Le Mille ed una Notti/Secondo viaggio di Sindbad il navigatore
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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SECONDO VIAGGIO DI SINDBAD IL NAVIGATORE.
«Aveva risoluto, dopo il mio viaggio, di passare tranquillamente il resto de’ miei giorni a Bagdad, com’ebbi l’onore di dirvi ieri. Ma non istetti molto ad annoiarmi della vita oziosa; mi tornò la voglia di viaggiare e negoziar per mare, ed acquistate merci atte al traffico che meditava, partii una seconda volta con altri mercanti di nota probità. C’imbarcammo sur un buon naviglio, e raccomandatici al cielo, spiegammo le vele.
«Andavamo d’isola in isola, facendovi vantaggiosi cambi. Un giorno, sbarcammo sur una di esse coperta di parecchie sorta di piante fruttifere, ma sì deserta che non vi scoprimmo orma di abitazione nè di gente. Andammo dunque a prender aria nei prati, e lungo i ruscelli che l’irrigavano.
«Mentre taluni divertivansi a coglier fiori, ed altri frutti, io presi le mie provvisioni e il vino che aveva recato, e mi posi a sedere presso una sorgente, in mezzo a fronzuti alberi che formavano gratissima ombra. Fatta colà una buona refezione, mi sdraiai al suolo e m’addormentai. Non vi dirò quanto tempo dormii; ma al destarmi, più non vidi il naviglio all’áncora..»
Qui Scheherazade, vedendo albeggiare, fu obbligata ad interrompere il racconto; ma la notte seguente continuò di tal maniera il secondo viaggio di Sindbad:
NOTTE LXXIII
— «Fui mai sorpreso,» disse Sindbad, «di non veder più il vascello; alzatomi, guardai da tutte le parti, e non vidi un solo dei mercanti sbarcati con me nell’isola. Scorsi però la nave alla vela, ma tanto lontana che la smarrii d’occhio in breve.
«Vi lascio immaginare le mie riflessioni in sì tristo stato, e poco mancò non ne morissi di dolore. Mandai spaventevoli grida, mi battei la testa, e gettatomi per terra, vi rimasi gran tempo inabissato in una mortale confusione di pensieri, tutti più affliggenti l’un dell’altro. Mi rimproverai cento volte di non essermi cementato del mio primo viaggio, che doveva avermi fatto perdere per sempre la smania di tentarne altri. Ma tutte le mie querele erano inutili, e fuor di luogo il mio pentimento.
«Infine mi rassegnai alla volontà di Dio, e ignorando che sarebbe accaduto di me, salii in cima di un albero, d’onde guardai da ogni lato se nulla scopriva che potesse darmi qualche barlume di speranza. Volti gli occhi sul mare, non vidi che cielo ed acqua; ma scorgendo dalla parte di terra qualche cosa di bianco, scesi dall’albero, e coi pochi viveri rimastimi, camminai verso quel punto bianco, ch’era però tanto lontano, che non poteva ben distinguere cosa fosse.
«Quando ne fui a ragionevole distanza, osservai essere una palla bianca, di prodigiosa altezza e grossezza; giuntovi vicino, la toccai e la trovai morbidissima. Le girai intorno per vedere se vi fosse qualche apertura; ma non ne potei scoprire alcuna, e mi parve impossibile il salirvi, tanto era liscia: poteva avere cinquanta passi di circonferenza. «Il sole era allora presso al tramonto. D’improvviso l’aria si oscurò, quasi venisse coperta da una folta nube. Ma se quell’oscurità mi sorprese, lo fui ben di più quando m’avvidi esserne cagione un uccello di straordinaria grandezza che avanzavasi alla mia volta volando. Mi ricordai di un uccello chiamato roc (1) di cui aveva spesso udito parlare dai marinari, e capii allora che la grossa palla da me tanto ammirata doveva essere un uovo di tal augello. In fatti, ei calò, e vi si pose addosso come per covarlo. Vedendolo venire, io mi era stretto all’uovo, in modo che mi trovai davanti un piede dell’uccello; era quel piede grosso come il tronco d’un albero gigantesco. Io mi vi attaccai fortemente colla tela del turbante, sperando che il roc, nel riprendere il giorno dopo il volo, mi portasse fuori di quell’isola deserta. Infatti, passata la notte in quello stato, appena fu giorno, l’uccello volò via, e sollevommi tant’alto che non vedeva più la terra; poi discese d’improvviso con tal rapidità ch’io ne rimasi quasi soffocato. Quando il roc si fermò, vedutomi al suolo, sciolsi rapidamente il nodo che mi teneva legato al suo piede; aveva appena finito di staccarmene, ch’ei diè di becco sur un serpente di sterminata lunghezza, e tosto prese il volo.
«Il luogo in cui mi lasciò era una profondissima valle circondata ovunque da monti altissimi che perdevansi nelle nubi, e sì aspre e scoscese da non esservi sentiero alcuno di potervi salire. Fu un nuovo imbroglio per me, e paragonando questo sito all’isola deserta testè lasciata, trovai che non aveva guadagnato nel cambio.
«Camminando per quella valle, m’avvidi ch’era sparsa di diamanti, fra’ quali ne osservai di straordinaria grossezza; ebbi molto diletto a rimirarli, ma vidi in breve da lungi tali oggetti che diminuirono d’assai quel piacere, ispirandomi terrore. Erano serpenti in gran numero sì grossi e lunghi, che un solo non ve n’avea che non potesse inghiottire un elefante. Ritiravansi di giorno ne’ loro antri, ove si celavano a motivo del roc loro nimico, non uscendone che la notte.
«Passai il dì a passeggiare per la valle, riposando di quando in quando ne’ siti più comodi. Intanto tramontò il sole, e al calar delle tenebre mi ritirai in una grotta, ove pensai di stare in tutta sicurezza. Ne turai l’ingresso, ch’era basso e stretto, con una grossa pietra per guarentirmi dai serpenti, ma collocata in modo da lasciarvi penetrare un po’ di luce. Cenai con parte delle mie provvigioni, allo strepito dei serpenti che cominciavano a comparire, e di cui sibili spaventòsi mi facevano estrema paura, nè mi permisero, come ben penserete, di passar tranquillamente la notte. Spuntata l’alba, i serpenti si ritirarono; allora uscii tremando dalla grotta, e posso dire d’aver a lungo camminato sui diamanti senza che mi facessero la minima voglia. Alla fine sedetti, e malgrado l’inquietudine ond’era agitato, non avendo chiuso occhio in tutta la notte, mi addormentai dopo aver nuovamente mangiato un po’ delle mie provvigioni. M’era appena assopito, che fui destato da qualche cosa caduta a me vicino con gran fracasso: era un grosso pezzo di carne fresca, e nello stesso punto ne vidi rotolare vari altri dall’alto delle rupi in diversi luoghi.
«Io aveva sempre tenuto in conto di favola ciò che più volte udii narrare dai marinai e d’altre persone riguardo alla valle de’ diamanti ed alla destrezza messa in opera da alcuni mercadanti per estrarne quelle pietre preziose. Conobbi allora che mi avevano detto la verità. Infatti, que’ mercadanti si appostano vicino a questa valle nel tempo che le aquile hanno i loro nati, tagliano grossi pezzi di carne e li gettano nella valle; i diamanti, sulla punta dei quali cadono, vi si attaccano. Le aquile, in quel paese più robuste che altrove, piombano sui pezzi di carne, e li trasportano nei loro nidi sulla vetta delle rupi per servir di pastura agli aquilotti. Allora i mercadanti, correndo al nido, colle loro grida costringono le aquile ad allontanarsi, e prendono i diamanti che trovano attaccati ai pezzi di carne. Si servono essi di simile astuzia, non essendovi altro mezzo di cavare i diamanti da quella valle, ch’è un precipizio, in cui è impossibile discendere (2).
«Fin a quel punto aveva creduto di non poter più uscire da quell’abisso, cui già riguardava come mia tomba; ma cangiai di opinione, e quanto aveva veduto mi porse il destro d’immaginar il mezzo di conservare la vita....»
Il giorno, che qui comparve, impose silenzio a Scheherazade; ma essa proseguì la sua storia l’indomani.
NOTTE LXXIV
— Sire,» disse, sempre rivolgendosi al sultano delle Indie, «Sindbad continuò così a raccontare le avventure del suo secondo viaggio alla compagnia che lo ascoltava: — Cominciai col raccogliere i più grossi diamanti che mi si offersero agli occhi, e ne empii il sacco di cuoio (3) che m’avea servito a tenervi i viveri. Presi quindi il pezzo di carne che mi parve più lungo; me lo legai strettamente intorno colla tela del turbante, ed in tale stato mi distesi bocconi contro terra, colla borsa di cuoio attaccata alla cintura, acciò non potesse cadere.
«Non appena fui in quella posizione, che le aquile vennero a prendere ciascuna un pezzo di carne che portarono via, ed una delle più forti, avendomi alzato in aria, insieme alla carne cui era legato, mi portò in cima al monte fin nel suo nido. Non mancarono allora i mercadanti di gridare per mettere in fuga le aquile, e quando le ebbero costrette a lasciare la preda, uno di loro si avvicinò a me, ma in côlto da spavento al vedermi. Pure si rassicurò, ed invece d’informarsi per quale avventura colà mi trovassi, cominciò a sgridarmi, chiedendomi perchè gli rapiva la sua roba. — Voi mi parlerete,» gli dissi, «con maggior umanità, quando m’avrete conosciuto meglio. Consolatevi,» soggiunsi, «io ho diamanti per voi e per me più che non ne avranno tutti gli altri mercanti uniti insieme. Se ne prendono, non è che per caso; ma io ho scelti in persona, nel fondo della valle, quelli che porto nella borsa che qui vedete.» E sì dicendo, gliela mostrai. Non aveva finito di parlare, che gli altri mercadanti, vedendomi, mi si affollarono intorno, maravigliati di trovarmi in quel luogo, ed io accrebbi col racconto della mia storia il loro stupore, ammirando essi non tanto lo strattagemma immaginato per salvarmi, quanto il mio ardire nel tentarlo.
«Mi condussero alla casa ove alloggiavano tutti; e colà aperta alla loro presenza la mia borsa, la grossezza de’ miei diamanti li sorprese, e mi confessarono, che in nessuna delle corti ov’erano stati, non nè avevano veduto uno che li pareggiasse. Pregato quindi il mercante, cui apparteneva il nido nel quale io era stato trasportato (poichè ogni mercadante ha il suo), a sceglierne per sua parte quanti voleva, egli si contentò di prenderne uno solo, e de’ meno grossi; e siccome io lo sollecitava a pigliarne altri senza complimenti: — No,» mi disse, «mi basta questo, il quale è abbastanza prezioso onde risparmiarmi la fatica di fare ormai altri viaggi per lo stabilimento della mia piccola fortuna.
«Passai la notte con que’ mercadanti, a’ quali raccontai una seconda volta la mia storia, per soddisfare quelli che non l’avevano udita. Io non poteva frenare il giubilo, al pensiero di trovarmi fuor de’ pericoli che v’ho detto. Lo stato in cui mi vedeva parevami un sogno, e non poteva credere di non aver più nulla a temere.
«Erano già vari giorni che i mercanti gettavano pezzi di carne nella valle, e poichè ognuno sembrava contento de’ diamanti ch’erangli toccati, partimmo il giorno appresso tutti insieme, e camminammo per alte montagne, nelle quali annidavano serpenti di prodigiosa lunghezza, ch’ebbimo la buona sorte di evitare. Giunti al primo porto di mare, passammo all’isola di Roha, ove alligna l’albero dal quale si trae la canfora, e ch’è tanto grosso e fronzuto, che cento uomini vi possono stare comodamente all’ombra. Il succo, di cui formasi tale sostanza, scola da un’incisione che si fa all’alto dell’albero, e vien raccolto in un vaso ove prende consistenza, e diventa quella che chiamiamo canfora. Estrattone così il succo, l’albero inaridisce e muore.
«Nella medesima isola vi sono rinoceronti, animali più piccioli dell’elefante e più grandi del bufalo, che hanno un corno sul naso, lungo circa un cubito, solido e fesso in mezzo da un’estremità all’altra, su cui veggonsi punti bianchi, formanti la figura d’un uomo. Il rinoceronte si batte coll’elefante, gli squarcia col corno il ventre, lo solleva e lo porta sulla testa; ma siccome il sangue ed il grasso dell’elefante gli colano sugli occhi e l’acciecano, ei cade per terra, e frattanto, cosa che vi farà meraviglia, viene il roc, li adunghia amendue, e li porta via per nutrirne i suoi nati.
«Passo sotto silenzio molt’altre particolarità di quell’isola, per tema di annoiarvi. Io vi cangiai alcuni de’ miei diamanti in tante buone merci. Di là andammo ad altre isole, e finalmente, dopo aver toccato diverse città mercantili di terra ferma, approdammo a Balsora, d’onde mi restituii a Bagdad. Distribuii in prima molte elemosine ai poveri, e godetti onoratamente del resto delle mie immense ricchezze, guadagnate con tanti sudori... —
«Sindbad finì così di narrare il suo secondo viaggio. Ei fe’ dare altri cento zecchini ad Hindbad, ed invitollo a venire il dì dopo ad udire la relazione del terzo. I comitati tornarono alle loro case, e ricomparsi il giorno seguente alla medesima ora, non meno del facchino, il quale aveva già quasi dimenticata la passata miseria, si misero tutti a tavola, e levate le mense, Sindbad, avendo chiesto un momento d’attenzione, fe’ di tal guisa il racconto del suo terzo viaggio:
Note
- ↑ Quest’uccello più non esiste, e forse non ha mai esistito. Pure non è impossibile che sia comparso in qualche parte del globo, e che spenta ne sia ormai la razza al par di quella di molte altre specie di animali di prodigiosa grossezza, di cui si trovano ogni dì ancora le ossa pietrificate. Marco Polo ed il padre Martini ne fanno menzione nelle relazioni dei loro viaggi in Oriente.
- ↑ Marco Polo ed altri viaggiatori del secolo duodecimo, riferiscono che nella Scizia si raccoglievano i giacinti nella medesima guisa.
- ↑ Gli Orientali che viaggiano ripongono le loro provvigioni in un sacco di cuoio.