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«Mi condussero alla casa ove alloggiavano tutti; e colà aperta alla loro presenza la mia borsa, la grossezza de’ miei diamanti li sorprese, e mi confessarono, che in nessuna delle corti ov’erano stati, non nè avevano veduto uno che li pareggiasse. Pregato quindi il mercante, cui apparteneva il nido nel quale io era stato trasportato (poichè ogni mercadante ha il suo), a sceglierne per sua parte quanti voleva, egli si contentò di prenderne uno solo, e de’ meno grossi; e siccome io lo sollecitava a pigliarne altri senza complimenti: — No,» mi disse, «mi basta questo, il quale è abbastanza prezioso onde risparmiarmi la fatica di fare ormai altri viaggi per lo stabilimento della mia piccola fortuna.
«Passai la notte con que’ mercadanti, a’ quali raccontai una seconda volta la mia storia, per soddisfare quelli che non l’avevano udita. Io non poteva frenare il giubilo, al pensiero di trovarmi fuor de’ pericoli che v’ho detto. Lo stato in cui mi vedeva parevami un sogno, e non poteva credere di non aver più nulla a temere.
«Erano già vari giorni che i mercanti gettavano pezzi di carne nella valle, e poichè ognuno sembrava contento de’ diamanti ch’erangli toccati, partimmo il giorno appresso tutti insieme, e camminammo per alte montagne, nelle quali annidavano serpenti di prodigiosa lunghezza, ch’ebbimo la buona sorte di evitare. Giunti al primo porto di mare, passammo all’isola di Roha, ove alligna l’albero dal quale si trae la canfora, e ch’è tanto grosso e fronzuto, che cento uomini vi possono stare comodamente all’ombra. Il succo, di cui formasi tale sostanza, scola da un’incisione che si fa all’alto dell’albero, e vien raccolto in un vaso ove prende consistenza, e diventa quella che chiamiamo canfora. Estrattone così il succo, l’albero inaridisce e muore.