Le Mille ed una Notti/Primo viaggio di Sindbad il navigatore
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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PRIMO VIAGGIO DI SINDBAD IL NAVIGATORE.
«Ereditata dalla mia famiglia una pingue sostanza, ne dissipai la parte migliore negli stravizzi della gioventù; ma rinvenuto dal mio acciecamento, e tornato in me stesso; conobbi che le ricchezze erano passaggere, e che presto se ne vedeva il fondo quando si scialacquavano al modo ch’io faceva. Pensai inoltre, che consumava miseramente in una vita sregolata il tempo, ch’è la cosa più preziosa del mondo. Considerai ancora che l’ultima e la più deplorabile di tutte le miserie era quella di trovarsi povero nella vecchiaia; e mi ricordai delle parole del gran Salomone, altre volte udite da mio padre: «È meglio essere nel sepolcro che in povertà.»
«Colpito da tutte queste riflessioni, raccolsi le reliquie del mio patrimonio, vendetti la mobiglia all’incanto sul mercato, e collegatomi con alcuni mercadanti dediti al commercio di mare, consultai quelli che mi parvero capaci di darmi buoni consigli; infine risolsi di utilizzare il poco denaro che mi restava, e presa tale risoluzione, non tardai a porla ad effetto. Mi recai dunque a Balsora (1), ove m’imbarcai con diversi mercadanti sopra un vascello che equipaggiammo a spese comuni.
«Spiegate le vele, prendemmo la strada delle Indie orientali pel golfo Persico, formato dalle coste dell’Arabia Felice a destra, e da quelle della Persia a sinistra, e la cui maggior larghezza è, secondo l’opinione generale, di settanta leghe. Fuori di questo golfo, il mare del Levante, lo stesso di quel delle Indie, è spaziosissimo, ed ha per confini da una parte le coste dell’Abissinia, e quattromila cinquecento leghe di lunghezza fino alle isole di Vakvak (2). Fui sulle prime incomodato dal così detto mal di mare: ma presto ne guarii, e da quel tempo non andai più soggetto a quella specie di malattia.
«Nel corso della nostra navigazione, approdammo a varie isole, e vendemmo o permutammo le nostre merci. Un giorno che veleggiavamo, ci sopraggiunse la bonaccia rimpetto ad un’isoletta quasi a fior d’acqua, la quale per la sua verzura somigliava ad un bel prato. Il capitano fece ammainar le vele, e permise di prender terra alle persone dell’equipaggio che vollero sbarcarvi. Ma mentre ci divertivamo a bere, a mangiare e ristorarci dalle fatiche sofferte, l’isola tremò d’improvviso, e ci diè una tremenda scossa....»
Qui Scheherazade si fermò, vedendo comparire il giorno, e sulla fine della notte seguente riprese così il racconto:
NOTTE LXXI
— Sindbad, proseguendo la sua storia, disse alla brigata: «I rimasti sul vascello si avvidero del tremar dell’isola, e ci gridarono di rimbarcarci prontamente, che stavamo tutti per perire, poichè quella che ci pareva un’isola, era il dorso d’una balena. I più avveduti si salvarono sulla scialuppa; altri gettaronsi a nuoto; io invece mi trovava ancora sull’isola, o a meglio dire sulla balena, quando questa s’affondò nel mare, ed ebbi appena tempo di attaccarmi ad un grosso pezzo di legno, colà recate dalla nave per accendere il fuoco. Intanto il capitano, ricevuti a bordo quelli ch’erano nello schifo, e raccolti alcuni degli altri che nuotavano, volle approfittare del buon vento ch’erasi allora alzato, e spiegate le vele, mi tolse così la speranza di raggiungere il vascello.
«Rimasi dunque in balia dell’onde, spinto da una parte e dall’altra; disputai di tal guisa la vita per tutto il resto del giorno e della notte seguente. Ma all’indomani non aveva più forze, e già disperava d’evitar la morte, quando un’ondata mi gettò fortunatamente contro un’isola. Alta e scoscesa n’era la ripa, ed arduo assai mi sarebbe riuscito l’arrampicarmivi, se alcune radici d’alberi, che parevano dalla fortuna appositamente conservate in quel luogo per mia salvezza, non me ne avessero somministrato il mezzo. Mi sdraiai a terra, ove rimasi semivivo finchè sorse l’alba e comparve il sole.
«Allora, sebben debolissimo per la durata lotta col mare, e perchè non aveva sin dal giorno precedente preso cibo alcuno, non lasciai di trascinarmi in cerca di erbe buone da mangiare. Ne trovai, ed ebbi anche la fortuna d’incontrare una sorgente di limpida acqua, che contribuì non poco a darmi ristoro. Tornato in forza, m’inoltrai nell’isola camminando alla ventura, ed entrai in una bella pianura, ove scopersi da lungi un cavallo che pascolava; volsi a quella parte i miei passi; titubante fra il timore e la gioia, ignorando se non andassi piuttosto a cercare la mia perdita che un’ occasione di mettere la vita al sicuro. Accostatomi, m’avvidì ch’era una cavalla legata ad un palo: la sua bellezza attirò la mia attenzione; ma mentre stava considerandola, udii la voce d’un uomo che parlava sotto terra; poco dopo quell’uomo comparve, venne alla mia volta, e mi chiese chi fossi. Gli raccontai la mia disgrazia; allora, presomi per mano, mi fece entrare in una grotta, ov’erano altre persone, le quali non furono meno maravigliate al vedermi, ch’io non lo fossi di trovarle colà.
«Mangiai alcuni cibi che mi presentarono; poi, chiesto loro cosa facessero in quel luogo che mi pareva sì deserto, risposero, ch’erano palafrenieri del re Miragio, sovrano dell’isola; che ogni anno, nella medesima stagione, solevano condurvi le cavalle del re, attaccandole come aveva veduto, per farle coprire da un caval marino che usciva dalle onde; che dopo averle coperte, il caval marino faceva per divorarle; ma ch’essi glie lo impedivano colle loro grida, obbligandolo a tornar nell’acqua; che le cavalle essendo pregne, le riconducevano, ed i puledri che ne nascevano erano destinati pel re, e chiamavansi cavalli marini. Aggiunsero, dover essi partire il dì dopo, e che s’io fossi arrivato un giorno più tardi, sarei indubitatamente perito, perchè essendo lontane le abitazioni, mi sarebbe riuscito impossibile di giugnervi senza guida.
«Mentre di tal guisa favellavano, il caval marino uscì dal mare, come mi avevano detto, si lanciò sulla cavalla, la coprì, e voleva quindi divorarla; ma pel gran fracasso fatto dai palafrenieri, lasciò la preda, e tornò a gettarsi nell’onde.
«La mattina dopo, ripresero colle cavalle la via della capitale dell’isola, ed io li accompagnai. Al nostro arrivo, il re Miragio, al quale fui presentato, mi domandò chi fossi e per qual avventura mi trovassi ne’ suoi stati. Soddisfatta appieno la sua curiosità, mi dichiarò che s’interessava alla mia disgrazia, e nel tempo stesso ordinò di aver cura di me, e di somministrarmi tutte le cose ond’avessi bisogno; ciò fu eseguito in modo ch’ebbi motivo di lodarmi della sua generosità e dell’esattezza de’ suoi ufficiali.
«Essendo mercadante, frequentava le persone della mia professione; ricercava specialmente i forestieri, tanto per raccogliere da loro notizie di Bagdad, quanto per trovarne qualcuno, col quale potervi tornare. La capitale del re Miragio è situata sulla riva del mare, con un bel porto, ove approdano ogni giorno vascelli dalle diverse parti del mondo. Io cercava pure la compagnia de’ dotti delle Indie, e dilettavami assai all’udirli parlare: ma ciò non m’impediva di fare regolarmente al re la mia corte, nè di conversare coi governatori e piccoli re, suoi tributari, che stavano presso alla sua persona. Mi facevano essi mille domande sul mio paese, e da parte mia, volendomi istruire de’ costumi e delle leggi de’ loro stati, veniva interrogandoli su quanto mi pareva degno della mia curiosità.
«Esiste sotto il dominio del re Miragio un’isola che porta il nome di Cacel. Mi avevano assicurato che vi si udisse tutte le notti un suono di timballi, d’onde nacque l’opinione dei marinai, che Dedjäl (3) vi facesse la sua dimora. Ebbi voglia di essere testimonio di tal maraviglia, e vidi nel mio viaggio pesci lunghi da cento a dugento cubiti, che fanno più paura che male, essendo sì timidi, che si volgono in fuga battendo sulle assi. Notai altri pesci, che non avevano più d’un cubito, e per la testa somigliavano ai gufi.
«Al mio ritorno, stando un giorno sul porto, vi approdò un naviglio. Appena calate le ancore, cominciarono a scaricarne le merci, ed i mercanti a’ quali appartenevano, facevanle trasportare ne’ magazzini. Volgendo gli occhi su alcune balle e sullo scritto che denotava a chi appartenevano, vi lessi il mio nome; esaminatele ben bene, non dubitai non fossero quelle da me fatte caricare sul vascello nel quale erami imbarcato a Balsora. Riconobbi anzi il capitano, ma essendo persuaso ch’ei mi credeva morto, me gli accostai, e gli chiesi a chi appartenessero quelle balle, — Aveva a bordo,» mi rispose, «un mercadante di Bagdad, chiamato Sindbad. Un giorno che ci trovavamo vicino a un’isoletta, a quanto ci pareva, egli sbarcò, con parecchi passaggeri su questa pretesa isola, la quale altro non era che una balena d’enorme grossezza, addormentata a fior d’acqua. Non appena sentì il mostro l’ardore del fuoco acceso sul di lui dorso dai nostri per farla cucina, cominciò a moversi e sprofondò nell’acqua. La maggior parte delle persone che v’erano sopra annegarono, e l’infelice Sindbad fu del numero. Sue erano queste balle, ed io determinai di negoziarle finchè incontri qualcuno della sua famiglia, a cui rendere l’utile che ne avrò ricavato, insieme al capitale. — Capitano,» gli dissi allora, «io sono quel Sindbad che credete morto, e che non lo è; quelle merci sono di mia proprietà....»
Scheherazade non disse di più per quella volta, ma la notte susseguente continuò di tal modo:
NOTTE LXXII
— Sindbad, proseguendo la sua storia, disse alla compagnia: «Quando il capitano della nave m’intese parlare così: — Gran Dio!» sclamò; «di chi fidarsi ormai? Non c’è più buona fede fra gli uomini. Io vidi perire Sindbad co’ miei propri occhi; i passaggeri, ch’erano al mio bordo, l’hanno al pari di me veduto, e voi osate dire d’essere quel Sindbad? Qual audacia! Al vedervi, sembrate uomo probo; eppure mi dite una falsità orribile, per appropriarvi cose che non v’appartengono. — Abbiate pazienza,» risposi al capitano, «e fatemi la grazia d’ascoltare quanto sono per raccontarvi. — Ebbene,» ripigliò egli, «che cosa vorrete dire? Parlate; vi ascolto.» Gli narrai allora come mi fossi salvato, e per quale avventura avessi incontrato i palafrenieri del re Miragio, che mi avevano condotto alla sua corte.
«Egli si sentì smosso dal mio discorso; ma fu in breve persuaso ch’io non era un impostore, poichè giunte intanto persone della sua nave, queste mi riconobbero ed esternarono la loro gioia al rivedermi. Infine, mi riconobbe anch’egli, e gettandomi le braccia al collo: — Sia lodato Iddio,» mi disse, «che siete felicemente scampato da sì grave pericolo! Non saprei abbastanza attestarvi il piacere che ne sento. Ecco la vostra roba; prendetela, v’appartiene; fatene quello che vi piace.» Lo ringraziai, e lodatolo della sua probità, per riconoscenza lo pregai d’accettare alcune merci ch’ egli ricusò.
«Scelsi allora quanto trovai di più prezioso nelle mie balle, e ne feci dono al re Miragio; e siccome questo principe sapeva la disgrazia accadutami, mi chiese dove avessi preso sì rare cose. Gli narrai per qual caso le avessi ricuperate; ebb’egli la bontà di dimostrarmene il suo contento, ed accettato il mio presente, me ne fece altri di maggior valore. Tolto quindi commiato da lui, tornai ad imbarcarmi sul medesimo bastimento, avendo prima permutate le merci che mi restavano con altre del paese. Portai meco legno d’aloè e di sandalo, canfora, noci moscate, chiodi di garofano, pepe, zenzevero. Passammo per varie isole, ed approdammo finalmente a Balsora, d’onde giunsi in questa città col valore di circa cento mila zecchini. La mia famiglia m’accolse, ed io la rividi con tutti i trasporti d’un’amicizia viva e sincera. Comperai schiavi dell’uno e dell’altro sesso, belle terre, e menai buona vita. Così stabilitomi, risolsi dimenticare i mali sofferti, e godere i piaceri della vita.
«Qui essendosi fermato Sindbad, ordinò ai suonatori di ricominciare le loro sinfonie, da lui interrotte col racconto della sua storia. Si continuò fino a sera a bere e mangiare, e quando fu tempo di ritirarsi, Sindbad, fattosi recare una borsa di cento zecchini, e dandola al facchino, — Prendete, Hindbad,» gli disse, «tornate a casa vostra, e venite di nuovo domani ad udire la continuazione delle mie avventure.» Il facchino si ritirò confuso dell’onore e del dono ricevuto. Il racconto che ne fece a casa sua, riuscì gradito a sua moglie ed ai figliuoli, i quali non mancarono di ringraziare il cielo del bene che la Provvidenza loro faceva per mezzo di Sindbad.
«Hindbad si vestì il giorno dopo più decentemente, e tornò dal viaggiatore liberale, che lo accolse con aria ridente, e gli prodigò mille carezze. Giunti tutti i convitati, si servì in tavola, e vi rimasero molto tempo. Finito il pranzo. Sindbad, volgendosi alla compagnia, cominciò: — Signori, vi prego di dar ascolto alle avventure del secondo mio viaggio, le quali sono più degno della vostra attenzione di quelle del primo.» Tutti tacquero, e Sindbad parlò in questi termini:
Note
- ↑ O Bassora, grande città dell’Asia, al disotto del confluente del Tigri e dell’Eufrate, nell’Irak arabica, fondata d’ordine di Omar, terzo califfo, nel 636. I Turchi ne sono padroni fino dal 1663; vi si fa un gran commercio.
- ↑ Quest’Isole, situate, secondo gli Arabi, oltre la China, sono così chiamate da una pianta che porta un frutto di tal nome. Probabilmente sono le isole del Giappone.
- ↑ Dedjäl o l’Anticristo. Credono i maomettani, come i cristiani, che l’Anticristo verrà a pervertire gli uomini alla fine del mondo; ma credono inoltre che avrà un occhio solo ed un sopracciglio; che conquisterà tutta la terra, tranne la Mecca, Medina, Tarso e Gerusalemme, le quali saranno preservate da angeli inviati alla loro difesa; infine, aggiungono che sarà vinto da Gesù Cristo, il quale verrà a combatterlo.