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NOTTE LXXIII


— «Fui mai sorpreso,» disse Sindbad, «di non veder più il vascello; alzatomi, guardai da tutte le parti, e non vidi un solo dei mercanti sbarcati con me nell’isola. Scorsi però la nave alla vela, ma tanto lontana che la smarrii d’occhio in breve.

«Vi lascio immaginare le mie riflessioni in sì tristo stato, e poco mancò non ne morissi di dolore. Mandai spaventevoli grida, mi battei la testa, e gettatomi per terra, vi rimasi gran tempo inabissato in una mortale confusione di pensieri, tutti più affliggenti l’un dell’altro. Mi rimproverai cento volte di non essermi cementato del mio primo viaggio, che doveva avermi fatto perdere per sempre la smania di tentarne altri. Ma tutte le mie querele erano inutili, e fuor di luogo il mio pentimento.

«Infine mi rassegnai alla volontà di Dio, e ignorando che sarebbe accaduto di me, salii in cima di un albero, d’onde guardai da ogni lato se nulla scopriva che potesse darmi qualche barlume di speranza. Volti gli occhi sul mare, non vidi che cielo ed acqua; ma scorgendo dalla parte di terra qualche cosa di bianco, scesi dall’albero, e coi pochi viveri rimastimi, camminai verso quel punto bianco, ch’era però tanto lontano, che non poteva ben distinguere cosa fosse.

«Quando ne fui a ragionevole distanza, osservai essere una palla bianca, di prodigiosa altezza e grossezza; giuntovi vicino, la toccai e la trovai morbidissima. Le girai intorno per vedere se vi fosse qualche apertura; ma non ne potei scoprire alcuna, e mi parve impossibile il salirvi, tanto era liscia: poteva avere cinquanta passi di circonferenza.