Le Mille ed una Notti/Storia di Sittal-Badur e d'Ibn-al-Mansur
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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NOTTE DCI
STORIA
DI SITTAL-BADUR E D’IBN-AL-MANSUR.
— Il califfo Aaron-al-Raschild andava soggetto a frequenti veglie. Trovandosi una notte tormentato più del solito, voltavasi ora da un lato, or dall’altro, per cercare di addormentarsi, ma invano. Alla fine, fatto chiamare Mesrur, capo degli eunuchi, lo pregò di suggerirgli qualche mezzo di raddolcire la stato di patimento nel quale si trovava. — Vorrebbe vostra maestà venire in giardino?» chiese Mesrur; «la notte è bella: contempleremo le stelle, e la luna che s’inoltra tacita in mezzo all’immensità dei cieli. M’annoia, Mesrur,» disse il califfo. — Commendatore dei credenti,» ripigliò questi, «sono nel vostro palagio tre schiave, ciascuna delle quali abita in un appartamento particolare, ed in ciascuna camera trovasi un gabinetto segreto, d’onde potrete vederle senza essere veduto. — Mesrur,» rispose il califfo, «non parlarmi di palazzo, nè di schiave; tutto mi annoia. — Or bene, o sire,» tornò a dire Mesrur, «fate venire i vostri baffoni, i soliti vostri commensali, od i vostri poeti, che v’improvvisino qualche gradevole canto. — Mesrur,» sclamò il califfo, «tutto ciò non è atto che ad accrescermi la noia. — Ecco, Commendatore dei credenti, ciò che mi resta ancora a proporvi: fatemi mozzare la testa.» Quell’idea fe’ ridere il califfo. — Va,» disse poi a Mesrur, «a vedere quale de’ miei ospiti si trovi in anticamera.» Mesrur tornò a riferire che v’era Ibn-al-Mansur di Damasco, — Fallo entrare,» riprese Aaron. «Raccontami qualche cosa,» disse quindi, volgendosi al nuovo venuto. — Prestatemi la vostra attenzione, Commendatore de’ credenti,» rispose quegli. — Or via» disse il califfo, «attendo e l’ascolto.» Allora Ibnal-Mansur cominciò nel modo seguente il suo racconto:
«— Io mi trasferiva una volta all’anno a Basra 1 per fare la mia corte al vicerè di quella città, Ali Mohammed, figlio di Solimano lo Hascemita. Un giorno che recavami da lui, secondo il solito, quel principe stava per salire a cavallo onde andar a caccia, e mi pregò di accompagnarlo. Ricusai il suo invito, essendo pessimo cavaliere. Allora il vicerè mi fece condurre nella sala dedicata alle feste, e comandò agli ufficiali della sua casa di prender cura di me sino al di lui ritorno. — È cosa maravigliosa,» dissi fra me, «ch’io, il quale sono sì spesso venuto a Basra, non conosca ancora questo palazzo e questi giardini. Farò bene ad approfittar del presente istante d’ozio per passeggiare la città» Mi vestii adunque il meglio possibile, e mi misi a percorrere le vie. Ne passai circa settanta, tutte lunghissime, sinchè in fine mi venne una sete ardente, Mi trovava precisamente in faccia all’ingresso d’una gran casa, nascosto da una portiera di seta rossa. A ciascun lato vedevasi una panca di marmo, ed una vite ombreggiava la porta. Udii quindi una voce lamentevole cantare sur un’aria melanconica codeste parole:
««Il mio corpo è divenuto l’asilo del dolore dacchè mi abbandonò la mia gazella. O zeffiro! refrigera il mio seno ardente! o Dio! deh! mandami qualche riposo.
««Io non era colpevole, nè infedele; il mio cuore non palpitava per un altro: un sol sorriso, una sola parola innocente m’ha rapito l’amor suo.
««Il sonno fugge le mie palpebre; gli occhi miei sono innondati di lagrime.
««Più non v’hanno per me che patimenti. O occhi miei, che vi attiraste lo sfavore del mio diletto, una parola a me ignota ve l’ha attirato.»»
«Tai detti eccitarono la mia curiosità, e volti vedere se uscivano da bel labbro. Mi accostai alla porta, sollevai alquanto la cortina, e vidi una donna di straordinaria bellezza. Il volto erano brillante come la luna, gli occhi dolci e languidi come quelli della gazella, le ciglia nere qual ebano, il seno somigliava a due melagrani 2, aveva il collo d’una colomba, le labbra di rubino, denti di perle, la bocca come l’anello di Salomone. I giardini del paradiso, come dice un poeta, potevano invidiarla a’ mortali, e la luna seguire le sue orme.
«Appena m’ebbe scorto, ordinò ad una schiava di venir a vedere chi fosse alla porta. La donna si avvicinò e disse: — Non vi vergognate, sceik, di penetrare sin qui? — Osservate,» le risposi, «osservate i miei capelli bianchi, e non conserverete più verun sospetto intorno alla mia visita. — V’ha cosa più incivile,» gridò la dama, «di fermarsi con tale impudenza alla porta d’un serraglio? — Perdonate,» le dissi, «e degnatevi d’ascoltare la mia giustificazione; io stava per morir di sete. — È un’altra cosa,» ripigliò ella, «e questa scusa mi basta!» Nello stesso tempo ordinò di portarmi da bere. Una schiava presentommi allora un sorbetto col muschio entro un vaso d’oro adorno di perle e diamanti, e mi diede in pari tempo una salvietta per asciugar la bocca. Io bevvi a lunghi sorsi, e finito ch’ebbi, la signora mi disse: — Andatevene, sceik. — Sono immerso in profonde riflessioni,» risposi. - E a che cosa dunque pensate? — Penso alla distruzione ed al mutamento, che sono i frutti del tempo. — Come vi son venute queste idee? — Pensando al padrone di questa casa. Un tempo apparteneva al mio amico il gioielliere figliuolo di Alì, ch’era in grande prosperità. Ha egli lasciato figliuoli? — Sì, una figlia chiamata Badur. — Siete forse voi? — Indovinaste,» rispose la signora sorridendo; «ma, sceik, allontanatevi invece di farmi inutili domande. — Beh veggo che siete di cattivo umore,» ripigliai io; «ma tuttavia, concedetemi la grazia di narrarmi la cagione del vostro dolore; forse ch’io possa trovarvi rimedio. — Sceik,» diss’ella, «non ricuso di soddisfare alla vostra domanda; ma devo prima sapere chi siete. «— Signora,» ripresi, «eccomi a soddisfare alla vostra curiosità. Io sono Ibn-al-Mansur, ospite del Commendatore de’ credenti Aaron-al-Raschild.» Appena sentì il mio nome, ella si alzò e disse: — Siate il ben venuto, sceik Ibn-al-Mansur. — Signora,» soggiunsi, «avete tante attrattive e tanto merito, ch’è impossibile possiate amare alcuno che al vostro amore non corrisponda. — V’ingannate,» rispos’ella; «il mio diletto è Giabir, figliuolo di Aamir, emiro della tribù di Beni-Sceiban. È il più bel giovane di Basra. — Ha egli vissuto presso di voi? — Sì, noi ci amavamo, ed eravamo felici; nessun contratto, le nostre promesse sole, soli i nostri cuori ci univano. — E perchè vi divideste? — Udite: questa schiava colla quale fui allevata sin dalla più tenera infànzia, stava intrecciandomi un giorno i capelli, e lieta del modo con cui eravi riuscita, m’abbracciò per la gioia di vedermi una sì bella chioma. In tale istante, entrò il mio diletto, il quale, colto da improvvisa gelosia, mi volse queste parole: — M’è impossibile dividere con altri il mio amore per quella che amo. L’amore non rende felici se non quando è esclusivo.» A tai detti, si allontanò, nè l’ho più riveduto, e nemmeno udito a parlarne. — In che cosa, o signora,» le chiesi, «potrei esservi utile in questo affare? — Portandogli una lettera da parte mia. Se tornate senza risposta, vi darò cento zecchini; ma se me ne recherete una, potete calcolare su cinquecento. —
«E chiesto inchiostro e carta, scrisse un biglietto in versi all’incirca di questo tenore:
««Mio diletto, o tu che adoro! quanto tempo staremo ancora disgiunti? Il dolore sbandisce dalle mie palpebre il sonno e quando mi apparisci in sogno, non riconosco più i lineamenti da me una volta veduti. Te ne scongiuro pel nostro amore, deh! dimmi cosa può produrre i tuoi sospetti? Sei troppo ragionevole per non sapere che non si debbono prendere i discorsi alla lettera, poichè una parola sola è suscettibile di falsa interpretazione. Non si è, anche nelle sacre carte, presa una parola per un’altra? Non fu il virtuoso Giuseppe calunniato al padre? Non presta orecchio ai calunniatori, e torna a me. Qual giorno di festa sarà mai quello della nostra riconciliazione!»»
«Io mi recai con questa lettera alla dimora di Giabir, emiro de’ Beni-Sceiban e figlio di Aamir: era a caccia; l’attesi sino al ritorno. Quando lo vidi scendere di cavallo, stupii anch’io della beltà del giovane. Egli mi fece entrare e sedere, alla sua tavola, coperta di stoviglie del Korassan e d’una moltitudine di vivande d’ogni specie. Avendo per caso volto l’occhio sur una piastra rossa che stava rimpetto alla mensa, vi lessi l’iscrizione seguente:
««Le figlie del destino piangono, nè cessano di gemere, benchè questa tavola sia carica de’ più squisiti cibi. O anima mia, fa coraggio! non sarai sempre in preda al dolore, non sarai sempre immersa nella disperazione; conoscerai di nuovo il piacere, e voterai ancora il calice della felicità!»»
«— Io non gusterò alcuna delle vostre vivande,», dissi all’emiro, «se non mi avrete prima accordata la domanda che sono per farvi. — Vediamo cosa bramate,» rispose quello. — Che vi degniate,» ripresi, «ricevere questa lettera e farvi la risposta.» La lesse e la gettò per terra dicendo: — Domandatemi quanto vorrete, Ibn-Mansur, fuorchè di rispondere a colei che scrisse questo foglio.» Non esitai a dirgli che mi facea perdere quattrocento zecchini, negandomi una risposta. — Ebbene,» riprese, «se è questo solo, rimanete pochi altri giorni con me, e quando partirete, vi darò cinquecento zecchini. —
«Mi decisi dunque a restare. Passai lietamente tutta la sera a bere e discorrere, ma però senza udire una sola nota di musica, sicchè ne manifestai al giovane la mia maraviglia. — Il tempo,» rispose, «non è ancor opportuno alla musica; nondimeno, poichè la desiderate, ne avremo.» In pari tempo chiamò una schiava, comparsa la quale con un liuto entro un astuccio di raso, preludiò su ventun tuoni diversi, e tornando al primo, cantò accompagnandosi collo strumento ciò che segue:
««Chi non assaporò le delizie dell’amore, non sa cos’ei perde per l’assenza dell’oggetto amato.
««Chi non ebbe mai arso il cuore d’ardente fiamma, ignora le delizie ed i tormenti dell’amore.
««Continua fiamma arse mai sempre nel mio cuore, ma una sera mi son precipitato nell’abisso.
««Il destino ci ha divisi, e noi dobbiamo sottometterci a’ suoi decreti, però ch’egli è il signore della nostra esistenza.»»
«Appena la schiava ebbe finito di cantare, il giovane diè un alto grido e svenne. Or non vedi,» mi disse la schiava, «ch’egli aveva ragione di dire non esser tempo favorevole alla musica? Ritiratevi,» aggiunse; «il mio padrone non risenserà per tutta la notte. Ecco la vostra camera da letto.»
NOTTE DCII
— «La domane mattina, al momento di svegliarmi, uno schiavo negro mi portò una borsa di cinquecento zecchini, e disse che il suo padrone avevalo incaricato di ricevere i miei saluti. Benchè la mia ambasciata fosse riuscita vana, io non era però men costretto a tornare dalla dama che mi aveva mandato. La trovai che m’attendeva alla porta, e prima che avessi aperta bocca, mi fece il racconto di quanto erami accaduto la sera precedente presso il suo diletto. Bisogna dire che si trovassero in quella casa spie che l’avessero informata esattamente. — Com’è possibile,» dissi che sappiate sì bene ogni cosa? Direbbesi che mi accompagnaste. — Non sapete,» rispose, «che un poeta disse aver il cuore degli amanti occhi che veggono ciò che gli altri non possono?» Alzando poi le pupille al cielo: «Mio Dio,» sclamò, «tu che facesti nascere nel mio cuore l’amore, per Giabir, annientalo, te ne scongiuro! «Poscia mi diede cento zecchini, e preso congedo da lei, andai a far visita al vicerè, e feci ritorno a Bagdad.
«Tornato l’anno dopo a Basra, fui curioso di sapere la sorte de’ due amanti, e mi recai prima alla casa di Badur. Vidi alla porta un feretro e tutti i preparativi d’un funerale. — Ella dunque non è più!» dissi tra me; «la disperazione ne ha spezzato il cuore; ella non è più!» Di là recatomi al palazzo del giovane, lo trovai deserto e quasi cadente in ruina. Non eravi alla porta persona viva. — Bisogna dunque che anch’egli sia morto di dolore,» soggiunsi. In fine, scrissi sulla porta questi versi:
««O palagio! e voi, reliquie del suo splendore, che ne piangete la caduta!
««Dov’è colui che qui una volta ci riceveva con sì nobile e generosa amicizia?
««Passa, nè ti fermare, viandante: lungi sono gli amici.
««O Dio! non ci lascia dimenticare benefizi, dei quali esistono ancor le vestigia!»»
«Deplorava così la sorte degli abitanti di quel palazzo, un tempo sì magnifico, quando vidi comparire uno schiavo negro. — Piango,» gli dissi, «il mio amico Giabir; che cos’è di lui? — Ei vive ancora, rispose lo schiavo; «ma la sua esistenza non è che una lunga serie di tormenti, tanto violenta è la sua passione per Sillal-Badur!» Chiesi di vederlo, e dopo alcune difficoltà, il negro m’introdusse. Trovai il povero giovane disteso sul letto come una statua, e voltagli la parola, non n’ebbi risposta. — Signore,» mi disse lo schiavo, «se sapete compor versi, fatene uso, poichè il povero mio padrone non risponde se non quando gli si parla in versi.» Improvvisai allora questi:
«-«Trovasti tu il riposo, e rinunziasti all’amor tuo per Sittal Badur? oppure vuoi persistere nella tua passione?
««Se pensi morire nelle lagrime, sappi che hai tocco il colmo del delirio!»»
«Finito ch’io ebbi quei versi, il giovane domandò inchiostro e carta, e scrisse in risposta:
«-«Perdona, perdona, mia diletta! L’amor mio per te mi avea lasciato appena una scintilla di ragione.
««La mia passione mi aveva tratto nel più colpevole errore, e precipitato nell’abisso della disperazione.
««Quando feci naufragio in tanto mare, a Dio volsi per implorare la mia salvezza. ««Abbi pietà di me! dèh! rendimi l’amor tuo! muore il tuo amante dal desio di spirare fra le tue braccia.»»
«Mi recai con questa lettera al palazzo di Badur, ove la vidi più bella che mai, piena di vita e di salute. Il corteo funebre da me veduto alla porta, era per la schiava che aveva eccitato la gelosia di Giabir. Badur sorrise di gioia vedendomi comparire con una lettera, e tutta lieta che il suo diletto tornasse a gettarsi a’ suoi piedi, scrisse all’istante una risposta nella quale gli rimproverava gl’ingiusti sospetti. Se non che io, trovando quei rimproveri troppo violenti, negai di portare la lettera, e tanto feci ch’ella la lacerò, e ne scrisse un’altra. Era questa men aspra della precedente, ma la trovai ancor troppo forte per la situazione del povero mio amico; sicchè pregai Badur di sopprimere anche questa, ed ella ne scrisse una terza nella quale perdonava all’amante e l’assicurava della di lei tenerezza. Suggellatala, me la consegnò, e quando fui per uscire, mi favellò così: — Ditegli a viva voce che stasera spero riconciliarmi con lui. —
«Appena il giovane ebbe letta la risposta, che mandato un grido, cadde al suolo privo di sensi. — Ibn-Mansur,» mi disse tornando in sè, «ha scritto essa questa lettera di propria mano? — Io non sapeva,» risposi, «ch’ella scrivesse talvolta col piede.» E non avea finito tali parole, che Sittal-Badur giunse in persona a visitare l’infermo. Abbracciaronsi, e le loro bocche rimasero a lungo unite prima di poter formare un solo accento. Uscendo da quell’estasi, Giabir disse qualche cosa all’orecchio d’uno schiavo, e subito dopo vidi comparire il cadì con due testimoni, alla cui presenza fu stipulato il contratto di matrimonio, e Badur divise tra essi una borsa di mille zecchini ricevuta da suo padre. Io voleva andarmene onde permettere ai nuovi sposi d’abbandonarsi a tutta la loro tenerezza; ma essi mi costrinsero a passare la massima parte della notte seco loro, ed all’alba mi ritirai nella mia stanza.
«La mattina appresso, allorchè i giovani sposi furono usciti dal bagno, andai ad offrir loro i miei voti ed omaggi. Giabir mi regalò una borsa di mille zecchini: lo ringraziai. — Ma, se voleste farmi un piacere,» gli dissi, «favorite dirmi cosa ha potuto irritarvi a tal segno, e rendervi tanto infelice, parendomi adatto impossibile che quanto accadde alla toletta di Badur, com’essa raccontò, abbia eccitato talmente il vostro sdegno, se non avevate già sospetti. — Ammiro la vostra sagacia, Ibn-Mansur,» mi rispos’egli; «avete perfettamente indovinato, e vi racconterò la cosa senza mistero. L’origine della nostra malintelligenza proviene da uno scherzo narratomi da un battelliere di Sittal Badur, e che mi porse svantaggiosa idea di lei. Faceva ella un giorno una passeggiata sull’acqua con dieci sue schiave, fra le quali trovavasi la sua favorita morta testè. Questa, dopo aver preludiato su ventun tuoni, cantò, accompagnandosi col liuto, questi versi:
««Non sono gli uomini che corpi molli, ed i loro cuori sono duri come sassi,
««Quale singolar unione d’oggetti! cuori di pietra in corpi molli come l’acqua!»»
«Alzossi Badur piena d’ira, ordinò celiando alle schiave di lapidare la cantatrice, ed esse le scagliarono tante melarance, che ne fu quasi sommerso il battello. La sfrontatezza della schiava e quello scherzo mi spiacquero, e divennero per me l’origine di lunghi patimenti. —
«Qui Ibnal-Mansur terminò la sua storia, la quale produsse effetto si felice contro la veglia del califfo, che questo principe erasi già profondamente addormentato molto tempo prima che fosse finita.»
L’alba sorgeva, mentre Scheherazade finiva il racconto; la notte seguente ne cominciò un’altra di tal guisa:
- ↑ Basra o Balsora. Questa città, situata presso al confluente del Tigri e dell’Eufrate, fu fabbricata l’anno 16 dell’egira per ordine di Omar.
- ↑ Questo paragone ne ricorda un altro che trovasi nel poema di Gioseffo e Zuleika, di Giami, che si considera come la più bella opera dell’Oriente.
«I due globi del suo seno, simili a due cupole di luce, e i due globoli della fonte celeste di Kafur, sono come due pomi brillanti di freschezza, e che adornano un ramo, dove mai non giunse mano temeraria.