Le Mille ed una Notti/L'asino, il bue e il coltivatore
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Traduzione dall'arabo di Antoine Galland, Eugène Destains, Antonio Francesco Falconetti (1852)
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L’ASINO, IL BUE ED IL COLTIVATORE.
«Certo ricco mercante possedeva molte case in campagna, nelle quali faceva allevare ogni sorta di bestiame. Ei s’era ritirato colla moglie e coi figli in un suo podere, compiacendosi d’amministrarlo da sè stesso. Costui aveva il dono d’intendere il linguaggio delle bestie, sotto condizione però di non poterlo spiegare a nessuno, pena la vita.
«Or dunque stavano alla medesima mangiatoia un bue ed un asino. Un dì che il mercante era seduto vicino a codesti animali, dilettandosi ai trastulli dei suoi fanciullini, udì che il bue diceva all’asino: — Ehi, lo Svegliato, quand’io considero la pace di cui godi, ed il poco lavoro che ti è imposto, affè, invidio davvero la tua felicità! Un uomo ti stregghia accuratamente, ti lava, ti porge orzo ben purgato, ed acqua fresca e limpida. La tua maggior fatica è di portare il mercante nostro padrone, allorchè deve fare qualche viaggetto: in caso diverso tu poltriresti nell’ozio; mentre io invece quanto sono diversamente trattato! e posso dire che la mia condizione è tanto trista, quanto gradevole la tua. È ancor mezzanotte che m’aggiogano ad un aratro, e mi costringono a trascinarlo per tutto il dì solcando la terra; sì che talora mi vengono meno le forze. Inoltre il bifolco che mi sta dietro, mi va stimolando e battendo di continuo. Guarda com’ho scorticato il collo dal giogo; nè qui è tutto: dopo aver lavorato da mane a sera, al mio ritorno mi mettono dinanzi poche cattive fave secche, non ancor pulite dalla terra, od altre cose che non valgon meglio. Per colmo di miseria, allorchè sono pasciuto d’un sì meschino alimento, mi veggo costretto a passar la notte sdraiato nel mio sterco. Or vedi se non ho ragione d’invidiare la tua sorte.
«L’asino lasciò parlare a suo bell’agio il bue, e quand’ebbe finito, così rispose: — Voi non ismentite il nome d’idiota che vi fu imposto: siete troppo sempliciotto, vi lasciate menar pel naso, nè siete atto a prendere una buona risoluzione. Or ditemi, qual vantaggio ritraete dai mali trattamenti che soffrite? Voi vi straziate pel riposo, il piacere e l’utile di gente che hanno in non cale i vostri servigi: se il coraggio in voi fosse pari alla forza, non sareste trattato così. Quando vengono a legarvi alla mangiatoia, perché non fate resistenza? perché non date loro delle buone cornate? perché non mostrate il vostro sdegno battendo co’ piedi il suolo? perché finalmente non incuter tenore con ispaventevoli muggiti? La natura v’ha dato i mezzi di farvi rispettare, e voi non sapete usarne. Se vi si pongono davanti cattive fave e cattiva paglia, non mangiatene; fiutatele soltanto e non ne pigliate. Seguite i miei consigli, e vedrete tosto un cambiamento di cui mi ringrazierete.
«Il bue si dimostrò grato ai suggerimenti dell’asino, poi soggiunse: — Caro il mio Svegliato, io non mancherò di fare tutto quello che m’hai consigliato, e vedrai in qual modo saprò cavarmi d’impaccio.» Tacquero dopo tal colloquio, cui il mercadante prestato aveva attento orecchio.
«La mattina seguente, il bifolco venne a pigliare il bue per aggiogarlo all’aratro e condurlo al solito lavoro, ma l’animale, che non aveva scordati i consigli dell’asino, mostrossi in tutto il dì pigro e cattivo, e la sera, quando fu ricondotto alla mangiatoia, il malizioso, invece di presentare da sè le corna per essere legato, si mise a fare il restio, a dar indietro muggendo, ed abbassò perfino le corna, quasi per colpirne il bifolco; fece insomma quanto avevagli insegnato l’asino. Al nuovo mattino il bifolco volle cavarlo di stalla per ricondurlo al lavoro, ma veduta la mangiatoia ancor piena delle fave e della paglia messavi la sera precedente, e il bue sdraiato per terra colle gambe stirate ed ansante in istrana guisa, lo credè ammalato, n’ebbe pietà, e stimando inutile condurlo al lavoro, corse ad avvisarne il padrone.
«Il buon mercante s’accorse allora che i tristi suggerimenti dello Svegliato erano stati ascoltati, e per punirlo come meritava: — Va,» disse al bifolco, «prendi l’asino invece del bue, e cerca di farlo stare ben in esercizio.» Il bifolco obbedì, e l’asino fu costretto a tirar l’aratro tutto il giorno, con tanta maggior fatica in quanto che non era avvezzo a tal lavoro. Inoltre ei buscossi tante bastonate, che nel ritorno mal poteva reggersi in piedi.
«Intanto il bue era contentissimo, avendo mangiato quanto conteneva il truogolo e preso riposo fino a sera; rallegravasi assai d’aver seguito i consigli dello Svegliato, benedicendolo mille volte pel bene procuratogli, e quand’esso tornò, gli diresse un bel complimento cui l’asino non rispose, tanto era indispettito pei sofferti maltrattamenti. — Fu la mia imprudenza,» diceva tra sè, «che mi procurò tal disgrazia. Io viveva felice, tutto mi sorrideva, ogni mio desiderio era soddisfatto. È mia colpa se caddi in sì deplorabile stato; e se la mia accortezza non mi suggerisce qualche spediente, io sono perduto.» Sì dicendo, gli mancarono le forze, e cadde semivivo a piè della mangiatoia.» A tal punto il gran visir, volgendosi a Scheherazade, le disse: — Figlia mia, tu vuoi fare come quell’asino, e ti esponi a perire per la tua falsa prudenza. Credi a me, rimanti tranquilla, e non cercar d’affrettare la tua morte. — Padre,» rispose Scheherazade, «l’esempio che mi narraste non vale a smovermi dal mio proposito: io non cesserò dall’importunarvi, finchè non abbia ottenuto d’essere presentata al sultano in isposa.» Il visir, scorgendola ferma sempre nella sua deliberazione, rispose: — Orsù, giacchè sei tanto ostinata, mi vedrò costretto di trattarti come il mercante trattò la propria moglie poco tempo dopo, ed ecco in qual guisa:
«Quel mercante avendo saputo che l’asino era in lagrimevole stato, fu curioso di sapere che cosa accadrebbe tra esso ed il bue; cosicchè dopo cena uscì al chiaro di luna, e si pose a sedere colla moglie vicino ai due animali. Appena giunto, udì che l’asino diceva al bue: — Compare, ditemi in grazia che cosa pensate di fare quando il bifolco vi recherà domani da mangiare? — Che cosa farò?» rispose il bue; «continuerò a fare quanto m’hai insegnato. Sulle prime mi scosterò e gli presenterò le corna come ieri: poi mi fingerò ammalato agli estremi. — Guardatevene bene,» soggiunse l’asino; «sarebbe il mezzo di ruinarvi; perchè nel giunger qui stasera, sentii il mercante nostro padrone dire una cosa che mi fe’ tremare per voi. — E che cosa avete udito?» disse il bue; «di grazia, non mi celate nulla, mio caro Svegliato. — Il nostro padrone,» soggiunse l’asino, «disse al bifolco queste brutte parole: Giacchè il bue non mangia, e non può reggersi sulle gambe, voglio che domani sia ucciso. Faremo elemosina della sua carne ai poverelli per amor di Dio, e la sua pelle che ci può esser utile, la darai al conciatore: ricordati di chiamare il macellaio. Ecco che cosa aveva a dirvi,» continuò l’asino; «l’amore ch’io vi porto, e la premura per la vostra salute, mi obbligano a farvene avvertito ed a darvi un nuovo consiglio: quando vi porteranno la paglia e le fave, alzatevi, e mangiatele avidamente: il padrone giudicherà da ciò che voi siete guarito, e rivocherà di certo la sentenza di morte. Se operate altrimenti, siete perduto.
«Quel discorso produsse il bramato effetto sul bue, che n’ebbe uno strano turbamento, e muggì di terrore. Il mercante, il quale avevali ascoltati, proruppe allora in una sì grande risata, che sua moglie ne fu oltremodo sorpresa. — Spiegatemi,» diss’ella, «perchè voi ridete sì forte, acciò io pure ne rida con voi. — Moglie,» rispose il mercante, «accontentatevi ad udirmi ridere. — No,» soggiunse quella, «io vo’ saperne la cagione. — Non posso soddisfarvi,» ripigliò il marito; «siavi noto soltanto ch’io rido d’un discorso che tenne poco fa l’asino al bue; il resto è un segreto che non m’è lecito palesarvi. — E chi ve lo proibisce?» rispose la moglie. — Sappiate che se ve lo dicessi, mi costerebbe la vita. — Voi vi burlate di me,» sclamò la moglie; «quel che mi dite non può esser vero. Se non mi confessate tosto il motivo che vi mosse a ridere, se voi ricusate di palesarmi quanto dissero il bue e l’asino, giuro, per quel Dio che sta in cielo, che non convivremo più insieme.
«Ciò detto, entrò in casa, ed incantucciatasi presso una finestra, vi passò la notte a piangere dirottamente. Il marito dormì solo, e l’indomani, vedendo ch’ella non ristava dal gemere: — Moglie mia,» le disse, «non è saviezza questa vostra di volervi tanto affliggere: la cosa non ne val la pena, e v’importa sì poco di conoscerla, quanto a me importa assai di tenerla segreta. Pertanto vi scongiuro di non pensarvi più. — Anzi vi penso in modo,» rispose la moglie, «che non cesserò dal piangere, sinchè non avrete soddisfatta la mia curiosità. — Ma vi dico da senno,» soggiunse il marito, «che se mai cedessi alle vostre indiscrete istanze, me ne costerebbe la vita. — Avvenga ciò che a Dio piace,» ripigliò la donna, «non per questo desisterò. — Mi accorgo,» disse il mercante, «non esservi modo di farvi capir ragione, e siccome preveggo che per la vostra caparbietà sareste capace di lasciarvi morire, farò tosto chiamare i vostri figli, acciò abbiano la consolazione di vedervi prima che esaliate l’anima.» Fe’ venire infatti i figliuoli, e mandò pure a chiamare i genitori e parenti della moglie, ai quali, quando furono radunati, narrò il motivo della loro discordia. Adoperarono essi ogni eloquenza per far comprendere alla donna il torto che aveva di voler persistere nella sua ostinazione: ma colei rifiutò ogni buona parola, e giurò di voler morire mille volte anzichè cedere al marito. Indarno il padre e la madre le posero sott’occhio essere per lei cosa di niuna importanza quella cui bramava tanto sapere; essi non fecero breccia alcuna sull’animo di lei, nè coll’autorità, nè colle parole. I figli, vedendo ch’ella si ostinava a rigettare tutte le sane ragioni colle quali tentavasi di vincere la sua testardaggine, diedero in dirotto pianto; lo stesso mercadante non sapeva più che cosa fare, e seduto soletto vicino alla porta della casa, stava già deliberando se dovesse sacrificare la propria vita per salvare quella della moglie da lui teneramente amata.
«Ora, figliuola mia,» proseguì il visir parlando sempre a Scheherazade, «quel mercante aveva cinquanta galline ed un gallo, con un cane, che faceva buona guardia. Mentre egli era seduto come dissi, meditando profondamente al partito cui appigliarsi, vide il cane correre verso il gallo, il quale erasi gettato sopra una gallina, ed udì che gli diceva: — Olà gallo! Iddio non ti darà al certo lunga vita! Non ti vergogni di fare oggi quello che fai?» Incollerito il gallo, voltossi fieramente al cane: — Perchè,» rispose, «mi sarà oggi ciò vietato piuttosto che negli altri giorni? — Giacchè l’ignori,» soggiunse il cane, «sappi che il padrone è oggi in grande angustia: sua moglie vuole ch’ei le palesi un segreto, scoperto il quale gli costerebbe la vita. Le cose sono a tal punto, e temo ch’egli non abbia fermezza bastante da resistere alla caparbietà della moglie, perché l’ama ed è commosso dalle di lei continue lagrime. Egli è forse agli estremi, e noi tutti della casa ne siamo in gran pena: tu solo insulti al nostro dolore, avendo l’impudenza di sollazzarti colle tue galline.» Allora il gallo sì rispose ai rimbrotti del cane: — Quant’è stolto il nostro padrone! Egli ha una sola moglie, e non sa farsi obbedire, mentr’io ne ho cinquanta che fanno l’unica mia volontà. Ch’ei chiami in aiuto la sua ragione, e troverà tosto il mezzo di trarsi d’impaccio. — E che vorresti tu ch’ei facesse?» disse il cane. — Ch’egli entri nella stanza della moglie, vi si chiuda con lei, pigli un buon bastone, e le scateni addosso un migliaio di colpi: scommetto che colei guarirà dalla sua ostinazione, nè più lo costringerà a palesarle il suo segreto.» Il mercadante, appena ebbe udite le parole del gallo, alzossi, prese un grosso bastone, recossi dalla moglie che non finiva mai di piangere, e chiusosi con lei, si mise a batterla con tanta furia, che alla perfino essa non potè trattenersi dallo sclamare: — Basta, marito mio, basta per pietà; io non ti chiederò più nulla.» Allora, vedendo ch’ella si pentiva d’essere stata sì mal a proposito curiosa, cessò di maltrattarla, ed aperta la porta, fe’ entrare tutto il parentado, che rallegrandosi di trovare la donna guarita dalla sua caparbietà, complimentò il marito del felice espediente, ond’erasi servito per metterla alla ragione. Figliuola,» soggiunse il granvisir, «tu meriteresti d’essere trattata come la moglie di quel mercadante — Padre mio,» disse allora Scheherazade, «non ispiacciavi, di grazia, ch’io persista ne’ miei sentimenti. La storia di quella donna non mi saprebbe smovere, ed io potrei narrarvene molte altre, le quali vi persuaderebbero che non dovete opporvi al mio divisamento; d’altra parte, e perdonate se oso dichiararvelo, voi vi opporreste invano: quand’anche la tenerezza paterna ricusasse di cedere alle mie preghiere, io andrei a presentarmi in persona al sultano.»
Alla fine il padre, vinto dalla fermezza della figlia, si arrese alle sue importunità, e benchè afflittissimo di non essere riuscito a distoglierla da sì funesta risoluzione, andò nello stesso momento da Schahriar ad annunziargli che la prossima notte gli avrebbe condotta Scheherazade.
Il sultano rimase sorpreso assai del sacrificio che gli faceva il suo gran visir. — Come avete potuto,» gli disse, «risolvervi a darmi la vostra propria figliuola? — Sire,» rispose il visir, «ella si offerta da sè medesima, nè il tristo fine che l’aspetta, ha potuto spaventarla, preferendo ella alla vita l’onore d’essere per una sola notte sposa di vostra maestà. — Non v’illudete, o visir,» riprese il sultano; «domani nel riconsegnarvi Scheherazade, esigo che abbiate a torle la vita. Se vi mancaste, guai, giuro di farvi morire voi medesimo. — Sire,» tornò a dire il visir, «il mio cuore gemerà, di certo, nell’obbedirvi: ma mormori pur la natura benchè padre, io vi rispondo d’un braccio fedele.» Accettò Schahriar l’offerta del ministro, e gli disse di condurgli, quando a lui fosse piaciuto, la figliuola.
Il gran visir andò a portarne la nuova a Scheherazade, la quale la ricevette con tanta gioia quasi stata fosse la più gradevole del mondo. Ringraziò il padre di averla esaudita, e vedendolo oppresso dal dolore, per consolarlo dissegli, sperare ch’ei non si sarebbe pentito d’averla maritata col sultano, anzi avrebbe argomento di rallegrarsene pel resto della vita.
Essa non pensò dunque più che a mettersi in istato di comparire al cospetto del sultano; ma prima di partire, prese in disparte la sorella Dinarzade, e così le parlò: — Mia cara sorella, ho bisogno del tuo aiuto in un affare importantissimo; ti prego a non negarmelo. Mio padre mi condurrà fra poco al sultano per esserne la sposa. Che questa nuova non ti spaventi; solo ascoltami con pazienza. Appena sarò davanti al sultano, lo supplicherò di permettere che tu dorma nella camera nuziale, ond’io possa godere ancor questa notte della tua compagnia. Se ottengo tal grazia, siccome spero, ricordati di svegliarmi domattina un’ora prima di giorno, e volgermi queste parole: «Cara sorella, se non dormi, ti supplico, attendendo il giorno, che in breve apparirà, di raccontarmi una di quelle belle storielle che sai.» Tosto io ne narrerò una, ed ho fiducia di liberare per tal mezzo tutto il popolo dalla costernazione ond’è oppresso.» Dinarzade rispose alla sorella che avrebbe fatto con piacere quanto da lei esigeva.
Venuta in fine l’ora di caricarsi, il gran visir condusse Scheherazade al palazzo, ed introdottala nell’appartamento del sultano, si ritirò. Non appena si vide il principe con lei, le ordinò di scoprirsi il volto, e trovandola sì bella ne rimase allettato, ma accortosi che piangeva, gliene chiese il motivo. — Sire,» rispose Scheherazade «io ho una sorella che amo tanto teneramente quanto ne sono riamata. Bramerei ch’ella passasse la notte in questa camera, per vederla e dirle un’altra volta addio. Vorreste permettere ch’io avessi la consolazione di darle quest’ultimo attestato della mia amicizia?» Avendo Schahriar acconsentito, si mandò a cercare Dinarzade, che venne sollecitamente. Il sultano si coricò con Scheherazade sopra un palco altissimo all’uso dei monarchi d’Oriente, e Dinarzade in un letto ch’erale stato preparato vicino.
Un’ora prima di giorno, svegliatasi Dinarzade, non mancò di fare quanto avevale raccomandato la sorella. — Mia cara sorella,» sclamò essa, «se non dormi, ti supplico, attendendo il giorno, che non tarderà molto ad apparire, di narrarmi una di quelle graziose storielle che sai. Aimè! temo sarà forse questa l’ultima volta che avrò tal diletto.»
Scheherazade, invece di rispondere alla sorella, si volse al sultano: — Sire,» gli disse, «si degna vostra maestà permettermi di dare questa soddisfazione a mia sorella? — Assai volentieri,» rispose il sultano. Allora Scheherazade disse alla sorella d’ascoltare, e volgendo la parola a Schahriar, cominciò di tal modo: