Le Mille ed una Notti/Terzo viaggio di Sindbad il navigatore
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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TERZO VIAGGIO DI SINDBAD IL NAVIGATORE.
«Smarrii in breve,» disse, «nelle dolcezze della vita che conduceva, la memoria dei pericoli incorsi ne’ miei due viaggi; ma siccome mi trovava nel fiore degli anni, m’annoiai di vivere nel riposo, ed illudendomi sui nuovi perigli che doveva affrontare, partii da Bagdad con ricche merci del paese, che feci trasportare a Balsora, nel qual luogo m’imbarcai di nuovo con altri mercadanti. Intrapresa una lunga navigazione, approdammo in varii porti, ove facemmo un gran commercio.
«Un giorno ch’eravamo in alto mare, si scatenò un’orribile tempesta, la quale ci spinse fuor di strada, e continuando per parecchi giorni, giungemmo davanti al porto di un’isola, dove il capitano avrebbe desiderato volentieri dispensarsi dall’entrare, ma fummo costretti di andarvi a gettar l’ancora. Ammainate le vele, il capitano ci disse: — Quest‘isola ed alcune altre vicine sono abitate da selvaggi tutti pelosi, che fra poco verranno ad assalirci. Sebbene siano nani, la nostra disgrazia c’impone di non far alcuna resistenza, essendo essi in maggior numero delle locuste, e ove ci accadesse di ucciderne qualcuno, si getterebbero tutti su noi e ci amazzerebbero.»
Il giorno, che venne ad illuminare l’appartamento di Schahriar, impedì a Scheherazade di continuare. La notte seguente ripigliò essa la parola in questi sensi:
NOTTE LXXV
— «Il discorso del capitano,» disse Sindbad, «mise in gran costernazione l’equipaggio, ed in breve conobbimo che quanto ci aveva detto era pur troppo vero. Vedemmo infatti comparire una moltitudine innumerevole di selvaggi orridi, coperti per tutto il corpo di peli rossi, ed alti non più di due piedi, i quali, gettandosi a nuoto, in poco tempo circondarono il vascello. Ci parlavano nell’accostarsi, ma noi non intendevano il loro linguaggio. Si appigliarono ai fianchi ed ai cordami del bastimento, e s’arrampicarono da ogni parte fin sul ponte, con tanta agilità e lestezza, che pareva non appoggiassero il piede.
«Li vedemmo fare quella manovra collo spavento che potete immaginarvi, senza osar di metterci in difesa, nè dire una sola parola, onde cercare di distorglierli dal loro disegno, che sospettavamo funesto. Infatti, spiegarono le vele, tagliarono la gomona dell’ancora senza darsi la pena di ritirarla, e fatto avvicinare a terra il vascello, ci fecero tutti sbarcare. Condussero poscia la nave in un’altra isola, d’ond’erane venuti. I naviganti schivavano con ogni cura quella in cui ci trovavamo allora, essendo assai pericoloso il fermarvisi per la ragione che or ora udrete; ma ne in d’uopo sopportare pazientemente il nostro malanno.
«Ci allontanammo dalla spiaggia, e inoltrandoci nell’isola, trovammo alcune frutta ed erbe che ci servirono di cibo per prolungare l’ultimo momento della nostra vita il più che fosse possibile, aspettandoci tutti ad una morte certa. Cammin facendo, scorgemmo da lontano un grande edifizio, verso il quale volgemmo i passi. Era un palazzo ben costrutto ed altissimo, con una porta d’ebano a due battenti, che, sospingendola, aprimmo. Entrati nel cortile, vedemmo in faccia un ampio appartamento con vestibolo, ov’era da un lato un mucchio d’ossa umane, e dall’altro un’infinità di schídioni. A quello spettacolo c’invase un tremito generale, ed essendo stanchi del fatto cammino, ci mancarono le gambe, e cademmo per terra, colti da mortale spavento; restammo in quello stato per molto tempo.
«Il sole tramontava, e mentre noi trovavamo nel compassionevole stato or descritto, si spalancò con fracasso la porta dell’appartamento, e subito vedemmo uscirne un uomo nero d’orrendo aspetto, e dell’altezza d’un gran palmizio. Aveva in mezzo alla fronte un solo occhio, rosso ed ardente come carbone acceso; i denti davanti, che aveva lunghi ed aguzzi, gli uscivano dalla bocca, la quale era fessa come quella d’un cavallo; il labbro inferiore gli scendeva sul petto. Rassomigliavano le orecchie a quelle dell’elefante, e gli coprivano le spalle; aveva unghie adunche e lunghe come gli artigli del più mostruoso uccello. Alla vista di sì spaventoso gigante, perduti i sensi, restammo come morti.
«Alla fine, rinvenuti, lo vedemmo seduto sotto il vestibolo, che ci esaminava coll’occhio spalancato; quando ci ebbe ben considerati, si avanzò verso di noi, ed avvicinatosi, stese la mano su me, mi prese per la nuca, e mi volse da tutti i lati, come un beccaio che maneggi la testa d’un castrato. Dopo avermi guardato minutamente, vedendomi sì magro, ch’era tutta pelle ed ossa, mi lasciò. Prese poi gli altri ad uno ad uno, li esaminò nella stessa guisa, ed essendo il capitano il più grasso dell’equipaggio, lo tenne in mano com’io avrei tenuto un passero, e gli passò uno schidione nel corpo. Acceso indi un gran fuoco, lo fece arrostire, e se lo mangiò a cena nell’appartamento ov’erasi ritirato. Finito il pasto, ricomparve sotto il vestibolo, si sdraiò, ed addormentatosi, si mise a russare in maniera più rumorosa del tuono; il suo sonno durò sino al mattino. Quanto a noi, non ci fu possibile gustare le dolcezze del riposo, e passammo la notte nella più crudele inquietudine. Sorta l’aurora, il gigante si svegliò, alzossi, ed uscì lasciandoci nel palazzo.
«Quando lo credemmo lontano, si ruppe il tristo silenzio da noi osservato la notte, ed affliggendoci tutti a vicenda, facemmo risuonare il palazzo di gemiti e pianti. Benchè in molti, ed un solo nemico fosse il nostro, non ci venne dapprima il pensiero di liberarcene mettendolo a morte; eppure tal impresa, sebben difficilissima da eseguire, era quella che dovevamo naturalmente tentare.
«Deliberammo su vari altri partiti, ma non essendoci appigliati ad alcuno, e sottoponendoci a quanto avesse piaciuto a Dio di disporre sulla nostra sorte, passammo il giorno a percorrere l’isola, cibando frutta ed erbe come il dì precedente. Verso sera, cercammo qualche ricovero ove dormire, ma non ci fu dato trovarne, e fummo obbligati, nostro malgrado, a tornar al palazzo.
«Il gigante non mancò di ritornare, e mangiò di nuovo a cena un nostro compagno; poi addormentatosi, russò fino a giorno; allora uscì, e ci lasciò come già aveva fatto. La nostra condizione ci parve sì terribile, che parecchi fra noi furono sul punto d’andare a precipitarsi in mare, piuttostochè attendere morte sì strana, e sollecitavano gli altri a seguire il loro consiglio. Ma uno della compagnia, prendendo la parola: — È vietato,» disse, «di darci da noi stessi la morte, e quand’anche lecito fosse, non è più ragionevole pensare al mezzo di disfarci del barbaro che ci destina a sì funesta sorte?
«Siccome erami venuto in mente un progetto su ciò, lo comunicai ai compagni, che l’approvarono. — Fratelli,» dissi allora, «sapete che lungo la spiaggia c’è molta legna; se volete far a modo mio, ne costrurremo zattere che ci possano portare, e finite che siano, lasciamole sulla costa finchè giudicheremo a proposito di servircene. Intanto, eseguiremo il disegno che v’ho proposto per liberarci dal gigante; se riesce, potremo aspettar qui con pazienza che qualche vascello, il quale ci ritiri da quest’isola fatale; se invece il colpo fallisce, correremo prontamente alle nostre zattere, e ci metteremo in mare. Confesso che esponendoci al furor dell’onde sopra sì fragili tavole, si arrischia di perdere la vita; ma quando pur dovessimo perire, non è più dolce andar travolti nei gorghi marini, anzichè nel ventre di questo immane mostro, che ha già divorato due nostri compagni?» Fu il mio consiglio approvato da tutti, e subito ci accingemmo a costruire zattere capaci di tre persone.
«Tornati verso sera al palazzo, il gigante vi giunse poco dopo, e fu ancora giuocoforza risolverci a veder arrostito un altro de’ nostri: ma infine, ecco in qual guisa ci vendicammo della sua crudeltà. Finito ch’ebbe l’esecrabile sua cena, sdraiatosi, s’addormentò. Appena l’udimmo russare secondo il solito, nove de’ più arditi fra noi, ed io con loro, prendemmo ciascuno uno schidione, e fattone arroventare la punta sul fuoco, gliela conficcammo, tutti in una volta, nell’occhio.
«Il dolore che ne provò il gigante gli fe’ gettare uno spaventevole grido; si alzò furibondo, e distese le mani da tutti i lati per impadronirsi di qualcuno onde sagrificarlo alla sua rabbia; ma avemmo tempo d’allontanarci e buttarci bocconi ne’ siti ove non poteva incontrarne tra’ piedi. Dopo averci inutilmente cercati, trovò tentoni la porta, ed uscì mandando urli tremendi....»
Scheherazade non disse di più quella notte, ma la successiva ripigliò così il racconto:
NOTTE LXXVI
— «Uscimmo dal palazzo dopo il gigante,» proseguì Sindbad, «e recatici sulla riva del mare al luogo ov’erano le zattere, le lanciammo subito in acqua, aspettando l’aurora per imbarcarci nel caso che vedessimo venire verso di noi il gigante con qualche guida della sua specie; ma speravamo che s’ei non compariva quando fosse alzato il sole, e se non udivamo più le sue urla, sarebbe stato quello un manifesto segno ch’egli era morto; in tal caso, ci proponevamo di restare nell’isola senza arrischiarci sulle zatte. Ma appena fu giorno, vedemmo il nostro crudel nemico, accompagnato da due giganti, all’incirca della sua grandezza, che lo conducevano, e da altri ancora, che camminavano davanti a lui a precipitosi passi.
«A tal vista, non esitammo più a gettarci sulle zattere, ed allontanarci dalla riva a furia di remi; i giganti, avvedutosene, si munirono di grosse pietre, corsero alla spiaggia, ed entrati anzi nell’acqua fino alla cintola, ce le gettarono con tal destrezza, che, tranne la zatta sulla quale mi trovava, tutte le altre ne rimasero conquassate, e gli uomini che le montavano si annegarono. Io ed i miei due compagni, invece, avendo remigato con tutta la nostra forza, ci trovammo più lontani, e fuor di tiro delle pietre.
«Giunti in alto mare, divenimmo trastullo del vento e dell’onde, che ci gettarono or da una parte, ora dall’altra; quel giorno e la notte seguente passarono nella crudele incertezza del nostro destino; ma il giorno dopo ebbimo la ventura d’essere spinti verso un’isola, ove con grandissimo giubilo approdammo, e trovatevi frutta squisite, ci furono esso di gran soccorso per riparare le smarrite forze.
«A sera, addormentatici sulla spiaggia, venne a destarci lo strepito che un serpente, lungo come un palmizio, faceva colle sue scaglie strisciando per terra, ed il quale si trovò tanto a noi vicino, che inghiottì uno de’ miei compagni malgrado le grida e gli sforzi di quell’infelice per isbarazzarsi del mostro, che, scuotendolo a più riprese, lo schiacciò sul suolo e finì di trangugiarlo. Presi tosto la fuga coll’altro mio compagno, e benchè ne fossimo assai lontani, udimmo poco dopo uno strepito, il quale ci fe’ supporre che il serpente vomitasse le ossa dell’infelice da lui sorpreso; in fatti, le vedemmo il giorno successivo con orrore. — Oh Dio!» sclamai allora; «a quai perigli siamo esposti! ieri ci rallegravamo d’aver sottratta la vita alla crudeltà del gigante ed al furore dell’acque, ed eccoci ora caduti in un pericolo non meno terribile.
«Notammo, passeggiando, un grosso ed altissimo albero, sul quale ci proponemmo di passare la notte seguente, per metterci in sicurezza. Mangiammo alcuni frutti come il dì prima, ed al cadere della notte saliti sull’albero, non molto dopo udimmo il serpente, il quale, venuto fischiando sino appiè dell’albero sul quale stavamo, si arrampicò pel tronco, ed incontrando il mio compagno, situato più basso di me, l’inghiottì d’improvviso, e se ne andò.
«Io rimasi lassù fino a giorno, ed allora ne scesi più morto che vivo. In fatti, non poteva attendermi sorte diversa da quella de’ miei due compagni, e simile pensiero facendomi rabbrividir d’orrore, mossi alcuni passi per andar a precipitarmi in mare; ma essendo l’esistenza dolce cosa, resistetti a quel movimento di disperazione, e mi sottoposi alla volontà del Signore, che dispone a suo talento della nostra vita.
«Non lasciai però di ammucchiare gran quantità di legna minuta, di rovi e di spine secche; ne composi parecchie fascine che legai insieme, e fattone un gran cerchio intorno all’albero, ne assicurai alcune per traverso al di sopra onde coprirmi la testa. Indi mi chiusi in quel ricinto al calar della notte, colla triste consolazione di non aver nulla trascurato per sottrarmi alla cruda sorte che mi minacciava. Non mancò il serpente di venir a girare intorno all’albero, per divorarmi; ma non vi potè riuscire a cagione della trincea da me fabbricata, talchè fece invano fino a giorno il maneggio d’un gatto che assedia il sorcio in un ricovero, ove non può entrare. Finalmente, sorto il dì, si ritirò; ma io non osai uscire dalla mia fortezza finchè non fu comparso il sole.
«Mi trovai sì stanco dall’angustia che il mostro mi aveva recata, tanto aveva sofferto del pestifero suo alito, che sembrandomi la morte preferibile a tanto orrore, mi allontanai, e non più ricordandomi della rassegnazione del giorno precedente, corsi alla spiaggia col disegno di precipitarmi in mare...»
Scheherazade, vedendo l’aurora, cessò di parlare, e la domane ripigliò il racconto, dicendo al sultano:
NOTTE LXXVII
— Sire, Sindbad, proseguendo il suo terzo viaggio, disse: — Dio ebbe pietà della mia disperazione, che mentre stava per gettarmi nell’onde, vidi una nave assai da lontano. Gridai allora con tutte le forze per farmi udire, e spiegai la tela del turbante acciò potessero vedermi: riuscii nell’intento, chè tutto l’equipaggio mi scorse, ed il capitano mi mandò la scialuppa. Quando fui a bordo, mercadanti e marinai mi chiesero con premura per qual caso mi fossi trovato in quell’isola deserta; e quand’ebbi lor narrate le mie avventure, i più vecchi dissero d’aver più volte inteso parlare de’ giganti che dimoravano nell’altra isola; ch’erano stati assicurati essere coloro antropofaghi, che mangiavano gli uomini tanto crudi quanto arrostiti. Riguardo poi ai serpenti, aggiunsero esservene in copia in quell’isola, e che si nascondevano il giorno per uscire la notte. Attestata che m’ebbero la loro gioia al vedermi sfuggito a tanti pericoli, non dubitando non avessi bisogno di cibo, si affrettarono ad offrirmene; ed il capitano, osservato il mio abito lacero, ebbe la generosità di donarmi uno de’ suoi.
«Navigammo per qualche tempo, e toccate parecchie isole, approdammo infine a quella di Salahat, d’onde si trae il sandalo, legno di grand’uso in medicina. Entrati nel porto, si calarono le ancore, e tosto i mercanti cominciarono a far isbarcare le loro merci per venderle o permutarle. Frattanto mi chiamò il capitano, e disse: — Fratello, io ho un deposito di mercanzie appartenenti ad un negoziante, il quale per qualche tempo navigò sul mio bastimento. Ora, essendo egli morto, voglio smerciarle per renderne conto a’ suoi eredi quando ne incontrassi qualcuno.» Le balle, delle quali intendeva parlare, erano già sul ponte, e me le mostrò dicendo: «Ecco le mercanzia in discorso; spero vorrete incaricarvi di trafficarle, a condizione di ricavarne l’utile dovuto alle vostre fatiche.» Acconsentii, ringraziandolo di darmi così delusione di non restar ozioso.
«Lo scrivano della nave registrava tutte le balle coi nomi dei mercanti cui appartenevano, e domandando al capitano sotto qual nome voleva si registrassero quelle onde m’incaricava, questi rispose: — Scrivete sotto il nome di Sindbad il navigatore.» Non potei sentirmi nominare senza emozione, e guardando il capitano, lo riconobbi per quello che, nel mio secondo viaggio, aveami abbandonato nell’isola ove mi era addormentato in riva d’un ruscello, mettendo alla vela senza aspettarmi o farmi cercare. Non avealo ravvisato alla prima, a motivo de’ cangiamenti operatisi nella sua persona dal tempo che non lo vedeva.
«Quanto a lui, che mi credeva morto, non è maraviglia se non mi riconobbe. — Capitano,» gli dissi, «chiamavasi forse Sindbad il proprietario di queste balle? — Sì,» mi rispose, «ed erasi imbarcato sul mio vascello a Balsora. Un giorno che scendemmo sur un’isola per far acqua e prendere rinfreschi, non so per quale svista rimisi alla vela senza osservare ch’ei non erasi restituito cogli altri a bordo; e non ce ne accorgemmo, i mercanti ed io, se non quattro ore dopo. Avevamo il vento in poppa e sì forte, che ci fu impossibile il virare di bordo per andar a riprenderlo. — Lo credete dunque morto?» ripigliai io. — Oh certo,» aggiuns’egli. — Or bene, capitano,» soggiunsi, «aprite gli occhi, e ravvisato in me quel Sindbad che lasciaste nell’isola deserta. Io mi addormentai sulla sponda d’un ruscello, e nello svegliarmi, non vidi più alcuno dell’equipaggio.» A tali parole, il capitano si pose a guardarmi...»
Scheherazade, a questo passo, accorgendosi che albeggiava, fu costretta a tacere, ma la notte successiva riprese così la sua narrazione:
NOTTE LXXVIII
— Il capitano,» disse Sindbad, «attentamente consideratomi, mi riconobbe alfine. — Dio sia lodato,» esclamò abbracciandomi; «sono beato che la fortuna mi presenti il destro di riparare al mio errore. Ecco le vostre merci che ebbi sempre cura di conservare, negoziandole in tutti i porti ove mi sono fermato. Ve le restituisco coll’utile che ne ricavai.» Le presi, attestando al capitano la gratitudine che gli doveva.
«Dall’isola di Salahat ci recammo in un’altra, nella quale mi provvidi di chiodi di garofano, di cannella e di spezierie. Quando ne fummo lontani, vedemmo una tartaruga di ben venti cubiti di lunghezza e larghezza; notammo pure un pesce somigliante ad una vacca: aveva latte, ed è la sua pelle di tanta durezza, che se ne fanno scudi guerreschi. Un altro ancora ne vidi che aveva la forma ed il colore del cammello. Giunto finalmente, dopo lunga navigazione, a Balsora, di là tornai in questa città di Bagdad con tante ricchezze; che ne ignorava la quantità. Ne distribuii di nuovo gran parte ai poveri, ed aggiunsi altre terre a quelle che già possedeva. —
«Terminò così Sindbad la storia del suo terzo viaggio; fece quindi dare cento altri zecchini ad Hindbad, invitandolo al banchetto dell’indomani ed alla narrazione del quarto viaggio. Hindbad e la compagnia si ritirarono, e tornati il giorno appresso, Sindbad, sulla fine del pranzo, continuò di tal guisa le sue avventure: