Le donne di casa Savoia/XXIII. Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours
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Maria Giovanna Battista di Nemours
(Madama Reale)
seconda moglie di Carlo Emanuele II
1644-1724.
XXIII.
MARIA GIOVANNA BATTISTA
DI SAVOIA-NEMOURS
Duchessa di Savoia
n. 1646 — m. 1724
All'inquieta speme Leopardi |
Ma l’accorto Mazzarino, che non voleva rinunziare alla speranza di porre sul trono di Savoia la nipote, malgrado le aspre ripulse incontrate, fece giungere all’orecchio di Cristina, di cui conosceva il debole, che la giovine era d’indole imperiosa ed altera, ed incapace di qualunque sottomissione. Non ci voleva meno di questo, per indisporre la Duchessa contro di lei, sicché, abbandonata ogni idea di matrimonio, lasciò partire le due principesse ricolmandole di gentilezze, ma senza tener loro neppure una parola allusiva, a quanto esse già sapevano doversi trattare in quel loro soggiorno.
Se ad esse spiacque tal fatto, Carlo Emanuele ne fu indignato addirittura; e indispettito scrisse sopra una parete del Castello di Rivoli: «La raison ne veut pas que je épouse M.lle de Nemours, mais mon destin le veut». E quando più tardi la Duchessa parlò al figlio di un altro matrimonio, egli arrabbiato rispose che la moglie voleva scegliersela da se stesso.
Ma più tardi ancora, nel 1663, cede ai consigli materni, e sposò Francesca, figlia di Gastone duca d’Orléans. Questa principessa era cosi bella, buona e gentile, che veniva chiamata, l’ho già detto, colombina d’amore, e così moderata nei desideri, che Cristina non ebbe davvero da temere per la sua sovranità. Francesca dava a lei ogni soddisfazione, e divideva col marito ogni di lui piacere, fino a seguirlo alla caccia per fargli cosa grata. Però, siccome gli angioli non sono di questa terra, così ella vi mancò improvvisamente, a Torino, il 14 gennaio 1664, pochi giorni soltanto dopo la suocera e appena dieci mesi dal dì del suo matrimonio. Rimasto vedovo, Carlo Emanuele rivolse nuovamente il pensiero alla cugina, e siccome questa volta non vi era nessuno che facesse opposizione, cosi, appena trascorso l’anno del lutto, fece formale domanda della sua mano. Giovanna era stata in quel tempo fidanzata al principe Carlo di Lorena, ma quella passione aveva dovuto essere sacrificata a ragioni di Stato, sicché quando l’ambasciatore del Duca di Savoia giunse a Parigi, nulla sì oppose a che egli vi fosse accolto con ogni simpatia.
Maria Giovanna Battista era nata l’aprile 1644, da Carlo Amedeo di Savoia, pronipote di Filippo senza terra, creato duca di Nemours da Francesco I, e da Elisabetta, principessa Vendóme. Suo padre era stato ucciso in un duello, dal cognato duca di Beaufort, e con lei e la sorella Elisabetta, che sposò l’anno appresso Alfonso Re di Portogallo, estinguevasi il ramo di Savoia-Nemours.
L’inviato di Carlo Emanuele a Parigi, si recò anche a visitare personalmente la principessa nel convento della Visitazione, in via S. Antonio, dove si era da qualche tempo ritirata; ed essa, informata già della vedovanza del cugino, schiettamente disse all’ambasciatore che da quel momento essa aveva perduto il sonno e l’appetito e viveva agitatissima, e che soltanto allora sperava di ritrovare la sua calma.
Però aveva fretta di giungere a Torino, e vi giunse colla madre l’8 maggio 1665. Giovanna aveva rinunziato alla sorella i suoi diritti sul ducato di Nemours e sul contado di Gisars, ed Elisabetta aveva rilasciato a lei i domini feudali del Chiablese, del Fossigny e di Beaufort, che così ritornavano alla Casa di Savoia.
Il matrimonio, con le solite splendide feste, e molti e vivissimi auguri, ebbe luogo l’11maggio, e il 14 maggio dell’anno successivo i Duchi di Savoia avevamo un erede, Vittorio Amedeo II. Essi mantenevano la Corte gaia come ai tempi di Cristina, e Giovanna proseguì a tenervi vivo l’amore alle arti, dando impulso, per sua parte, anche alle lettere, perchè adorna, di carattere elevato e di spirito colto. Ma presto dovè mitigarsi in lei quell’ardore e quel contento che l’aveva invasa al pensiero di divenire Duchessa di Savoia; e non erano ancora spente, si può dire, le faci del suo imeneo, che ebbe a convincersi essere più conveniente per lei di non mostrarsi troppo esigente riguardo alla fedeltà del Duca, che pur l’aveva sposata per amore. Perchè se Giovanna non incontrò i fieri casi matrimoniali della sorella, il marito nondimeno non le risparmiava qualche torto, quantunque non tenesse un harem come Pietro Re di Portogallo, fratello di Alfonso e secondo marito di Elisabetta.
Vittorio Amedeo, l’unico figlio della Duchessa, ebbe un’infanzia molto angustiata dalle malattie, e soltanto nel 1668, in età appena di due anni, ebbe a subirne due fierissime, che resero desolato suo padre, ammalato lui pure di mille malanni dovuti alle sue sregolatezze. Inquieto pel figlio, inquieto di non poter attendere ai lavori da lui iniziati nella sua prediletta Veneria, di cui voleva fare una Fontainebleau italiana, riusciva a tutti fastidiosissimo; e la giovine e bella Duchessa, la favorita di Anna d’Austria, l’amica della signora La Fayette, tanto brillante a Parigi, regnava ora triste e sconsolata a Torino, e in data del dì 8 ottobre scriveva al conte di S. Maurizio: «Sono tanto abbattuta e dimagrata che non mi si conosce più». Forse era più scoraggiata del Duca stesso, che quando migliorava dimenticava tutti i timori e le malinconie.
Tra piemontesi e genovesi, retti questi a repubblica, era sempre latente un odio che si trasmetteva di generazione in generazione come una vendetta nazionale, e che scoppiò finalmente, determinato, nella guerra del 1672. Carlo Emanuele II non era soldato, e durante la medesima stava a Veneria o a Rivoli, facendo progetti per avere aiuti e risorse, indignatissimo contro la Francia che glieli negava, e di un tristissimo umore, cosa che accadeva sempre quando le cose non andavano precisamente a suo modo.
L’inverno però e la pace ricondussero la tranquillità alla Corte, e con essi quelle feste tutte italiane, meno brillanti, ma più piacevoli per la Duchessa, di quelle della Corte francese, e che avevano luogo nell’intimità della residenza del Valentino, senza nulla di officiale. Fu in una di queste feste appunto che Carlo Emanuele, il quale vi si abbandonava con vivo trasporto, corse pericolo, correndo al fachino, di fare la morte di Enrico II, essendo stato ferito in un occhio da una scheggia di lancia.
E qui è necessario notare, a difesa di Giovanna, accusata da certi scrittori di non essere stata, da vedova, insensibile all’affetto di qualcuno, che Carlo Emanuele, sebbene non cattivo, e sebbene l’avesse scelta di sua libera volontà, non fece mai troppo la felicità di lei. L’educazione datagli da Cristina l’aveva fatto leggero, e senza risorse come principe; tanto che, fino dai primi mesi del matrimonio, infedele alla moglie, scriveva ad un suo intimo: «Faccio un gran numero di gelosi, e mi diverto a darla ad intendere a destra e a sinistra, e a fare arrabbiare qualche volta la Duchessa, ma ha già incominciato a farsi più ragionevole».
E infatti Giovanna si mostrava tanto ragionevole, come egli diceva, per non lasciar treipelar al servidorame tutto il dolore e il dispetto che provava (specie all’epoca dei rinfuocolati amori del Duca con la Mancini, di passaggio da Torino per recarsi a Roma), fino a correre il rischio di divenire, per ciò, un tantino lo zimbello della società torinese.
Il Duca però, alla sua maniera, l’amava e la stimava, e come a compenso delle sue scappate, l’aveva iniziata, si può dire, al governo; non avendo egli un gran gusto per gli affari di Stato, e piacendogli che qualcuno gliene alleviasse il peso. Aveva poi una tenerezza immensa, quasi eccessiva, per il figlio, e questa, come la maggior parte degli eccessi, doveva pur troppo riuscirgli fatale. Vittorio Amedeo, vivace e petulante, montava spesso a cavallo sotto gli occhi di suo padre, e proprio il martedì 4 giugno 1675, ritornando Carlo Emanuele dal giro di circonvallazione della capitale, da lui ampliata, fu talmente spaventato vedendo il principino, per un incidente qualunque, cadere di sella, che si sentì colpito dai brividi di una febbre acutissima. Cotesta febbre, giudicata per febbre convulsa causata dallo spavento, si aggravò rapidamente, perchè da lui trascurata, tanto che in breve il caso si fece disperato. Sentendosi morire, questo principe buono, in fondo, e nobile, volle che si aprissero le porte del palazzo, perchè il suo popolo, che lo aveva veduto vivere, lo vedesse spirare, e questo avvenne il 12 giugno 1675. Egli aveva già fatto testamento, affidando la tutela del figlio novenne, e la Reggenza, alla Duchessa, la quale non ebbe la forza di assistere agli ultimi momenti di lui, e alle cerimonie inerenti alla vestizione dell’ordine di S. Maurizio, a cui apparteneva, che incominciano prima della morte; e stette nel gabinetto contiguo colla principessa Luisa di lui sorella, ed altri parenti.
Appena spirato il padre, Vittorio Amedeo, ammaestrato dalla madre, si accostò all’ambasciatore di Francia, e lo incaricò di pregare il suo Re a volerlo tenere come servo, dal suo canto, volere essergli padre, poche parole nella cui esagerata umiltà si leggeva tutta l’accortezza di Giovanna. Essa poi iniziò la sua Reggenza il giorno stesso della morte del marito, e con modi addirittura assoluti, abbastanza in contrasto con le lacrime che versava, ma ben in armonia col carattere che le attribuisce il Rousset, uno scrittore peraltro assai partigiano. «Natura ardente e appassionata» — egli dice — «carattere più violento che forte, facile a impennarsi, ma facile a rimettersi, eroica al primo fuoco, ma incapace di resistenza sostenuta; altera e vanagloriosa all’eccesso, un nonnulla di più o di meno, negli onori che le si rendevano, la riduceva fuori di sé stessa dalla gioia o dalla disperazione». In forza di questo suo carattere, nel primo momento della sua sovranità, ella si diè agli affari con vero slancio, lavorando tutti i giorni cinque o sei ore di seguito.
Carlo Emanuele, comprendendo nella moglie una mente acuta e pieghevole, vedendola mostrarsi amica di poeti e di letterati, compiacendosi in proporre ad essi soggetti di accademie e di dispute, ne aveva indovinate anche le attitudini al governo, tanto che, assunta da lei la Reggenza, governò bene e con onore. Gli storici però sono discordi a giudicarla, e chi la pone al settimo cielo, come il Muratori, chi la demolisce adirittura, come il Corelli e il Rousset. In sostanza, essa fece delle buone cose, e commise degli errori; ma chi non sbaglia quaggiù? Eppoi che esempi aveva avuti ed aveva? — Un grave errore di Giovanna Battista, e che essa pagò in seguito assai caro, fu quello di curarsi poco del figlio e della di lui educazione. Credeva forse imporgli colla soggezione, ed invece se ne alienava l’animo. Tutti i giorni, ad una certa ora, il conte di Monasterol suo governatore, conduceva il fanciullo presso sua madre, alla quale baciava la mano secondo tutte le leggi dell’etichetta, ne ascoltava le osservazioni e le lamentazioni, quindi ritornava nelle sue stanze; e questi erano tutti i rapporti che esistevano fra loro. Così egli cresceva, e la sua intelligenza, lungi dall’intristire nell’indifferenza e nell’isolamento. cresceva e si rafforzava con la riflessione solitaria, alimentandosi però a spese del cuore. Ben differente in questo da suo padre, che aveva avuto il culto delle affezioni domestiche, Vittorio Amedeo non sentiva per sua madre niente altro che timore, e non aspirava che al giorno in cui avrebbe potuto svincolarsi dalla di lei soggezione e spiegare le ali.
La Duchessa intanto esercitava pacificamente il suo governo, e la di lei Reggenza non accennava ad essere, come quella della suocera, turbata da dissidi domestici. Ancor giovine e bella, e stata atrocemente tenuta a freno dal Duca, una volta padrona di se, dicono che volesse provare la potenza delle sue attrattive; ma gelosissima, si aggiunge, della sua reputazione, se ebbe delle debolezze le seppe dissimulare con la massima cura. Ad ogni modo il suo più gran pensiero era la pubblica opinione, specie quella delle Corti estere, e teneva basso l’ambasciatore di Francia Villars, e l’ambasciatrice, avendo il dubbio che malignamente la spiassero.
Durante questo tempo avvenne un fatto che diè agio a Giovanna di distinguersi e farsi pregiare dai piemontesi e fuori, e di allontanare da se quegli a lei antipatici Villars. Nell’estate 1677, capitò a Torino il celebre musicista Stradella, insieme ad una giovine patrizia veneta, destinata sposa al senatore Contarini, e da esso rapita, perchè innamorati fra loro perdutamente. La Duchessa Giovanna, sensibile alle sventure dei due giovani, e conquisa dal canto dell’artista, li prese a proteggere. Ma un giorno, due o tre bravi, mandati sulle loro traccie dai parenti della giovine, uccisero a colpi di stile l’infelice Stradella, e si posero quindi in salvo nella residenza dell’ambasciatore francese. Il fatto destò la generale indignazione, e la Duchessa, per mezzo del suo governo, fece chiedere la consegna degli assassini. Il Villars si rifiutò, e benché Luigi XIV biasimasse il suo rappresentante, disse però che l’onore non consentiva oramai la restituzione dei colpevoli, e lasciò che l’ambasciatore li conducesse egli stesso al confine a Pinerolo nella sua carrozza.
Ma questo eccesso esasperò talmente l’animo dei torinesi, che ognuno, da quel momento, sfuggì l’ambasciatore. Luigi XIV era allora tutto assorto nelle guerre di Spagna, di Olanda, e dell’Impero, e poco si curava del Piemonte, limitandosi a far sentire ad esso il suo potere, coll’imporre pel giovinetto principe una moglie francese. Ma Vittorio Amedeo vagheggiava altri ideali; ed altri progetti, su tal punto, aveva la Duchessa. Luigi allora, avendo subodorato questi ultimi, e compreso che in tal caso la parte migliore sarebbe toccata a lui, lusingò l’amor proprio di Giovanna col richiamo del Villars, rendendola così più favorevole a Francia di quello che non era per natura, e castigò intanto l’ambasciatore che non era riuscito a combinare il matrimonio francese. Poi il furbo Re estasiò la Duchessa, consentendo a mandarle un ambasciatore non ammogliato, scegliendo per quel posto l’abate di Estradées. L’errore principale, e quasi direi unico, della Reggenza di Giovanna, chiamata, come la suocera, Madama Reale, datò dal 1678, perchè in quest’anno, incominciato con auspici di pace e di tranquillità, e che fu detto l’anno d’oro di quella Reggenza, essa incominciò a trattare segretamente il matrimonio di suo figlio, con la figlia di sua sorella, erede del trono di Portogallo. Da quel matrimonio, che doveva farsi ai sedici anni del Duca, essa sperava resa nulla la maggiorità del figlio rapporto al Piemonte, ed assicurato il governo a lei per tutta la vita. Giacche nei capitoli del contratto era detto che Vittorio Amedeo andrebbe in Portogallo per le nozze, e vi resterebbe fino a che non avesse prole, e che morendo con figli minori lascerebbe a lei la Reggenza. E fu proprio quando il Re di Francia seppe di questo matrimonio, che, stropicciandosi le mani, deve aver pensato come gli Stati piemontesi in mano di una donna, o di un Viceré venuto da Lisbona, perdevano ogni potenza, e die ordini perchè fosse facilitato, più che si poteva, questo progetto.
Giovanna Battista, in quella inattesa condiscendenza nulla vide o comprese, mai ben compresero i sudditi, che offesi ed umiliati ne fecero rimostranze al Duca. Questi, deciso fin da principio a nulla concludere, prorogò intanto la propria partenza per due anni ed avverso a quel matrimonio, avverso a Luigi XIV, e tirato su dal suo governatore Morosso, buono e schietto italiano, si preparava al regno con molti grilli in testa.
A gran passi si avvicinava il termine della Reggenza. Il 14 maggio 1680 Vittorio Amedeo compiva i quattordici anni, e diveniva maggiore per legge. La Duchessa, consigliata, aveva molto addolcito il suo contegno col figlio, che però non si lasciava commuovere dalle apparenze. Essa, alla sua volta, voleva celebrare quell’anniversario con più pompa e splendore del consueto, ma nulla più, nessuna concessione essendo disposta a fare di buon animo. Fu dunque ben lieta allorché quel giorno, dopo che il giovine Duca fu dichiarato maggiore, ei la pregò, a seconda di quanto era stato fissato dai Ministri e dal suo governatore, di continuare le di lei cure come capo del suo consiglio; ed in ricambio essa si lasciò persuadere a concedergli qualche po’ di respiro circa il matrimonio con l’infanta di Portogallo.
Nel febbraio susseguente Vittorio Amedeo, che apparentemente era in grandi tenerezze con la madre, le fece formale e pubblica promessa di partire pel Portogallo fra diciotto mesi. Ma nè il popolo nè i parenti volevano quella partenza; e siccome i francesi, a causa di certe piccole insurrezioni scoppiate qua e là, avevano occupato Casale e Pinerolo, sotto il pretesto altre volte usato, sotto la Reggenza della prima Madama Reale, di garantire la Duchessa, alcuni nobili piemontesi, interpretando il pensiero generale, suggerirono al Duca di prendere nelle sue mani più ferme le redini dello Stato, di scuotere addirittura, una buona volta, il giogo francese, e non andasse, gli dissero, «a cercare altrove dei sudditi, che per certo non ne trovereste dei più.... mansueti di noi». Così, mentre si segnalava l’arrivo della flotta portoghese, per condurre via il Duca, questi cadde pericolosamente ammalato! Sua madre ne era desolata, tanto più che l’effervescenza del popolo e le esigenze di Francia la tenevano di pessimo umore.
Andato poi a monte il matrimonio, perchè il Ministro del Portogallo si dichiarò stanco di tante tergiversazioni, e lasciò di punto in bianco Torino, Vittorio Amedeo risanò maravigliosamente. Ma non si rialzò per questo lo spirito di Giovanna, che oramai vedevasi costretta a subire l’alleanza francese, impostale, si può dire, a tradimento, e le truppe straniere nel Ducato. Quando ne ebbe la partecipazione, commossa dai molteplici rovesci che si addossavano su lei, non seppe resistere all’ingiunzione, sebbene si sentisse crudelmente ferita, e lasciò che i Ministri regolassero i dettagli. Ma quando si trattò di offrirle una pensione vitalizia di oltre centomila lire, e di distribuire fra i suoi Ministri altre pensioni minori, la fierezza della donna e della principessa si risvegliò in lei, e vendicò l’insulto fatto alla Reggente, costringendo l’ambasciatore di Luigi XIV ad abbassare la testa. Se essa per debolezza aveva potuto lasciare attentare alla sua libertà, si ribellava all’idea di poterla vendere; e il sentimento materno e patriottico sorgendo gigante in lei, le dettò questa risposta:
— Sarebbe più onorevole pel Re, e più degno della mia riconoscenza, se egli volesse indirizzare piuttosto a mio figlio le sue liberalità, dandogli così il mezzo di mantenere un maggior numero di soldati.
A tal rimprovero indiretto, che però non mancava di grandezza, e che rimetteva al suo posto di alleato volontario, e di sovrano indipendente, il Duca di Savoia, il quale poteva accettare senza vergogna un pubblico sussidio per l’interesse comune delle due nazioni, fece perdere all’ambasciatore ogni velleità di fare altre proposte neppure ai Ministri.
Ma Vittorio Amedeo si preparava lui alla rivincita. Egli si faceva ogni giorno più uomo, s’ingentiliva, e non era più un orso con le donne. La madre l’opprimeva ancora con mille piccinerie, ed egli, carattere ribelle e punto affettuoso, si vendicava volendo fare a suo modo nelle cose grosse; e così maturò ed eseguì il suo colpo di Stato, che ebbe per risultato la deposizione e l’arresto di Pianesse, il Ministro che aveva sempre assistito nel governo sua madre, e la venuta al potere del conte Druent.
Questo cambiamento era anche un insulto alla Francia, giacché il Pianesse la sosteneva, e trattava ancora, ad insaputa della Duchessa, il matrimonio del suo principe con la nipote di Luigi; ma la Francia, pei suoi fini, finse di non accorgersene.
Quando l’11 gennaio 1683 Vittorio Amedeo si trasferì colla madre da Moncalieri a Torino, per il carnevale, ebbe tale accoglienza dal suo popolo, accompagnata da luminarie e musiche, che spaventò la Duchessa, e a lui rivelò la via che oramai doveva battere. La guerra tra Francia e Spagna era imminente, e Luigi XIV aveva bisogno dei soldati che teneva di guarnigione in Piemonte; ma togliendoli forzatamente voleva aver l’aria di concedere un favore, e serbarsi anche sempre qualche padronanza nel Ducato, certo ignorando che genere fosse Vittorio Amedeo, che non voleva più sottostare alla tutela di nessuno. Il Re dunque consigliò alla Duchessa, di far risolvere suo figlio al matrimonio con la propria nipote, proponendo in compenso lo sgombro delle provincie occupate.
Il vantaggio, per il momento, era grande, e Giovanna, per la libertà del Piemonte, ebbe questa abnegazione, giacche col matrimonio del figlio finiva ogni sua ingerenza negli affari di Stato.
E infatti, appena concluso il matrimonio, Vittorio Amedeo notificò ai Ministri e ai Magistrati, che da quel punto pigliava lui esclusivamente il governo dello Stato, e a lui per l’avvenire si rivolgessero in ogni occorrenza, ed il 14 marzo 1684 la Duchessa rimesse nelle e mani il governo completo.
La Reggenza di Giovanna Battista durò nove anni, durante i quali essa fece anche moltissime cose buone. Soppresse, saviamente, la vendita delle cariche; fece sempre buona accoglienza a scrittori ed artisti, e quando lo permisero le condizioni finanziarie, fu con essi anche munifica; istituì un Consiglio cavalleresco per decidere dei casi d’onore; fondò l’Accademia reale di Belle Arti; scemò gli antichi tributi, e non ne impose dei nuovi, ristorando, dicesi, le finanze con altri mezzi, che non ci sono indicati. E si deve al sussidio di 50,000 ducatoni, dato da lei ad Emanuele Filiberto di Carignano, il sordomuto di Savoia, l’erezione del famoso palazzo Carignano, ove vide la luce il primo Re d’Italia, e sede quindi del primo Parlamento subalpino e italiano.
In generale però, Giovanna non fu gradita né a sudditi né a parenti; soltanto la nuora e le nipotine fecero eccezione, e fu in mezzo ad esse che trasse poi vita ritirata e tranquilla, sopravvivendo fatalmente a tutte due le sue predilette, e vivendo fino ad ottanta anni.