Le cerimonie/Atto secondo

Atto secondo

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ATTO SECONDO

SCENA 1

Aurelia e Trespolo.

Aurelia.   Vien meco, Trespolo: e quando m’avrai

accompagnata fino a casa Spergoli,
tu vanne a casa la signora Ersilia.
Dirai che mando a farle riverenza,
e avendo inteso come sia per ire
in campagna, le auguro buon viaggio.
Va poi da mia cugina e di’ che, avendo
intesa la sua venuta in cittá,
i’ mando a rallegrarmi. Di lá passa
a casa Muffi e saper come sta
la gentildonna che partorí un mese
fa. Dopo andrai dalla signora Fulvia,
dicendo dopo i debiti saluti
ch’ora appunto ho saputo come il suo
bambin fa i denti e mando per intendere
se spuntan bene. Quinci a casa Frittoli
fa riverire i signori e signore
per mia parte ciascuno; sono in dieci
fra tutti, e farai dire al signor Lucio
se sente danno da questo scirocco,
e ad Olimpia la sua figliola nubile

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che mi rallegro dell’aver trovato

il cagnolin perduto e mi condolgo
della gran macchia che sento abbi fatta
su la sua veste nuova, e ch’io se vuole
manderò lá chi le cava benissimo.
Avverti di non dir cento spropositi,
peggio che pappagallo.
Trespolo.   Ora sto fresco.
Né tordo mai, né merlo nella ragna
fu sí impacciato com’io. Ma, signora
padrona, e’ ci vorrebbe un libro e appresso
ch’io ci sapessi scriver tanto morbo
di nomi e di faccende. Ersilia, Lucio,
Flavia, Frittola, Muffa, denti, macchia,
scirocco; e poi ci sono i dieci. O povero
di me!
Aurelia.   Ah! balordaccio, se trattassesi
di mangiare o di ber, tu assai piú cose
ti terresti a memoria.
Trespolo.   Io mi penso
che la stia a desinare in casa Spergoli.
Aurelia.   Io vi sto presso ch’io non dissi; e per
qual ragion pensi tu questo? Al contrario
convien spicciarsi; ch’io vo tornar tosto:
avrò fra poco visita.
Trespolo.   Che, dunque
avanti desinar io debbo andare
in tanti luoghi? Ci vorria il folletto.
C’è da far fin dimani.
Aurelia.   O bel poltrone
che tu se’ fatto oggidí! Tu staresti
a dormir tutto di chi ti lasciasse.
Trespolo.   Avrei d’avanzo di poter dormire
la notte io: ché la non si può durare
andar sí tardi a letto e levar di
buon ora. Se non fosser le mezz’ore

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ch’io vo rubando di sonno, allorché

lor signore si ostinano a qualche uscio
e nissuna vuol ire, io non potrei
resistere.
Aurelia.   Ritirati, ch’io veggo
venir verso di me il signor Leandro.

SCENA II

Leandro e Aurelia.

Leandro.   Signora Aurelia, io veniva con animo

di riverirla in casa.
Aurelia.   Troppa grazia
che volea farmi; ella confonde sempre
questa sua serva desiderosissima
di palesarsi sua svisceratissima.
Vuol che ritorni dentro?
Leandro.   Non giá, ch’io
posso esporle qui ancora quanto mi
occorre.
Aurelia.   In grazia mi lasci premettere
le congratulazioni mie vivissime
per l’arrivo del suo signor figliuolo.
Ella ben vede quanta parte io debba
prendervi.
Leandro.   Le confesso ch’io mi sono
il piú contento uom del mondo.
Aurelia.   Ha ragione,
trovandolo adornato d’ogni bella
qualitá.
Leandro.   Non ardisco di dir tanto;
ben posso dir ch’egli è d’ottimo gusto
e distingue e conosce il valor delle
cose.

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Aurelia.   Son certa.

Leandro.   Ma ella non sa
com’io abbia scoperto questo suo
fino discernimento.
Aurelia.   Non per certo,
Leandro.   Né ch’egli l’abbia giá a suo piacere
veduta, osservata e contemplata.
Aurelia.   Me! Come mai? Forse pur ora, quando
io sono stata con sí gran premura
chiamata ne la casa a noi contigua
di mio cugino? Io me ne son ben data io
di qualche cosa: oh guarda, se me l’hanno
fatta!
Leandro.   Ora scoprirebbe il tutto. La
mia contentezza d’aver lei gradita
la proposta giá fattale di mio
figlio non era intera, né io stava
quieto nel mio animo, finché
non m’accertava anche del di lui genio.
Potea riuscirgli grave il legarsi
cosí di súbito, e potea l’etá
non lasciargli conoscere il gravissimo
error che in questo caso avrebbe fatto;
potea portar nel cuore qualche fistolo
che l’accecasse per ogni altro oggetto.
Insomma traversie giá mai non mancano,
e sempre giova l’andar cauti. In fatti
alle prime parole ch’io gli mossi
dell’accasarlo súbito, ei mi fece
un viso arcigno e ficcò gli occhi in terra,
come parlassi di sciroppo amaro.
Allora io pensai che contra la
melensaggin sua potea rimedio
prestare il di lei volto efficacissimo.
Usai però l’arte or da lei scoperta,
perché senza apparire a suo bell’agio

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la mirasse. Riuscito a meraviglia

è il mio divisamento. Appena videla,
che cessò ritrosia, svanì freddezza
e niuna avversione ha piú egli a perdere
sua libertá, veduto destinarglisi
prigion sì bella. Or dunque altro non restaci
che ultimare la scritta e prontamente
far le nozze. Quel ch’è di piacer mutuo
non vuol tempo fra mezzo.
Aurelia.   Il signor suo
figliuolo avrebbe ecceduto ben sopramodo
in bontá nel contentarsi della
mia appariscenza.
Leandro.   Ei le ha fatto giustizia,
come ognuno le fa.
Aurelia.   E non può essere
per nissun modo ch’egli abbia trovato
di che appagarsi nella mia persona.
Leandro.   Vuol ch’io l’inganni? Ed a qual fine mai?
Aurelia.   Conciosiacosaché io pur non abbia
grazia alcuna, né dono di natura.
Leandro.   Ma a che serve?
Aurelia.   Io ben so il mio poco merito.
Leandro.   Ma se...
Aurelia.   Ho cognizion di me medesima
tanto che basta: ubbidienza al padre
fu quella che condusse il compitissimo
signor Orazio.
Leandro.   O sia come le pare,
ma in ogni modo egli sará fra poco
a fare le sue parti ed ardirá
insieme di mandarle alcune poche
galanterie di Parigi. Ci sono
varie miscee che mi paion bizzarre,
un ventaglio fra l’altre di novissima
invenzione. Non ha potuto averne

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piú d’uno, perché dice né pur quivi

esser la moda divulgata: è fatto
d’avorio tutto senza carta o tela,
e certo nastro d’argento ne pende
ch’è pur di nuova opera.
Aurelia.   Io sarò
oppressa dai favori; vo’ tornare
in casa a prepararmi per ricevere
cosí preziosa visita.
Leandro.   Eh signora,
ché a tutte l’ore ell’è preparatissima;
egli ci ha da pensare. Ma in somma
in libertá io la lascio, riverendola.

SCENA III

Aurelia e Trespolo.

Aurelia.   Trespolo, Trespolo, dico: ti se’ tu

addormentato?
Trespolo.   Io mi stava da parte
studiando la lezione. Prima dalla
signora Ersilia, la qual va in campagna
a fare i denti; poi dalla figliuola
nubile del signor Lucio che un mese
fa partorí; dopo cavar la macchia
alla signora Olimpia e augurare
buon scirocco non so a cui. M’è uscito
ancor di mente quant’ho a dire a quei
dieci, e mi dá fastidio inoltre, quando
con un’istessa avrò da rallegrarmi
e da dolermi. Mi andava provando:
ah ah ah, uh uh uh, ah ah ah, uh uh uh.
Aurelia.   Séntilo il pazzo, séntilo. Chi vide
animalaccio di tal sorte? In casa,
scimunito; or si dèe pensare ad altro.

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SCENA IV

Orazio e Bruno.

Orazio.   Lodato il ciel, giá sono in salvo.

Bruno.   Come
signor padron? La casa è piena di
gentiluomin venuti a far visita
per rallegrarsi del suo arrivo, ed ella
si ruba via per la scala a lumaca
e per l’orto esce? Io le son corso dietro
per timore d’alcun sinistro.
Orazio.   Io gli ho
lasciati, perché si sfoghin fra loro,
recitando a piacer le lor legende.
Bruno.   Dunque non torna piú?
Orazio.   Non giá, finché
la casa non è sgombra.
Bruno.   O che fa ella
mai, per l’amor del cielo?
Orazio.   Ho detto a mio
cugin che certa urgenza indispensabile
mi costringe a sottrarmi destramente,
e che il prego però far le mie scuse
e supplire per me.
Bruno.   Disaggradisce
dunque le cortesie? i segni
di stima, d’affetto?
Orazio.   Anzi gradisco, e insino
che son venuti quei che di cuor vengono
ed han piacere di vedermi, gli ho
avuti cari e ho corrisposto; ma
quando hanno principiato le imbasciate

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in formolario e son venuti via

stropicciando cinquanta riverenze
e quinci dando in cantilene, allora
mi sono infastidito, sí che andava
a morte. Io credo le imparino a mente.
Un certo ha incominciato in tuono di
orazione; troncando, l’ho interrotto
e dette due parole, come fosse
al fine; quegli in vece di rispondermi
è tornato da capo; io l’ho interrotto
di nuovo ed egli allor, ficcando gli occhi
nel muro, ha preso a dir su presto presto:
io me gli son cavato pianamente
di sotto, ei proseguiva disperatamente
guardando pur il muro; parmi
di vederlo, e son certo che va dietro
ancora.
Bruno.   Io so chi è, certo fa ridere.
Orazio.   Ma poi in qual confusione mi avea posto
mio zio Lucindo che si era messo
a farmi l’assistente ed or volea
che mi abbassassi quattr’once di piú,
or due di meno, e non gli dava mai
gusto. Vado all’incontro d’un che arriva,
e mentre sono in via, quegli mi tira
di dietro in fretta e mi fa rimanere
a mezz’aria, dicendo: — Basta tanto. —
Viene un altro, vo’ andar fin dove aveami
fermato l’altra volta, e quegli mi
dá d’un ginocchio nel seder, dicendo:
— Con questo vuoisi andar piú innanzi. — Che
impazzimento è cotesto? Gli ho detto
che un’altra volta faccia tanti segni
in terra, e appresso i nomi di ciascuno.
E quando egli volea che mi fermassi in
un sito e all’apparir d’alcuno mi

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mettessi a correr, qual se avessi avuto

animo d’incontrarlo, assai piú innanzi?
Ma queste son tutte ciance. Sapete
voi cosa voglio?
Bruno.   Che comanda?
Orazio.   E quanto
prima si può?
Bruno.   Dica pur.
Orazio.   Che facciate
passare un mio saluto alla signora
Camilla, di cui v’ho parlato in casa
e insieme questo ventaglio, dicendo
che io mi fo pur lecito per la
novitá della moda, non ancora
arrivata fin qua, di presentarglielo.
Bruno.   Come signor? Non ha ella detto or ora
al signor padre esser contento affatto
del partito d’Aurelia?
Orazio.   I’ l’ho detto,
e torno a dirlo; l’ho veduta sí
bella che, aggiunto il portar seco molta
roba e ’l piacer di mio padre, sarebbe
fuor di ragione di non esserne; ma
credete voi per questo ch’io non voglia
veder giá mai altra donna e star sempre
in casa? Un poco di conversazione
è necessaria a tutti, e con niun’altra
mi sarebbe piú cara che con quella
sí disinvolta giovane.
Bruno.   Oimé, queste
— non l’abbia male — son cattive regole;
n’ho veduto degli altri far cosí,
e n’ho sempre veduto poco buoni
effetti. Chi non attende al suo, invita
gli altri ad attendervi e patisce spesso
quel che vuol fare, e di mal nasce male.

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Orazio.   Caro il mio Brun, vorrei vi contentaste

di non farmi sí spesso da pedante.
Lasciate a me questi pensieri e fate
quant’io v’ordino.
Bruno.   In questo è facil cosa
servirla.
Orazio.   Tanto basta; andate tosto,
fra poco sará l’ora che m’ha detto
mio padre essere propria per andare
dalla sposa. Fra tanto farò un piccolo
giro, non vo’ arrischiar, tornando a casa,
di ritrovarvi ancor colui che recita
il complimento al muro.

SCENA V

Camilla e Trespolo.

Camilla.   Tu hai fatto

profitto sotto i tuoi padroni; è stata
elegante la tua ambasciata. Or giá
che ha voluto mia madre, rimanendosi,
che m’accompagni questi pochi passi,
dimmi un poco: si fanno apprestamenti
in casa per le nozze? Si prepara?
Trespolo.   Signora sí. cose grandi; si ha
da mangiare tre dí continui e la
mia padrona ch’è sempre sí flemmatica
ora par fatta impaziente; la va
brontolando cosí da sé per casa
le piú belle parole. I’ credo che
la voglia dir le gran cose allo sposo.
Camilla.   Ma lo sposo è venuto ancor da lei?
le ha parlato?
Trespolo.   Non le ha parlato ancóra,

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ma l’ha veduta e se ne è in un súbito

da capo a piede innamorato.
Camilla.   O come
si sa questo?
Trespolo.   E si sa dalla pubblica
voce e fama. Ha avuto gran fortuna
la mia padrona; dicon ch’esto giovane
sia un bello speranzone, bianco e rosso,
ben in affetto della vita.
Camilla.   In somma
a visitarla non è stato ancora.
Trespolo.   Non è stato, ma or or verrá. Cosí
non fosse, che fin or m’è convenuto
faticar peggio di facchino.
Camilla.   In che
mai?
Trespolo.   In portare, accomodar, scambiare
le sedie nella camera. I padroni
hanno studiato fra loro; saranno
in casa piú persone allora che
verrá la prima visita, e però
varie han voluto le cadreghe, una
con appoggio, altra no, con bracci e senza,
una stracciata piú, l’altra meno.
Io volea porvi anche quella da comodo,
ma non hanno voluto, e quanto le hanno
fatte voltare e rivoltare, or piú
contra l’uscio, or piú verso tramontana!
Noi ci abbiam da esser tutti e andare innanzi
appaiate a due a due, quello ancora
che governa il cavallo e cosí il guattero,
ma pettinati di nuovo e col muso
netto.
Camilla.   Mi par vedergli Aurelia e Massimo
sofisticar su queste inezie; questo
è il lor forte.

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Trespolo.   Ho sentito che nel tempo

istesso si faranno anco le nozze
di lei col signor Massimo.
Camilla.   Ora andiamo,
e priegoti di darmi avviso sempre
di quanto avvien tra lo sposo ed Aurelia.
Trespolo.   Non mancherò, ché stimo dover mio
il riferir tutti i fatti di casa.

SCENA VI

Massimo e Aurelia, poi Orazio e Bruno.

Massimo.   Ma non giá allontanarsi, ché pochissimo

può tardar e venire Orazio.
Aurelia.   E quando
soscriverassi il contratto?
Massimo.   Oggi pure,
giá con Leandro e con gli altri s’è posto
l’ordine.
Orazio.   Insomma tutto è andato bene.
Bruno.   Ella è servita in tutto; ma ecco qui
la sposa e ’l zio.
Orazio.   Qual buona sorte fammi
incontrargli ambedue, mentr’io veniva
per riverirgli in casa?
Massimo.   La fortuna
ha voluto servire all’impazienza
di mia nipote e mia. Io mi congratulo
quanto piú so e posso del felice
suo arrivo in patria.
Orazio.   Mille grazie. Questa
adunque è la signora destinata a
felicitarmi?
Massimo.   Anzi è pur quella, ché

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non potrá mai ringraziare a bastanza

il suo destin di tanta sorte.
Orazio.   Io posso
accertarla che in me troverá sempre
buon cuore, stima grande, amor sincero.
(Qui Aurelia viene a presentarsi con profonda riverenza fatta adagio, adagio.)
Oimé qual melodia è mai questa? Bruno,
badate in grazia, avvisatemi quando
sará finita questa riverenza.
Aurelia.   Siccome i grandi dolori impediscono
la loquela, cosí nelle grandissime
consolazioni avvien; però il gran giubilo
m’impedisce al presente di prorompere
in quelle molte espression che sarebbero
in questo caso piú che necessarie
per dichiarar l’interno del mio animo,
ch’è soprafatto, e del mio desiderio
pareggiare l’ardenza impareggiabile.
Orazio.   Bruno, presto: ho veduto in casa un libro
di lettere di buone feste; andate
a prenderlo, ché vo’ leggerne una
a sta signora in risposta.
Bruno.   Deh! in grazia
badi.
Aurelia.   Vero è però che affatto inabile
io sarei sempre a spiegare il bastevole;
son le sue qualitá troppo ammirabili,
tutto è poco al mio debito e al suo merito,
qual sopravanza tutti gli altri meriti,
come supera il mio tutt’altri debiti.
Orazio.   O che venga il malanno a queste nenie.
Signora, io debbo dirle come tutti i
suoi concetti con me son molto mala‐
mente impiegati, e ch’io non saprò mai

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risponder nulla, non essendo punto

pratico in tai duelli.
Aurelia.   O la non è
cosi; so che mi burla, è pratichissimo.
Massimo.   Pratichissimo e insieme eloquentissimo.
Orazio.   Dico per assoluto ch’io ne so,
né voglio imparare questi modi,
né ci son atto punto.
Aurelia.   Noi sappiamo
ch’ella sa tutto,
Massimo.   e che in ciò è singolare.
Orazio.   Ma se affermo di no!
Aurelia.   — pien di rettorica,
Massimo.   e di spirito e grazia.
Orazio.   Oh che il gran diavolo
se gli porti costor, voglion sapere
me’ di me i miei costumi; io me ne vado
or ora, io.
Bruno.   No, stia forte, stia forte;
superi quella sua grand’impazienza.
Aurelia.   Perché, signor Orazio, sta ella ancora
senza cappello? Si copra, la prego.
Orazio.   Signora, io sto così sempre.
Aurelia.   Mi dia
questo contento.
Orazio.   Perché vuol che faccia
contra il dovere e contra l’uso mio?
Appena me lo metto quando piove.
Aurelia.   Qui l’aria offende, io non voglio il suo danno,
né vo’ cadere in tanta improprietá.
Orazio.   Io non patisco nulla, e all’incontro
ne patirebbe la parrucca.
Aurelia.   Io certo
non ho ben, se non cuopre.
Orazio.   Ed io certissimo
non vo’ coprir.

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Massimo.   Se poi è tale il suo

comodo, ella è padrone in ogni forma.
Aurelia.   Oh perdoni, siam pure inavvertenti.
Orazio.   Che girandola è questa?
Aurelia.   Io non avea
pensato, essendo noi nipote e zio,
che non dobbiamo lasciarla in quel sito,
ma torla in mezzo, acciocché riconosca
la nostra unione o sia cospirazione
in servirla e stimarla ed onorarla.
Orazio.   O che smorfie, o che tedio! Bruno mio,
io vi do nuova che non vo’ costei
per moglie.
Bruno.   Come?
Orazio.   Non la vo’ assolutamente.
Che importa a me ch’ella sia ricca,
quando è di genio sì contrario al mio?
Che importa a me ch’abbia bel volto, quando
è sì smorfiosa e noiosa? Ne avrei
un fastidio perpetuo; converrebbemi
far le funzion matrimoniali ancora
per via di formolario.
Bruno.   Eh, in grazia, pensi
a l’importar del fatto.
Massimo.   Il signor padrone
l’ha avvisata dell’ora, in cui s’è detto
d’essere insieme per la scritta?
Orazio.   Queste
cose non voglion tanto precipizio,
e non c’è sì gran fretta.
Massimo.   Come! Che
parlare è questo?
Orazio.   Vengo persuaso
di non legarmi prima d’aver fatto
un viaggio per l’Italia.
Aurelia.   Un viaggio ora?

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che novitá è mai questa?

Orazio.   E perché m’ha
il signor padre assai raccomandato
d’esser con lui ben tosto, io prego l’uno e
l’altra darmi licenza.
Massimo.   Bruno, è matto
questo figliuolo? O pur patisce di
luna?
Bruno.   Egli s’è invaghito di far questo
viaggio; è da compatir l’impeto e ’l brio
di gioventú; rimoverassi tosto
da tal pensier.
Aurelia.   Ma mi dá gran fastidio
il vederlo vèr me sí freddo. Come
non dir quattro parole con buon modo
alla sua sposa? Crede aver da essere
richiesto lui e pregato? Io sospetto
che poca inclinazione abbi alla mia
persona, e in tal caso,.
Bruno.   O che mai dite!
L’adora, e poco fa parlando meco,
non si saziava d’esaltarla.
Aurelia.   Questo
sariami caro, ch’ei per certo è giovane
di molto bell’aspetto; ma finora
è poca buona l’apparenza.
Bruno.   Ha in uso
di parlar poco; chi è d’un naturale
e chi d’un altro, ma nel cuor lavora.
Massimo.   Di ciò che sia ci chiarirem fra poco.