Le Mille ed una Notti/Storia di Zobeide
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA DI ZOBEIDE
«Commendatore de’ credenti,» disse ella, «la storia che m’accingo a narrare a vostra maestà è delle più sorprendenti di cui si sia mai udito parlare. Le due cagne nere ed io siamo tre sorelle nate dai medesimi genitori, e vi dirò per quale strano caso siano state cangiate in bestie. Le due dame qui presenti, che meco dimorano, sono anche esse mie sorelle dello stesso padre, ma di un’altra madre: quella col seno coperto di cicatrici si chiama Amina, Safia l’altra ed io Zobeide.
«Dopo la morte di nostro padre, le sostanze che da lui ereditammo furono ripartite tra noi, e quando le mie due ultime sorelle ebbero ricevuta la loro porzione, si separarono, ed andarono ad abitare con la loro madre. Le mie due altre sorelle ed io restammo con la nostra che viveva ancora, e la quale, morendo, ci lasciò mille zecchini ciascuna.
«Le due mie maggiori poi si maritarono, e seguiti i loro sposi, mi lasciarono sola. Poco tempo dopo le nozze, il marito della prima vendette quanto possedeva, e col denaro ricavatene e con la dote della sorella, passarono ambedue in Africa. Ivi il marito scialacquò in istravizzi tutto il suo avere, e quello pure di mia sorella, e vedendosi ridotto all’ultima miseria, trovò un pretesto per ripudiarla e la scacciò.
«Tornò essa a Bagdad, non senza aver sofferto incredibili patimenti in quel lungo viaggio, e venne a cercar ricovero da me in uno stato sì degno di pietà, che ne avrebbe ispirato anche ai cuori più induriti. Io la ricevetti con tutto l’affetto che poteva attendere da me, e chiestole perché dovessi rivederla in sì misera condizione, narrommi essa, piangendo, la mala condotta del marito e l’indegno trattamento sofferto; fui commossa di tanto infortunio, e ne piansi con lei. La feci quindi entrare nel bagno, la vestii de’ propri miei abiti, e le dissi: — Sorella, voi siete mia maggiore, e vi riguardo come madre. Durante la vostra assenza, il cielo ha benedetto la tenue sostanza che m’è toccata, e la impiegò utilmente ad allevare bachi da seta. Disponete adunque senza complimenti di quanto posseggo, e non fatemi il dispiacere di ricusare.
«Convenute così, vivemmo insieme per parecchi anni in buon’armonia, e siccome parlavamo sovente della nostra terza sorella, ed eravamo maravigliate di non sentirne notizie, giunse anch’essa nel medesimo misero stato dell’altra. Il marito avevala trattata nella stessa guisa, ed io la ricevetti colla medesima amicizia.
«Alcun tempo dopo, le mie due sorelle, sotto pretesto d’essermi di peso, mi dissero d’aver pensato a rimaritarsi; risposi che se non avevano altre più importanti ragioni, potevano continuare a restar tranquillamente con me; che le mie rendite bastavano a mantenerci tutte e tre in modo conforme alla nostra condizione. — Ma,» soggiunsi, «temo che abbiate una vera voglia di rimaritarvi. In tal caso, vi confesso che ne sarei al sommo sorpresa. Dopo l’esperimento che faceste del matrimonio, potreste pensarci una seconda volta? Sapete quanto sia raro trovare un marito galantuomo. Credete a me; continuiamo a vivere insieme il meglio che potremo.
«Ogni mio detto fu vano. Volevano rimaritarsi, e si rimaritarono. Ma, scorsi alcuni mesi, tornarono a trovarmi, e mi fecero mille scuse per non aver seguito il mio consiglio. — Voi siete minore,» dissero, «ma molto più saggia di noi. Se volete riceverci ancora in casa vostra; e riguardarci come vostre schiave, vi protestiamo di non far più sì grande sproposito. — Mie care sorelle,» io risposi, «non ho cangiato sentimenti, a vostro riguardo dopo la nostra ultima separazione; tornate, e godete con me di quanto posseggo.» Le abbracciai, e restammo insieme come prima.
«Era un anno che vivevamo in perfetta unione, e vedendo che Dio aveva benedetto il mio piccolo capitale, pensai d’intraprendere un viaggio per mare, tentando la fortuna nel commercio. A tal uopo mi recai colle sorelle a Bassora, ove comperai un vascello equipaggiato, che caricai di merci venute da Bagdad. Sciogliemmo le vele con vento favorevole, ed uscimmo in breve dal golfo Persico. Giunti in alto mare, veleggiammo verso le Indie, e dopo venti giorni di navigazione, scoprimmo terra. Era un monte altissimo, alla cui base scorgevasi una città di bell’apparenza; giunti di buon’ora in porto col favore d’un forte venticello, gettammo l’ancora.
«Non ebbi pazienza di aspettare che le mie sorelle fossero in grado di accompagnarmi, e sbarcata sola, andai tosto alla porta della città. Vidi colà, numerose guardie sedute, ed altre che stavano in piedi con un bastone in mano; ma avevano tutte sì orrido aspetto, che ne fui spaventata. Notando però ch’erano immobili, e che non giravano neppur gli occhi, mi rassicurai; avvicinatami, conobbi ch’erano impietrite.
«Entrai nella città, e passai per varie contrade, in cui eranvi di tanto in tanto uomini in tutte le sorta di atteggiamenti, ma tutti senza moto ed impietriti. Nel quartiere de’ mercanti, trovai chiusa la maggior parte delle botteghe, ed in quelle ch’erano aperte, vidi pure persone petrificate. Volsi l’occhio ai camini, e non vedendo uscirne fumo, giudicai che quanto si trovava nelle case, come ciò che ne stava fuori, tutto fosse cangiato in pietra.
«Giunta in una vasta piazza in mezzo alla città, scoprii una gran porta coperta di lamine d’oro, e colle imposte spalancate. Una portiera di stoffa di seta pareva tirata dinanzi, e vedevasi una lampada sospesa al disopra. Considerando l’edificio, mi convinsi che era il palazzo del principe regnante nel paese; e, maravigliata di non aver incontrata persona viva, andai sin là nella speranza di trovarne qualcuno. Alzai la portiera, e con aumento di stupore, non vidi sotto l’atrio che alcuni portieri e guardie impietrite, taluni in piedi, altri seduti o semisdraiati.
«Traversai un cortile pieno di gente; sembrava che questi andassero, quelli venissero, eppure nessuno movevasi dal posto, essendo impietriti come quelli da me veduti. Passai in un secondo cortile, indi in un terzo, ma dovunque era perfetta solitudine, spaventoso silenzio.
«Avanzatami in un quarto cortile, vidi rimpetto un bellissimo edificio, le cui finestre erano chiuse con una grata d’oro massiccio, e giudicandolo l’appartamento deila regina, entrai. In una gran sala eranvi vari eunuchi neri impietriti. Passati quindi in una camera sfarzosamente addobbata, dove scorsi una dama cangiata anch’essa in pietra, la quale conobbi essere la regina, da una corona d’oro che portava in capo, e da una collana di perle rotonde e più grosse di nocciuole. Esaminai quegli ornamenti davvicino, e mi parvero cosa stupenda. Ammirai per qualche tempo le ricchezze e la magnificenza di quella camera, e sopra tutto il tappeto ond’era coperto il suolo, i cuscini ed il sofà di stoffa delle Indie a fondo d’oro con figurine d’uomini e d’animali in argento di squisito lavoro....»
Avrebbe Scheherazade cominciato a parlare, ma la luce del giorno venne a por termine alla sua narrazione. Il sultano, stupito da quel racconto: — Bisogna,» disse, alzandosi, «che sappia come finirà questa maravigliosa purificazione di tanta gente.»
NOTTE LXIV
Dinarzade, allettata oltremodo dal principio della storia di Zobeide, non mancò di chiamare la sultana prima di giorno, pregandola a proseguire. — Ecco,» cominciò Scheherazade, «come la dama continuò a raccontare la sua storia al califfo:
«Sire,» diss’ella, dalla camera della regina impietrita passai in vari appartamenti e gabinetti magnifici, che mi condussero in una camera di straordinaria grandezza, ov’era un trono d’oro massiccio, alto di pochi gradini, ed adorno di grossi smeraldi incastonati, e sul trono un letto di ricchissima stoffa, sulla quale risplendeva un ricamo di perle. La cosa che però mi sorprese più di tutto, in una luce vivissima che irradiava dal letto. Curiosa di saperne l’origine, vi salii, ed avanzando la testa, vidi sopra uno sgabelletto un diamante grosso, come un uovo di struzzo, e sì perfetto, che non vi potei notare difetto alcuno: brillava poi in modo che non poteva sostenerne lo splendore, guardandolo alla luce del sole.
«Stava al capezzale del letto, dall’uno e dall’altro lato, una fiaccola accesa, di cui non seppi comprendere l’uso. Nondimeno, questa circostanza mi fe’ giudicare che vi fosse qualche persona viva in quel superbo palagio, non potendo credere che quelle faci si mantenessero accese da sè. Parecchie altre singolarità mi fermarono in questa camera, cui il solo diamante, ond’ho parlato, rendeva inestimabile.
«Siccome tutte le porte erano aperte o semplicemente socchiuse, percorsi altri appartamenti ancora, tutti belli quanto i già veduti, ed andai fino alle dispense ed alle guardarobe, che trovai piene di ricchezze infinite, occupandomi tanto di tutte quelle maraviglie, che dimenticai fin me medesima. Non pensava più nè al vascello, nè alle sorelle: non pensava che a soddisfare la mia curiosità. Intanto calò la notte, ed avvistami esser tempo di ritirarsi, volli ricalcare la via dei cortili per cui ora venuta, ma non mi fu agevole rinvenirla. Mi smarrii per gli appartamenti, e trovandomi nella gran sala, ov’erano il trono, il letto, il grosso diamante e le fiaccole accese, risolsi di passarvi la notte, differendo all’indomani di buon mattino a raggiungere il mio bastimento. Mi gettai dunque sul letto, non senza qualche spavento di vedermi sola in luogo sì deserto, e fu senza dubbio quel timore che mi vietò di dormire.
«Era circa mezzanotte, quando udii la voce d’un uomo che leggeva il Corano nella stessa guisa e coll’accento che noi usiamo leggerlo nelle nostre moschee. N’ebbi molta allegrezza, ed alzatami tosto, e presa una torcia, passai di stanza in istanza dal lato ove sentiva la voce. Mi fermai alla porta di un gabinetto, d’onde mi sembrò che partisse, posi in terra la torcia, e guardando da una fessura, parvemi fosse un oratorio. In fatti, eravi, come ne’ nostri templi, una nicchia indicante ove si dovesse volgersi per fare la preghiera, molte lampade accese, e due candelabri con grossi ceri bianchi pur accesi.
«Vidi anche un piccolo tappeto disteso, della forma di quelli che noi usiamo per inginocchiarci a pregare. Un giovine di bell’aspetto, seduto su quel tappeto, recitava con attenzione il Corano spiegato a lui dinanzi sur un piccolo leggio. A tal vista, piena di ammirazione, cercava fra me come mai potesse colui essere il solo vivente in una città in cui tutti erano impietriti, e non dubitai non fosse per qualche cosa di straordinario.
«Essendo la porta socchiusa, l’apersi, entrai, e fermatami in piedi davanti alla nicchia, feci ad alta voce questa preghiera: «Lode a Dio che ci ha favoriti d’una prospera navigazione! Che ci faccia la grazia di proteggercì egualmente fino al nostro ritorno in patria. Ascoltatemi, o Signore, ed esaudite la mia preghiera.» Volse il giovine gli occhi su me e disse: — Mia buona signora, vi prego dirmi chi siete e che cosa v’abbia condotto in questa desolata città. In contraccambio vi dirò chi sono, cosa m’è accaduto, per qual motivo gli abitanti di questa città sono ridotti alla condizione in cui li vedeste, e perchè io solo sia sano e salvo in sì tremendo disastro.
«Gli narrai in brevi parole d’onde veniva, lo scopo del mio viaggio, ed in qual maniera era felicemente approdata dopo una navigazione di venti giorni. Terminando, lo supplicai di adempire anch’egli alla promessa fatta, e gli attestai il mio terrore alla vista della spaventevole desolazione che ovunque regnava. — Signora,» disse allora il giovane, «abbiate un momento di sofferenza;» e chiuso l’Alcorano, lo pose in un prezioso astuccio, e lo collocò nella nicchia. Io approfittai di quel tempo per considerarlo attentamente, e gli trovai tanta grazia e leggiadria, che mi fecero un’impressione fin allora al tutto ignota. Mi fe’ sedere vicino a sè, e prima di cominciare il suo discorso, non potei trattenermi dal dirgli con accento che ben gli palesò i sentimenti che mi aveva ispirati: — Amabile signore, caro oggetto dell’anima mia, non si può aspettare con maggior impazienza gli schiarimenti delle tante maraviglie che m’hanno colpito fino dal mio primo ingresso in questa città; nè la mia curiosità saprebbe essere presto soddisfatta. Parlate, ve ne scongiuro, ditemi per qual miracolo voi solo siete vivo tra tante persone morte in modo sì inaudito....»
Scheherazade s’interruppe a questo passo, e disse a Schahriar: — Sire, vostra maestà forse non s’ avvede che è giorno. Se continuassi a parlare, abuserei della vostra sofferenza.» Il sultano si alzò, risoluto di udire, nella successiva notte, la continuazione di storia sì maravigliosa.
NOTTE LXV
Il dì dopo, prima dell’alba, Dinarzade pregò la sorella di ripigliare la storia di Zobeide e raccontare che cosa accadde fra essa ed il giovine da lei trovato nel palazzo onde aveva tessuta sì bella descrizione. — Eccomi a compiacerti,» rispose la Sultana; «Zobeide proseguì di tal guisa la sua storia:
— Signora,» mi disse il giovane, «voi mi faceste abbastanza comprendere che avete la nozione del vero Dio colla preghiera che testè gli volgeste. Ora udirete un luminoso effetto della grandezza e della potenza sua. Vi dirò pertanto che questa città era la capitale di una possente monarchia, di cui il re mio padre portava il nome. Questo principe, tutta la sua corte, gli abitanti della città, e tutti gli altri suoi sudditi erano magi, adoratori del fuoco e di Nardun, antico re dei giganti ribelli a Dio.
«Benchè nato di genitori idolatri, ebbi la fortuna d’aver per aia nella mia infanzia una buona dama musulmana che sapeva a memoria il Corano, e lo spiegava ottimamente. — Principe,» diceva essa, «non c’è che un Dio vero. Guardatevi dal riconoscerne ed adorarne altri. «M’insegnò ella un dì a leggere in arabo, ed il libro che mi pose in mano per esercitarmi fu il Corano. Appena fui capace di ragione, essa mi spiegò tutti i punti di quel divino libro, e me ne inspirò tutto lo spirito all’insaputa di mio padre e d’ogni altro. Morì costei dopo avermi dato tutte le necessarie istruzioni ond’essere appieno convinto delle verità della religione musulmana. Dopo la sua morte persistetti sempre nei sentimenti da lei insegnatimi, ed ebbi in orrore il falso Nardun o l’adorazione del fuoco.
«Tre anni ed alcuni mesi sono tuonò d’improvviso una voce clamorosa per tutta la città, sì distinta che niuno perde sillaba delle parole che pronunziò: Abitanti, abbandonate il culto di Nardun e del fuoco. Adorate il Dio unico misericordioso.
«La medesima voce fu udita tre anni di seguito; ma nessuno essendosi convertito, l’ultimo giorno del terzo, a tre o quattro ore del mattino, tutti gli abitanti furono cangiati in un attimo in pietra, ciascuno nello stato e positura in cui si trovava. Provò il re mio padre la medesima sorte: ei fu trasformato in una pietra nera, come lo si può vedere nel suo appartamento in questo palazzo, e simil sorte ebbe la regina mia madre.
«Io sono il solo su cui Iddio non fece piombare il terribile castigo, e da quel tempo continuo a servirlo con maggior fervore, e sono persuaso, bella signora, ch’ei v’abbia mandato per mia consolazione; gliene rendo adunque grazie infinite, poichè vi confesso che questa solitudine mi dà molta noia.
«Tutto cotesto racconto, e specialmente le ultime parole, finirono di accendermi per lui. — Principe,» gli dissi, «non v’ha da dubitarne; è la Provvidenza che mi condusse nel vostro porto per presentarmi l’occasione di allontanarvi da sì funesto luogo. Il vascello sul quale sono venuta, vi comproverà che godo di qualche considerazione a Bagdad, ove lasciai il resto delle mie sostanze. Oso offrirvi colà un ritiro, finchè il possente commendatore dei credenti, il vicario del profeta che voi riconoscete, vi abbia resi gli onori che meritate. Quel celebre principe dimora a Bagdad, ed appena sarà informato del vostro arrivo nella sua capitale, vi farà conoscere non implorarsi mai invano il suo appoggio. Non dovete più oltre dimorare in una città, ove tutti gli oggetti devono esservi insopportabili alla vista. La mia nave è a vostra disposizione, e potete usarne liberamente.» Accettò egli l’offerta, e passammo il resto della notte a discorrere del nostro imbarco.
«Comparso il giorno, uscimmo dal palazzo, e recatici al porto, vi trovai le mie sorelle, il capitano ed i miei schiavi in grande ansietà per me. Presentato il principe alle sorelle, raccontai loro ciò che avevami impedito di tornare al vascello il giorno precedente, l’incontro del principe, la sua storia ed il motivo della desolazione di sì bella città.
«Impiegarono i marinai vari giorni a sbarcare le nostre mercanzie, ed imbarcare in loro vece quanto di più prezioso conteneva il palazzo sì in gioie, che in oro ed argento. Lasciammo i mobili ed un’infinità di lavori di oreficeria, non potendoli portar via per mancanza di mezzi di trasporto, tant’erano le ricchezze che avevamo sott’occhio.
«Caricato a sufficienza il vascello, prendemmo acqua bastante pel nostro viaggio. Quanto alle provvisioni, ce ne restavano ancor molte di quelle da noi imbarcate a Bassora. Finalmente salpammo con un vento favorevole.»
Qui Scheherazade, vedendo spuntar il giorno, cessò di parlare; il sultano si alzò senza aprir labbro, ma si propose di udire la fine della storia di Zobeide e del giovane principe, sì miracolosamente salvato.
NOTTE LXVI
Verso la fine della notte successiva, Dinarzade, impaziente di sapere l’esito della navigazione di Zobeide, s’affrettò a destare la sultana, la quale così parlò: — Zobeide ripigliò così la sua storia, sempre rivolgendosi al califfo:
«Sire,» disse, «il giovine principe, le mie sorelle ed io conversavamo tutti i giorni gradevolmente; ma, oimè! la nostra unione non fu di lunga durata; le mie sorelle s’ingelosirono della buona intelligenza che correva fra me e quel principe, e mi chiesero un giorno maliziosamente che cosa pensavamo fare di lui giunte che fossimo a Bagdad. Ben m’avvidi che non mi facevano questa interrogazione se non per discoprire i miei sentimenti. Laonde fingendo di volgere la cosa in celia, risposi loro che lo avrei sposato; poscia, dirigendomi al giovane, gli dissi: Principe, vi supplico di accettare. Quando saremo a Bagdad, è mia intenzione di offrirvi tutta me stessa come vostra umilissima schiava, per servirvi e riconoscervi assoluto padrone della mia volontà. — Signora,» rispose il principe, «non so se scherzate; ma per me vi dichiaro sul serio, davanti alle vostre sorelle, che da questo momento accetto di buon cuore tale offerta, non già per tenervi come schiava, ma come mia dama e signora, e non pretendo di aver alcun impero sulle vostre azioni.» Cangiarono le mie sorelle di colore a tali parole, e notai che dopo quel tempo esse non ebbero più gli stessi sentimenti per me.
«Eravamo allora nel golfo Persico, e ci avvicinavamo a Bassora, dove, col prospero vento che spirava, speravamo di giungere il giorno dopo. Ma la notte, mentre io dormiva, le mie sorelle, approfittando delle circostanza, mi gettarono in mare, e trattarono nella stessa guisa il principe, che rimase annegato. Mi sostenni alcuni momenti a galla, e, per fortuna o piuttosto per miracolo, trovai fondo. M’inoltrai verso una macchia nera che mi pareva terra, per quanto l’ oscurità lasciavami distinguere. In fatti, afferrai una spiaggia, ed il giorno mi fe’ conoscere di trovarmi sur un’isoletta deserta, situata a circa venti miglia da Bassora. Fatte asciugare al sole le vesti, e camminando, notai parecchie specie di frutta ed anche una sorgente, talchè ebbi qualche speranza di sostentare la vita.
«Mi riposava all’ombra, quando vidi un serpente alato grossissimo ed assai lungo, che s’inoltrava alla mia volta dimenandosi a destra ed a sinistra, e sporgendo la lingua; pensai che qualche male lo stringesse. Mi alzai, e scorgendolo seguito da un altro serpente più grosso che lo teneva allertato per la coda, e faceva sforzi per divorarlo, n’ebbi pietà. In vece di fuggire, ebbi il coraggio di dar di piglio ad un sasso che mi trovai per caso vicino, e scagliatolo con quanta forza aveva contro il serpente più grosso, lo colpii nella testa, e lo schiacciai. L’altro, sentendosi in libertà, aprì tosto le ali e volò via; io stetti a guardarlo molto tempo in aria come cosa strana, ma perdutolo di vista, tornai a sedere all’ombra in un altro sito, e m’addormeutai.
«Nel destarmi, figuratevi la mia sorpresa al vedermi vicino una donna negra di belli e simpatici lineamenti, che teneva al guinzaglio due cagne del medesimo colore. Mi alzai, e le chiesi chi fosse. — Sono,» rispose, «il serpente che poco fa liberaste dal suo implacabile nemico. Credetti non poter meglio ricompensare sì importante servigio quanto coll’azione che feci. Ho saputo il tradimento delle vostre sorelle, e per vendicarvi, appena mi trovai libera pel vostro generoso aiuto, chiamai parecchie mie compagne, che sono fate al par di me; abbiamo trasportato il carico della nave nei vostri magazzini di Bagdad, poi la sommergemmo. Queste cagne nere sono le vostre due sorelle da me trasformate in codesta guisa. Tale castigo però non parmi sufficiente, e voglio che le trattiate ancora come sono per dirvi.
«A tali parole la fata mi strinse con un braccio, coll’altro afferrò le due cagna, e ci trasportò a casa mia a Bagdad, ove nel mio magazzino vidi tutte le ricchezze ond’era carico il vascello. Prima di lasciarmi, mi consegnò le due cagne, e dissemi: — Sotto pena di venire com’esse convertita in cagna, vi ordino da parte di Colui che confonde i mari, di dare ogni notte cento frustate a ciascuna delle vostre sorelle, per punirle del misfatto commesso contro la vostra persona e contro il principe che hanno annegato.» Fui costretta a prometterle di eseguire i suoi ordini.
«Dopo quel tempo, le trattai ogni notte, con gran dolore, nella maniera di cui vostra maestà fu testimonio. Dimostro loro col mio pianto il dispiacere e la ripugnanza ad adempire dovere sì crudele; e voi ben vedete che io sono più da compiangere che da biasimare. Se avvi qualche cosa che mi riguardi, di cui bramaste essere informato, mia sorella Amina ve ne darà schiarimento col racconto della sua storia.
«Ascoltata con maraviglia Zobeide, il califfo fece dal suo gran visir pregare Amina a volergli spiegare perchè avesse il seno coperto di cicatrici...
— Ma, sire,» disse Scheherazade a questo passo, «è giorno, e non devo più oltre trattenere vostra maestà.» Schahriar, persuaso che la storia cui aveva la sultana a raccontare sarebbe lo scioglimento delle precedenti, disse tra sè: — È duopo ch’io goda tal piacere per intero:» ed alzatosi, risolse di lasciar vivere Scheherazade ancora quel giorno.
NOTTE LXVII
— Sire,» disse Scheherazade la sessantesimasettima notte al sultano delle Indie, «Amina, voigendosi al califfo, cominciò la sua storia in questi sensi: