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battendo sulle assi. Notai altri pesci, che non avevano più d’un cubito, e per la testa somigliavano ai gufi.
«Al mio ritorno, stando un giorno sul porto, vi approdò un naviglio. Appena calate le ancore, cominciarono a scaricarne le merci, ed i mercanti a’ quali appartenevano, facevanle trasportare ne’ magazzini. Volgendo gli occhi su alcune balle e sullo scritto che denotava a chi appartenevano, vi lessi il mio nome; esaminatele ben bene, non dubitai non fossero quelle da me fatte caricare sul vascello nel quale erami imbarcato a Balsora. Riconobbi anzi il capitano, ma essendo persuaso ch’ei mi credeva morto, me gli accostai, e gli chiesi a chi appartenessero quelle balle, — Aveva a bordo,» mi rispose, «un mercadante di Bagdad, chiamato Sindbad. Un giorno che ci trovavamo vicino a un’isoletta, a quanto ci pareva, egli sbarcò, con parecchi passaggeri su questa pretesa isola, la quale altro non era che una balena d’enorme grossezza, addormentata a fior d’acqua. Non appena sentì il mostro l’ardore del fuoco acceso sul di lui dorso dai nostri per farla cucina, cominciò a moversi e sprofondò nell’acqua. La maggior parte delle persone che v’erano sopra annegarono, e l’infelice Sindbad fu del numero. Sue erano queste balle, ed io determinai di negoziarle finchè incontri qualcuno della sua famiglia, a cui rendere l’utile che ne avrò ricavato, insieme al capitale. — Capitano,» gli dissi allora, «io sono quel Sindbad che credete morto, e che non lo è; quelle merci sono di mia proprietà....»
Scheherazade non disse di più per quella volta, ma la notte susseguente continuò di tal modo: