Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/238


218

chezze infinite, occupandomi tanto di tutte quelle maraviglie, che dimenticai fin me medesima. Non pensava più nè al vascello, nè alle sorelle: non pensava che a soddisfare la mia curiosità. Intanto calò la notte, ed avvistami esser tempo di ritirarsi, volli ricalcare la via dei cortili per cui ora venuta, ma non mi fu agevole rinvenirla. Mi smarrii per gli appartamenti, e trovandomi nella gran sala, ov’erano il trono, il letto, il grosso diamante e le fiaccole accese, risolsi di passarvi la notte, differendo all’indomani di buon mattino a raggiungere il mio bastimento. Mi gettai dunque sul letto, non senza qualche spavento di vedermi sola in luogo sì deserto, e fu senza dubbio quel timore che mi vietò di dormire.

«Era circa mezzanotte, quando udii la voce d’un uomo che leggeva il Corano nella stessa guisa e coll’accento che noi usiamo leggerlo nelle nostre moschee. N’ebbi molta allegrezza, ed alzatami tosto, e presa una torcia, passai di stanza in istanza dal lato ove sentiva la voce. Mi fermai alla porta di un gabinetto, d’onde mi sembrò che partisse, posi in terra la torcia, e guardando da una fessura, parvemi fosse un oratorio. In fatti, eravi, come ne’ nostri templi, una nicchia indicante ove si dovesse volgersi per fare la preghiera, molte lampade accese, e due candelabri con grossi ceri bianchi pur accesi.

«Vidi anche un piccolo tappeto disteso, della forma di quelli che noi usiamo per inginocchiarci a pregare. Un giovine di bell’aspetto, seduto su quel tappeto, recitava con attenzione il Corano spiegato a lui dinanzi sur un piccolo leggio. A tal vista, piena di ammirazione, cercava fra me come mai potesse colui essere il solo vivente in una città in cui tutti erano impietriti, e non dubitai non fosse per qualche cosa di straordinario.

«Essendo la porta socchiusa, l’apersi, entrai, e fer-