolando il ducato a 24 grossi, ed il grosso a 32 piccoli) e più pressamente da un decreto del Maggior Consiglio del 10 giugno 1254, riportato negli statuti, [p. 135 modifica]dove è scritto che omnis libra ad grossos valet grossos 9 par. 525. Io non poteva persuadermi che esistessero lire di 239 e non 240 denari, perchè moltiplicando i 9 grossi per 26 si ha 234, che uniti ai 5 fanno 239 piccoli per ogni lira; e rispettivamente 20 soldi meno un grosso, fanno pure 239 grossi per ogni lira di grossi, ma dovetti convincermi che si trattava di una moneta ideale, la quale aveva avuto vita da prima, e che nel ragguaglio erasi formata una consuetudine, che non corrispondeva all’esatto valore primitivo, ma ad un prezzo approssimativo e convenzionale accettato da tutti.

Prima di abbandonare il doge Giovanni Dandolo, è necessario ricordare alcune leggi relative all’ordinamento della Zecca che furono votate dal Maggior Consiglio durante il suo principato. La prima è del 27 settembre 128326, nella quale si ordina ai massari di fabbricare e coniare la moneta grossa e la piccola, secondo gli ordini del doge, assistito dal suo consiglio. Questo decreto è in armonia cogli articoli 14 e 78 del vecchio Capitolare dei massari della moneta e colle consuetudini, giacché in questo primo periodo della zecca veneta, il Maggior Consiglio si occupava della parte più importante legislativa, fissando il valore, il peso della monete, mentre il doge e la signoria avevano l’ingerenza diretta e l’amministrazione che esercitavano col mezzo dei massari, cui spettava la sorveglianza e l’esecuzione degli ordini ricevuti. Un’altra parte è del 14 dicembre 128827, colla quale, il supremo consiglio delega i suoi poteri sulla zecca e sulla moneta al doge, ai consiglieri e al consiglio dei 40, ordinando che le deliberazioni prese da questo consesso, avessero la stessa autorità che quelle emesse dal Maggior Consiglio.

I massari della moneta erano in origine tre, ma quando fu istituito il ducato, se ne aggiunsero due nuovi all’oro, come [p. 136 modifica]racconta una cronachetta di Donato Contarini citata dal Sanuto dove è scritto: “Nel dicto tempo (1285) fo facto i primi Ofiziali a far far ducati Ser Zuane Bondimier e Ser Matio de Rainaldo e per èl so bon operar fo confermado quelo nel 1286.„ La nomina di tali magistrati era certamente di spettanza del Maggior Consiglio, ma un decreto del 21 agosto 128728, stabilisce che la elezione dei massari all’oro ed alla moneta29 e degli stimatori dell’oro, possa esser fatta dal doge unitamente ai consiglieri ed alla Quarantia. Più tardi, e precisamente nel 1354Fonte/commento: Pagina:Le monete di Venezia.pdf/442, una deliberazione riportata nel loro Capitolare30 determina che i massari all’oro debbano essere nominati ad una mano dal doge, consiglieri e capi, e a due mani dal Maggior Consiglio.


[p. 137 modifica]

MONETE DI GIOVANNI DANDOLO


1 — Ducato. Oro, titolo 1.000: peso grani veneti 68 5,/#t (grammi 3.559).

         D/ A sinistra S. Marco cinto la testa di aureola, vestito di ampio paludamento e col vangelo nella mano sinistra, si volge a destra porgendo al doge genuflesso un’ orifiamma su cui è la croce. Il doge con ricco manto, ornato di pelliccia, il capo coperto dal berretto ducale, stringe l’asta con ambe le mani. Dietro il doge · IO · DANDVŁ , lungo l’asta in caratteri collocati verticalmente DYX, dietro il Santo in lettere sottoposte l’una all’altra · S · M · VENETI

         R/ Gesù Cristo in piedi di fronte, con nimbo crociato di forma greca, ravvolto in lunga vesta, tiene colla sinistra il vangelo e colla destra benedice. Il Redentore è collocato in un’aureola elittica, cosparsa di stelle, quattro a sinistra, cinque a destra, in giro · SIT · T · XPE · DAT/ · Q/ · TV REGIS · ISTE · DVCAT/ ·

Tav. VIII, n.° 2.

2 — Grosso. Argento, titolo 0.965: Peso grani veneti 42 1/10 (grammi 2.178).

         D/ S. Marco che porge il vessillo al doge · IO ·DANDVŁ · lungo l’asta DYX, a destra · S · M · VENETI

         R/ Il Redentore in trono IC XC

Tav. VIII, n.° 3.
[p. 138 modifica]

Segni, o punti dei Massari della moneta.

3. — Piccolo, o denaro. Mistura, titolo 0,396 e 0,198: peso grani ven. 5 37/100 e 5 66/100 (grammi 0,303, 0,292): scodellato.

         D/ Croce in un cerchio + · IO · DA · DVX ·

         R/ Croce in un cerchio + · co · MARCV co ·

Tav. VIII, n.° 4.

4. — Bianco, o mezzo denaro. Mistura, titolo 0,040 circa: peso grani veneti 6 1/2Testo piccolo (grammi 0,336): scodellato.

         D/ Croce accantonata da quattro punti + · IO · DANDVŁ · DVX ·

         R/ Busto di S. Marco di fronte + · oo MARCVoo · V · N ·

R. Biblioteca e Museo di S. Marco. Tav. VIII, n.° 5.


5. — Doppio Quartarolo. Mistura, titolo 0,003 circa: peso grani veneti 29 (grammi 1,500).

         D/ Nel campo V · N · C * E · poste in croce
+ · IO · DANDVŁ · DVX ·

         R/ Croce accantonata da quattro gigli + · oo · MARCVco ·

R. Museo Britannico31. Tav. VIII, n.° 6.
Raccolta Papadopoli.
[p. 139 modifica]

6. — Quartarolo. Mistura, titolo 0,003 circa: peso grani veneti 21 (grammi 1,086).

         D/ Nel campo V · N · C · E · poste in croce
+ · IO · DANDVŁ · DYX ·

         R/ Croce accantonata da quattro gigli + · oo · MARCVoo ·

Tav. VIII, n.° 7.

OPERE CHE TRATTANO DELLE MONETE DI GIOVANNI DANDOLO:

Muratori L. A. — Opera citata, Disserti XXVII, col. 649-651, 652, n.° VH, ed in Argelati Parte I, pag. 48, tav. XXXVII, n.° VII.

Carli Rubbi G. R.Delle monete etc., opera citata, Tomo I, pag. 409-411, tav. VI n.° Vili.

Bellini V.De moneti Italiæ etc., opera citata, Dissert. I, pag. 100 e 107 n.° VI; ed in Argelati, Parte V, pag. 29 t., e 31 t., n.° VI.

Gradenigo G. A. — Indice citato, in Zanetti G. A., Tomo H, pag. 169-170 numeri XXVI, XXVII e XXVIII.

(Menizzi A.) — Opera citata, pag. 91.

Appel J. — Opera citata, Vol. III, pag. 1120, n.° 3916.

Manin L.Esame ragionato etc., opera citata, pag. 274 n.° 7 della tavola32.

Gegerfelt (von) H. G. — Opera citata, pag. 8.

Mazzuchelli L.Il monetario del commercio, Milano 1846. ’

Zon A. — Opera citata, pag. 23-26 e 33, Tay. I, n.° 10.

Schweitzer F. — Opera citata, Vol. I, pag. 91, (132) (133) (134) (135) (163) (137) (138) e tavola.

Romanin S. — Opera citata, Tomo II, pag. 320-321.

Kunz C.Primo catalogo degli oggetti di Numismatica etc. Venezia, 1855, pag. 7.

Orlandini G. — Catalogo citato, pag. 3 e 4.

Biografia dei Dogi — Opera citata Doge XLVIII.
Numismatica Veneta

Padovan e Cecchetti — Opera citata, pag. 13 e 14

Wachter (von) C. — Opera citata. — Numismatische Zeitschrift, Vol. III 1871, pag. 227-231, 249, Vol. V, pag. 195-198.

Padovan V. — Opera citata, edizione 1879, pag. 14-16 — Archivio Veneto, Tomo XII pag. 96, 97 — terza edizione 1881, pag. 12, 13.

Ambrosoli S.Numismatica. — Manuali Hoepli, Milano 1891, pag. 124



Note

  1. B. Archivio di Stato. Maggior Consiglio. Deliberazioni, Registro Comune I, carte 55.
  2. ivi Maggior Consiglio, tenuto dall’Avogaria del Comun, Registro Cerberus, parte 106 t.
  3. R. Archivio di Stato, Maggior Consiglio, Registro Lana, carte 48 tergo.
  4. R. Biblioteca di S. Marco, Codice 800, Classe VII, ital., carte 138.
  5. Documento VII.
  6. Carli Rubbi G. R., Delle monete etc., opera citata, Vol. I, pag. VIII e 417.
  7. Brunacci, De re nummaria patavinorum opera citata, pag. 5-7 e 59-60.
  8. Dionisi Gianjacopo, Della Zecca di Verona e delle sue antiche monete, in Zanetti G. A. Tomo IV,, pag. 342, 370-371, 376-377.
  9. Azzoni Avogadro R., opera citata, in Zanetti G. A. Tomo IV, pag. 109-130.
  10. Nei secoli XI e XII si scrisse libra denariorum veneficorum.
  11. L’aumento deve essaere stato anteriore a quell’epoca, perchè Marin Sanuto, il vecchio, il quale presentò il libro sopracitato al Pontefice nel 1321, afferma che il fiorino (eguale al ducato) valeva 24 grossi.
  12. Carli Rubbi G. R. Delle monete etc. Opera citata, Tomo I, pag. 142.
  13. Zanetti G. A. Opera citata, Tomo IV, pag. 145, 152-154.
  14. Ivi pag. 152, nota 94.
  15. Galliciolli. Opera citata, vol. I, pag. 371 e seguenti.
  16. R. Archivio di Stato, Maggior Consiglio, Deliberazioni, Pilosus, c. 61 t.
  17. Biblioteca Papadopoli, Capitolare dei Massari all’oro. Cap. XXXVIII, c. 131.
  18. Ivi Capitolo LIIII, carte 20.
  19. Pegolotti. Opera citata, pag. 136.
  20. G. Da Uzzano. La pratica della mercatura. Lisbona e Locca 1776, pag. 142.
  21. Pegolotti. Opera citata, pag. 84.
  22. Documento VIII.
  23. Zanetti G. A. Opera citata, Vol. IV, pag. 145 e 165.
  24. Ivi pag. 153.
  25. Novissimum statutorum ac Venetorum Legum. Venetiis typ. Pinelliana, 1729, in 4° carte 221.
  26. Documento IX.
  27. Documento X.
  28. Documento XI.
  29. I Massari alla moneta, furono col tempo chiamati Massari all’argento.
  30. Capitolare dei Massari all’oro, Cap. 56, carte 20 t. Questo paragrafo è riprodotto, nel Capitolare dei Massari all’argento a pag. 11.
  31. I due esemplari citati, che soli conosco, sono entrambi assai guasti e deficienti di peso.
  32. Il quartarolo di cui si parla in quest’opera, non è esattamente riprodotto nella tavola; il disegno fu tratto probabilmente dall’esemplare poco conservato del quartarolo di Enrico Dandolo, che si conserva nel Gabinetto numismatico di S. M. in Torino, proveniente dal Museo Gradenigo.