Le cerimonie/Atto terzo

Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO

SCENA I

Leandro e Orazio.

Leandro.   Egli è com’io ti dico; gli spropositi

presto si fanno, ma poi spesso costano
il pentimento di tutta la vita.
Tu saresti tenuto per un pazzo
se rifiutassi un partito che può
accomodar casa tua, perché la
donna è cerimoniosa; queste sono
dificoltá da scherzo, e tali affari
non si trattan da scherzo.
Orazio.   Ma, signore,
egli è però un gran dire il dover vivere
con chi è di modi sì contrari e tanto
rincrescevoli.
Leandro.   Hai tu paura, quando
sará tua, non ridurla a modo tuo?
Le donne sono quali si fann’essere.
Orazio.   Stimo felici i paesi, che non
hanno sì fatte usanze.
Leandro.   O vuoi tu dunque
drizzar le gambe ai cani o il becco agli
sparvieri? E poi bisogna osservar tutto

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e andar contrapesando il ben col male.

Alcune volte l’estremo vizioso
altro non è che un certo ampliamento
del mezzo virtuoso, e però d’esso
fa indizio. È vero c’è piú cerimonie
in Italia, ma ancor piú cortesia.
Nascon talvolta, perch’uno non sa
come altrimenti mostrar suo buon animo
e a tal un far piú che ordinario onore.
Orazio.   Dunque lodarle?
Leandro.   Dio guardi, io le computo
fra le gabelle della vita umana,
e pazzia stimo l’aggravarsi mutuamente
con solfe che dal pari impacciano
chi le fa e chi le riceve. Talvolta
ch’io mi trovo occupato e mi conviene
perder per qualche visita noiosa
un’ora o piú, ne dico piú di te;
e non men, quando sto comodo in qualche
luogo e per darmi preminenza vogliono
ch’io mi levi o altramenti mi disturbano.
E cosí l’altro dÌ, quando servii
un forastier che non volle mai dirmi
per cerimonia ove avesse piú genio
d’esser condotto e d’ogni mia parola
facea argomento di smorfia, onde s’io
gli dimandava s’era stanco ed egli
súbito: — O son io dunque cagion ch’ella
si stanchi? — Ma in sostanza questi modi
tu non vedrai però che né pur qui
sien di tutti, e anche qui vedrai deridersi
chi vi eccede.
Orazio.   Io non so, ma ho urtato in cose
a cui mal posso accomodarmi, essendo
diversamente avvezzo in Francia.
Leandro.   Oh che

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non ci son dunque cerimonie in Francia?

e altrove? E credi tu che sien native
d’Italia? Sappi che a l’Italia furono
affatto ignote, avanti che non molto
piú di due secoli fa, ci venissero
a soggiornare e a dominar stranieri.
Vero è che, come in ogni cosa suole,
passò innanzi e le accrebbe; ma per altro,
se osserverai, fino i termini e i modi
de’ complimenti sono d’altre lingue,
e per l’appunto in fraseggiar franzese.
Non sono in Francia rituali, visite,
e ragionar con un per voi, qual se
fossero piú, e ufizi grandi con le
ginocchia delle femine e continui
torcimenti e smorfiosi atti col volto,
con la vita, co’ piedi, con le mani?
E che direm dell’uso di lodare
e adular sempre colui con cui tratti?
Che dell’andare intercalando sempre
ridicolmente il parlar con l’«onore»
e col «vantaggio» e co’ «rispetti»? E che
del creder mala creanza il negare?
e però ne’ discorsi, o affermar sempre
o dimandar perdonanza? Talché
non odi altro, e fino interrogando:
«Piov’egli?», ti daranno per risposta:
«Io vi dimando perdón, signor no».
Vero è per altro che in Francia piú libero
in certe cose è il vivere ed esente
da piú seccagini che si hanno altrove;
ma da l’altre nazion questo non s’imita,
per l’accordo segreto in cui giá sono
convenute di tôrre dai franzesi
quel che hanno di cattivo e quel che nuoce,
non quel che hanno di buon, né quel che giova.

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Orazio.   Certo che altrove non vedrei quel c’ho

veduto or ora, essendo da Pomponio.
Vi ho imparato che si fan complimenti
col cesto ancora; imperoché, venutovi
cert’altro gentiluomo, prima di
seder son iti regolando il cesto
in cadenza, talché un porgealo verso
la sedia e quinci il ritirava in dubbio
che quel dell’altro non fosse sÌ prossimo
al termine, e studiando che cadessero
nel punto istesso l’un e l’altro. E quando
abbiam voluto partirci ambedue?
Pomponio vecchio ed occupato levasi
dal tavolino e vuole accompagnarci;
io per breviarla il lasciava pur fare,
ma il compagno s’è posto all’interdetto
e ha cominciato ad arringargli contra.
Quante ragion, quante figure, quanto
fracasso! Pur si acchetò; ma ecco in sala
si ritorna da capo, e in ogni modo
quel buon vecchio ha voluto anche discendere
venir fino alla porta e un passo e mezzo
fuor di essa. O miseria! Ma cosÌi
sei minuti il negozio, e ’l complimento
porterá via mezz’ora. Almen ci fosse
legge fissa, talché perpetuamente
non si avesser da far contrasti e liti.
né alcun potesse far soperchieria:
poiché tal c’è che vuole accompagnarmi
e poi non vuol per nessun modo essere
accompagnato da me.
Leandro.   Nel complire
sento per altro c’hai trovato un modo
di spicciarti con gran facilitá.
Orazio.   Chi gliel’ha detto?
Leandro.   Due giá m’han riferto

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che tu rispondi con dir «bis bis bis»

fra denti, senza articolar parola.
Talun sen terrá offeso, sai?
Orazio.   Avrebbono
gran torto; al niente rispondo col niente.
Leandro.   Ma pensiam ora a ciò che importa; io spero
che il bel regalo mandato e l’ufizio
di tuo cugino avranno rimediato
a quella mala grazia che facesti
con Aurelia e con Massimo; or vien meco
dove t’ho detto, ché in pochi momenti
sarai libero.

SCENA II

Antea e Vispo, poi Aurelia e Trespolo.

Vispo.   Io credo appunto ch’ella

stia per uscir; veggo alla porta Trespolo
allestito.
Antea.   Va dunque e dille tosto
che, se non l’è d’incomodo...
Vispo.   Ecco, ell’esce.
Aurelia. Qual fortuna è la mia di riscontrarmi
nella mia stimatissima padrona!
La riverisco ossequiosamente.
Antea.   Anzi la mia è gran sorte di vedere
l’arciriveritissima signora
Aurelia; me le inchino tutta quanta.
Aurelia.   Rinnovo le mie parti.
Antea.   Ed io le replico.
Vispo.   Signor Trespolo, anch’io me gli sprofondo.
Trespolo.   Signor Vispo, ed io faccio ancora peggio.
Antea.   Come le dá fastidio il caldo?
Aurelia.   Certo

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disturba un poco. E della sua migrania

come la passa?
Antea.   Mi travaglia spesso.
Ella debb’ora esser molto occupata
per le prossime nozze.
Aurelia.   Certo non
manca da fare in casa.
Antea.   È stato detto
ci fosse nato alcun intoppo, ma
forse non sará vero.
Aurelia.   O chi súbito
ha sparso ciò? Non signora, non è
vero; se fosse, mio zio ne l’avrebbe
avvisata.
Antea.   Sì che dunque il negozio
può dirsi fatto.
Aurelia.   Cosí è, grazie al cielo.
Fede ne fa il sontuoso regalo
che ha mandato lo sposo.
Antea.   Ha mandato
il regalo?
Aurelia.   È superbo: a me ne sa
che per gli abusi introdotti ho dovuto
metter fuori non so quanti bei scudi
di mancia.
Antea.   Sciocco abuso veramente.
Le civiltá mi piacciono, son quelle
che ci distinguon dalla plebe; ma
che razza è questa mai di complimento
il metter fuor tanti quattrini?
Aurelia.   Noi
ci mettiam gli uni gli altri in soggezione
e facciam ridere costoro. È ben peggio
in qualch’altra cittá, dove mi dicono
che i servitor dimandano denari
a chiunque va in casa, e fan due volte

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l’anno pagare un dazio. Al maritaggio

di mio zio con la sua signora figlia
sarebbe meglio passar di concerto.
Per altro troppe sono le gabelle:
uno sposo ora la sera solenne
né pur può farsi cavar le calzette
senza dar mano alla borsa. Or mi dica:
piacerebbele forse di vedere
il regalo? Ci son cose bellissime
e non piú qui vedute.
Antea.   Troppo onore,
accetterei la sua gentile offerta,
se non temessi riuscirle d’aggravio.
Aurelia.   Anzi l’avrò per un singolarissimo
favore e potrò aggiungerlo ai grand’obblighi
che le professo. Resti pur servita.
Antea.   Non debbo aggiunger nuovo mancamento,
faccia la strada.
Aurelia.   Pur lei.
Antea.   Anzi lei.
Vispo.   Che schifiltá! Che lezi! La padrona
vuol ch’entri prima l’altra e si va in casa
sua.
Trespolo.   Siamo a quel di sempre.
Vispo.   Queste giá
se in un concorso trovansi, son quelle
che impediscono tutta la brigata,
tenendo tutte l’altre in sommo incomodo,
fin ch’abbian fatte le lor ciance.
Antea.   Torna
tosto da mia sorella — dico a te,
Vispo — e accompagna la Camilla a casa;
poi vieni.
Vispo.   Vado subito.
Trespolo.   Ed io intanto
con sua licenza, signora, anderò

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a metter in sicuro il desinare;

perch’oggi appunto fa otto giorni ch’io
per un simil contrasto restai senza,
avendo ritrovato, quando andai,
che l’altro servidore avea fra tanto
fatto netto. È un diluvio colui! Giá
tornerò a tempo benissimo.
Aurelia.   Taci
lá, ignorantaccio. Non ritardi piú,
signora; vede ben, la casa è mia.
Antea.   Ma qui ci sono altri riguardi e militano
altre ragioni piú forti.
Aurelia.   Sarebbe
una mia incompetenza.
Antea.   Anzi una mia
tracotanza.
Aurelia.   Sarei ripresa, come
donna incivilizabiie.
Ante a.   Sarei
burlata qual persona incorreggibile.
Aurelia.   Per fin no’l farò certo, mai.
Ante a.   Non voglio
tenerla dunque ancora qui a disagio;
anderò per mostrar la mia ubbidienzia.
Aurelia.   Anzi perché cosí vuole ogni regola,
ed io, com’è dover, verrò servendola.

SCENA III

Orazio, Camilla e Vispo.

Orazio.   Ma nelle cose che altamente premono

non si manca d’industria, quinci è
che ho pur saputo cogliere il momento
per riverirla.
Camilla.   Io la prego lasciarmi,

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signor Orazio, perché, non essendoci

mia madre, parmi poco convenevole
esser veduta con lei.
Orazio.   O che scrupoli!
Che mal c’è qui? E non siam noi per essere
sí strettamente congiunti fra poco?
Vispo.   Si serva, signor cavalier, si accomodi
pure, ché quanto a me i fatti d’altri
non gli ridico mai.
Orazio.   Io vi ringrazio,
buon giovane, ed io pur non lascerò
di riconoscere il vostro buon animo.
Vispo.   Quando comanda.
Camilla.   Io debbo ringraziarla
del bel ventaglio che m’ha favorito.
Mi dié licenza la signora madre
di riceverlo, ed ecco ch’io lo porto.
Orazio.   È troppo fortunato quel ventaglio.
Ma dica un poco: è al tutto stabilito
il maritaggio suo col signor Massimo?
Camilla.   Può dirsi stabilito: in ogni cosa
s’è convenuto, si fará la scritta
a momenti e le nozze parimente.
Orazio.   Pure è in suo arbitrio ancora il rinunziarvi,
volendo. Deh! se nel suo cuor la minima
parte provasse di ciò ch’io pur sento
nel mio dal primo punto che ho avuta
la sorte di vederla, io l’assicuro
che facilmente un pretesto ed il modo
troverebbe ben presto di sturbare
il contratto e di porsi in libertá
totale.
Camilla.   Scherza forse? Quanto a me
piú facil forse sarei da disporre
ch’ella non crede, e mia madre altresí
assai piú genio avrebbe al suo partito

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che a quel del signor Massimo. Ma a che

serve? non è conchiuso il parentado
suo con Aurelia? Perché vuole adunque
inquietar me inutilmente? Io non posso
competer con Aurelia; ella ha fortune
troppo maggiori, e in oggi tanto basta.
Vengono dalla dote le saette,
non dall’arco sognato di Cupido.
Orazio.   Queste saette hanno colto mio padre,
non me, gliel giuro; egli è vero, che la
paterna autoritá mi va traendo
a consentir; ma quando veramente
fossi sicuro del suo genio e fossi...
O cielo, s’io potessi una mezz’ora
discorrer seco quetamente! Non si
potrebb’egli trovare il modo?
Vispo.   Si
signore, è cosa facil; basta che
verso sera ritrovisi in quel vicolo
ch’è di fianco alla casa, alla seconda
fenestra della camera terrena.
Quivi sará la signora Camilla
all’inferriata, ove potrá con tutto
comodo ragionare ed io farò
la sentinella intanto. Ma non veggo
io venire vèr qua il signor Massimo?
È lui per certo.
Camilla.   In grazia si ritiri,
signor Orazio.
Orazio.   Io mi dileguo subito;
ho appunto a far qui presso certa visita.
Ma conferma ella pur l’appuntamento
del suo servo? Io sarò infallibilmente
nel luogo divisato all’ora detta.
Camilla.   Ed io sarò non meno alla fenestra,
poiché cosí pur vuole.

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SCENA IV

Camilla e Vispo, poi Massimo.

Vispo.   O quanto meglio

per tutti i conti starebbe accasata
con sÌ garbato giovane! Mi pare
che il poverin sia cotto, ella però
potrá condurlo ove vorrá.
Massimo.   Trattengasi
un momento, signora, e mi dia campo
di praticar con lei gli atti del mio
rispetto, esercitando le funzioni
della mia servitú.
Camilla.   Come improvviso
m’arriva, signor Massimo.
Massimo.   S’accostano
l’ore felici e da me sospirate.
Or or Leandro ed Orazio saranno
in mia casa a soscrivere e ultimare
ogni cosa. Però non sará piú
ritardo alcuno a’ desideri miei,
e potran parimente effettuarsi
le nostre nozze.
Camilla.   Di ciò ella ben sa
ch’io lascio ogni pensiero alla signora
madre.
Massimo.   Va bene, ma convien però
che c’intervenga anche il consenso suo
e ’l suo piacere; e quando non potessi
lusingarmi che il genio suo ugualmente
ci concorresse, io non potrei godere
della mia sorte, né sarei contento,
tuttoché possessor d’un tal tesoro.

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Camilla.   Mi onora sempre oltra dover, ma in grazia

di proseguir mi permetta.
Massimo.   Gran fretta.
Camilla.   La sua facondia porterebbe troppo
avanti.
Massimo.   Parmi che non era tanto
impaziente una volta.
Camilla.   La fretta
nasce dall’esser sola e ancor dall’ordine
che tengo di portarmi prestamente
a casa.
Vispo.   Poco fa, creda, per la
premura, essendo stata salutata
da un gentiluomo, per non perder tempo
non gli ha pur reso il saluto.
Massimo.   Balordo,
fu per modestia e non per fretta. Almeno
la servirò tino a casa.
Camilla.   Ella sa
che mia madre non ha piacer né pure
ch’io parli con altrui, quand’ella non
è meco.
Massimo.   Adunque, poiché cosí vuole,
col piú vivo del cuore l’accompagno
e la supplico credermi qual sono.

SCENA V

Orazio e Bruno.

Bruno.   Il signor padre s’è avviato a casa

della signora Aurelia e quivi la
stará attendendo. Ma che l’è avvenuto
mai che la fa ancor ridere?
Orazio.   O bizzarro
accidente! Non s’è mai letta, Bruno,

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piu graziosa novella. Vengo di

casa Balzani, ove ho trovato in sala
il padrone venuto incontro ad altri
gentiluomini giunti anch’essi allora.
Ci siamo incamminati quetamente
per entrar nella stanza: quando siamo
all’uscio della prima, ecco ch’i’ veggo
un dar addietro di tutti ed un farsi
da largo; guardo se c’è serpe o drago
nell’altra stanza e non c’è nulla, chieggo
al piú vicin: che c’è? Quei non risponde,
ma veggo farsi tutti in semicircolo,
qual se si fosse a una recita e sento
incominciar ciascheduno a difendersi
da l’entrar prima: «tocca a lei, signore
Elitropio; anzi a lei, signor Alipio:
Vossignoria è piú prossima, Vossignoria
è piú avanti col merito: Ell’è
in carica: Ella ha carica maggiore
da l’etá: Io non posso in questa casa,
perché ci ho parentela: Squitiminia
suocera di mio padre fu sorella
uterina de l’avo d’Alticherio».
A me parca d’esser proprio a comedia.
Ma tra per prieghi e per spinte alla fine,
comunque fosse, si trapassò;
di che mi consolai, perché premeami
di spedirmi. Ma oimé, ecco all’altr’uscio
torniam da capo: «Io non andrò, non voglio
raddoppiare il mio error: la cosa è giá
decisa; vada; io la prego; io la supplico».
Vedend’io che doveasi aver battaglia
ad ogn’uscio, adocchiai quanti ancor n’erano
e ristetti, perché ci vidi all’ultimo.
Ma in questo udiamo altri venir, lo avvisano
i servidori e ci arrestiam. Se n’entrano

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piú signori e ci fanno inchini e baie,

poi ci avviami verso l’ultima camera.
Come la frotta era cresciuta e aveansi
da replicar con questi le moine,
giunti vicino all’uscio, con piú forza
si arretran tutti e si allargano: i primi
dàn nei secondi. Eran tra gli altri due
giovani, l’un de’ quai nel dare addietro
pose a sorte la mano su la spada,
forse perché a qualcun non desse noia;
l’altro che ha bieca guardatura e faccia
di stordito e che dicono sia sempre
pien di sospetti, al veder ciò in un súbito
fa motto di sguainar la sua: il padrone
allora: — Ferma, alto lá! in casa mia? —
I servidor corrono via per ire
a prender armi, un d’essi in capo de la
scala rotola giú e sopra lui
l’altro; al rumor vien dentro chi passava
e dimanda che sia; un di coloro:
— I gentiluomin su sono alle mani. —
Quei corre fuor gridando: — Due o tre morti
son su la scala; — forse avranno dato
nella campana a martello. Ma io,
ridendo sempre come un matto, per la
gran premura che avea senza far motto
mi son partito.
Bruno.   O stravagante caso!
Non s’udí il simil mai. Or non bisogna
perder piú tempo; saran ragunati
a quest’ora, e non è di convenienza
ch’ella si faccia aspettare.
Grazio.   Oimé, questo
sí ch’è un passar dal ridicolo al serio.
V’andrò come la biscia va all’incanto.
Bruno.

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Bruno.   Io so ben, signor, qual è il motivo

che la rende restio, ma non si lasci
per un genietto stravolger la mente.
Orazio.   Né mi ci so condurre, e poi conviene
considerar anche altro. Dite un poco:
v’è usci in quella casa?
Bruno.   Come usci?
Orazio.   Dimando se v’è usci, porte.
Bruno.   Ma se
ci son camere, certo avranno l’uscio.
Orazio.   E ci saranno parenti, amici.
Bruno.   Al certo.
Orazio.   Non occor altro, io non vi voglio andare.
Bruno.   Eh! non perdiamo tempo.
Orazio.   Eh! insegnatemi
altro.
Bruno.   Ma le par mò tempo a proposito
per burlare? Vuol farsi por tra quelli
c’hanno il cervello sopra la beretta?
Orazio.   O sopra o sotto, io non vi voglio andare.
M’intendete?
Bruno.   Ben bene, ella vedrá
che disturbi, che strepiti; io vorrei
esser lontano di qua cento miglia.
Orazio.   Orsú tacete, che ho pensato meglio:
vi sarò; volet’altro?
Bruno.   Altro non voglio.
Vada tosto, io verrò fra poco, avendo
da portar prima cert’ordine a casa.

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SCENA VI

Leandro, Aurelia e Massimo,
poi Trespolo e Orazio.

Si apre l’orizonte e si vede una loggia della casa di Massimo.

Leandro.   Nulla c’è piú che dir; tutti i capitoli

son convenuti, altro non resta omai
che soserivere. Ognora che le parti
son condotte da stima vicendevole,
tosto ogni cosa s’accorda. E’ non fu
mai uom contento al mondo, com’io sono
di questo parentado.
Aurelia.   Ella mi fa
troppo grazia, signor Leandro; in me
troverá sempre una serva.
Leandro.   Anzi io voglio
che la sia d’ogni cosa unica e sola
padrona.
Aurelia.   Come tarda ancor lo sposo?
Leandro.   Non può far che non giunga; è di continuo
assediato da visite.
Massimo.   Senza esso
non si può far la festa.
Trespolo.   Oh oh, all’erta!
Aurelia.   Che c’è?
Trespolo.   Presto, si dá l’assalto, ah, ah!
Massimo.   Che hai, balordo? Che ridere è ’l tuo?
Trespolo.   La scalata...
Aurelia.   Che c’è? Che guardi giú?
Trespolo.   A casa nostra la scalata. Orazio...
Leandro.   Che c’è d’Orazio? È venuto?
Trespolo.   È venuto,

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ma per la porta di dietro ed ha chiesto

ove sono. Han risposto: su la loggia
per aver fresco; e come aveano ordine
di avvisar per venir tutti a incontrarlo
e condurlo a traverso delle stanze
su la medema. Allor gli ha trattenuti
e dimandato d’una scala a mano.
Credevano volesse ir sul fenile a
fare un sonno, ma l’ha fatta appoggiare
alla loggia e si è messo a salire
per essa. Eccolo, ah! ah!
Orazio.   Servo di loro
signori.
Leandro.   Oimé, quali pazzie son queste!
Orazio.   Sapendo che a venir per via ordinaria
conveniva passar per molti usci,
che in sí fatte occasioni sono ardui
e perigliosi passi, i’ ho creduto
di risparmiare a tutti molto incomodo,
venendo in questa forma.
Massimo.   A quel ch’io veggo,
nipote mia, questo è un matto solenne.
Io non voglio però darvi ad un matto;
vada egli in casa di matti par suoi
a cercar moglie.
Aurelia.   È ancor ragazzo, può
esser brio dell’etá; non è da rompere
cosí in un súbito del tutto.
Massimo.   Vi dico
che non vo’ di piú. Signor Leandro,
priegovi non avere a mal, s’io muto
pensier; non mancheran miglior partiti
a vostro figlio, ma Aurelia non è
piú per lui.
Leandro.   Ben ti sta, meriti peggio,
il mio pazzo: questa ora è l’allegrezza

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e ’l frutto che mi rendi dell’averti

con tanta spesa mantenuto fuori.
Orazio.   Signor padre, ora il veggo, ho fatto male;
ma mi hanno detto che gli usci eran cinque:
Se si trattava d’uno o due, io veniva
liberamente; ma eran cinque, cinque,
ci volea fin dimani.
Leandro.   Tosto levati
di qua.
Orazio.   Ubbidisco. — Non potea sortirmi
con esito piú fausto.
Leandro.   Amico, fatemi
grazia ch’entriamo in una stanza, essendo
che qui l’aria ora spira un po’ troppo,
tanto ch’io possa discorrervi alquanto.
Massimo.   Facciam come vi par, ma sará inutile.