Le Mille ed una Notti/Storia di Sindbad il navigatore
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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STORIA
DI SINDBAD IL NAVIGATORE.
«Sire, sotto il regno del medesimo califfo Aaron al-Raschid, di cui v’ho testè parlato, eravi a Bagdad un povero facchino di nome Hindbad. Un giorno di eccessivo caldo, portava costui un pesantissimo carico da un capo all’altro della città, ed essendo stanco della strada già fatta, giunse in una via fresca e ventilata, il cui suolo era inaffiato d’acqua di rose. Non potendo desiderare uno zeffiro più favorevole per riposare e riprender forze, depose il carico, e vi sedette sopra, vicino ad una bella casa.
«Si felicitò allora d’essersi fermato in quel luogo, poichè l’odorato gli fu gratamente solleticato da un delizioso profumo di legno d’aloè e di pastiglie, che usciva dalle finestre di quel palazzo, e che mescolandosi coll’odore dell’acqua di rose, finiva d’imbalsamar l’aria. Inoltre, udì nell’interno un concerto di vari stromenti, accompagnato dall’armonioso canto di gran numero di usignuoli ed altri uccelli particolari al clima di Bagdad. Quella graziosa melodia, e la grata esalazione di varie sorta di vivande, che si faceva sentire, facendogli giudicare che colà si banchettasse allegramente, volle egli sapere chi abitasse in quella casa, che non conosceva, non avendo mai occasione di passar per quella contrada. Per soddisfare alla sua curiosità, si accostò ad alcuni servi, sfarzosamente vestiti, che vide alla porta, e chiese ad uno di loro come si chiamasse il padrone della casa. — Come!» gli rispose il servitore; «siete di Bagdad, ed ignorate questa essere la dimora del signor Sindbad il navigatore, di quel famoso viaggiatore che ha percorso tutti i mari del globo?» Il facchino, che aveva udito parlare delle ricchezze di Sindbad, non potè trattenersi dall’invidiare un uomo, di cui trovava, la condizione tanto felice quanto deplorabile la propria. Coll’animo inasprito da tali riflessioni, alzò gli occhi al cielo, e disse a voce alta abbastanza da essere inteso: — Potente Creatore di tutte le cose, considera la differenza che passa tra Sindbad e me; io soffro ogni giorno mille e mille mali, e con fatica riesco a nutrir me e la mia famiglia di cattivo pane d’orzo, mentre il felice Sindbad profonde immense ricchezze, e conduce una vita piena di delizie. Che ha egli mai fatto per ottenere da te sì beato destino? Che fec’io per meritarne uno sì tristo?» Così dicendo, battè i piedi, come uomo all’ultima disperazione... Stava ancora immerso ne’ tristi suoi pensieri, quando vide uscire dalla casa e dirigersi a lui un servo che, presolo pel braccio, gli disse: — Venite, seguitemi; il signor Sindbad, mio padrone, vi vuol parlare.»
Il giorno, comparso allora, impedì a Scheherazade di continuare la storia; ma il giorno dopo la riprese così:
NOTTE LXX
— Sire, vostra maestà può agevolmente immaginare la sorpresa d’Hindbad a tal complimento. Dopo il discorso da lui tenuto, aveva motivo di temere che Sindbad mandasse a cercarlo per fargli qualche brutto scherzo; laonde volle scusarsene, adducendo di non poter abbandonare il carico in mezzo alla strada; ma il servo di Sindbad l’assicurò che n’avrebbe preso cura, e lo incalzò in guisa sull’ordine di cui era latore, che il facchino fu costretto a cedere alle sue istanze.
«Lo introdusse il servo in una gran sala, ove vide buon numero di persone sedute intorno ad una mensa coperta d’ogni specie di dilicati cibi. Al posto d’onore scorgevasi un uomo grave, di belle forme, e venerabile per lunga barba bianca; dietro a lui stava in piedi una turba d’ufficiali e schiavi solleciti a servirlo: era Sindbad. Il facchino, di cui crebbe il turbamento al vedere tanta gente raccolta ad un sì superbo banchetto, salutò tremante la brigata. Sindbad gli disse di accostarsi, e fattolo sedere alla propria destra, gli porse egli stesso i migliori cibi, e gli fe’ recare vino squisito, di cui abbondantemente era munita la credenza.
«Verso la fine del pranzo, Sindbad, presa la parola, e volgendosi a Hindbad, che trattò da fratello, secondo l’uso degli Arabi, quando parlano tra loro familiarmente, gli chiese il suo nome e qual ne fosse la professione. — Signore,» rispose l’altro, «io mi chiamo Hindbad e fo il facchino. — Sono assai contento di vedervi,» ripigliò Sindbad, «e vi garantisco che anche la compagnia vi vede con egual piacere; ma desidererei sapere dalla vostra medesima bocca cosa dicevate poco fa in istrada.» Sindbad, prima di mettersi a tavola, aveva inteso tutto il suo monologo dalla finestra, e ciò fu il motivo che indotto lo aveva a farlo chiamare.
«A tal domanda, Hindbad, confuso, chinò la testa e rispose: — Signore, vi confesso che la mia stanchezza mi aveva posto di mal umore, cosicchè mi sfuggirono alcune indiscrete parole, che vi supplico di perdonarmi. — Oh! non crediate,» ripigliò Sindbad, «ch’io sia tanto ingiusto da serbarne rancore. Mi metto al vostro luogo; invece di rimproverarvi le vostre mormorazioni, vi compiango; ma bisogna ch’io vi tragga da un errore, in cui mi sembrate a mio riguardo. Voi v’immaginate di certo, che senza stenti e lavoro io abbia acquistato tutti gli agi ed il riposo di cui mi vedete godere: disingannatevi. Io non pervenni a condizione sì fortunata, se non dopo aver sofferto per molti anni tutti i travagli di corpo e di spirito che concepir possa l’immaginazione. Sì, signori,» soggiunse, volgendosi a tutta la compagnia, «posso accertarvi che questi travagli furono tanto straordinarii, da esser capaci di far passare agli uomini più avidi di ricchezze la fatal voglia di traversare i mari per acquistarle. Voi forse udiste confusamente parlare delle mie strane avventure e dei pericoli da me incorsi nei sette viaggi che feci sull’oceano, e poichè se ne presenta il destro, voglio farvene la relazione fedele: credo non vi dispiacerà di udirla.
«Siccome Sindbad voleva raccontare la sua storia, specialmente a cagione del facchino, prima di cominciarla ordinò di recare il carico, lasciato da lui in nel luogo ove Hindbad desiderò fosse portato. Quindi parlò egli in questi sensi: