Le Mille ed una Notti/Le Mille ed una Notti

Le Mille ed una Notti

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Le Mille ed una Notti L'asino, il bue e il coltivatore
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LE

MILLE ED UNA NOTTI

NOVELLE ARABE


Nelle cronache dei Sassanidi, antichi re di Persia1, i quali avevano esteso il loro impero sin nelle Indie, alle grandi e piccole isole dipendenti, e ben oltre il Gange fino alla China, leggesi aver esistito altre volte un re di questa possente famiglia, il miglior principe de’ suoi tempi, non tanto amato dai sudditi per la saviezza e prudenza sua, quanto temuto dai vicini pel proprio valore, e la fama delle sue bellicose e ben disciplinate soldatesche. Codesto re aveva due figli, il maggiore de’ quali, degno erede delle paterne virtù, chiamavasi Schahriar; il secondogenito, non meno virtuoso e stimato, Schahzenan.

Dopo un lungo e glorioso regno, questo re esalava la grand’anima, e Schahriar salì al trono. L’altro [p. 2 modifica]fratello, escluso da ogni diritto d’eredità per le leggi dell’impero, e costretto a vivere come un semplice privato, invece di palesarsi invidioso della fortuna del maggiore, pose ogni studio a cattivarsene il favore; nè molto costògli a riuscirvi. Schahriar, già per natura incline ad amarlo, fu assai commosso dalla di lui compiacenza, e tanta stima ne concepiva, che volle farlo partecipe de’ suoi domini, affidandogli il governo della Grande Tartaria. Schahzenan andò tosto a pigliarne possesso, fissando dimora a Samarcanda, capitale del regno.

Erano già dieci anni che i due re vivevano così lontani l’un dall’altro, quando Schahriar, bramando vivamente di rivedere il fratello, risolse spedirgli un ambasciatore che lo invitasse alla propria corte, ed incaricò di tal missione il suo primo visir2, che frettolosamente si pose in via con nobilissimo corteo. Giunto ch’ei fu vicino a Samarcanda, Schahzenan, saputone l’arrivo, gli mosse incontro coi principali signori della sua corte, tutti splendidamente vestiti, onde meglio onorare il ministro del sultano. Il re di Tartaria lo accolse colle maggiori dimostrazioni di gioia, e tosto chiesegli nuove del caro fratello; il visir, appagatolo, espose quindi la causa della sua ambasciata, a cui Schahzenan, commosso: — Saggio visir,» rispose, «il sultano mio fratello troppo m’onora, nè poteva propormi cosa più di questa gradita. S’ei desidera vedermi, io pure ardentemente lo bramo, chè se il tempo inconcussa mi serbava la sua amicizia, neppur la mia scemò. Il mio regno è tranquillo, e chieggo soltanto dieci giorni per fare i preparativi necessarii alla partenza; pel qual breve tempo parmi inutile che entriate nella [p. 3 modifica]città; laonde vi prego di fermarvi in questo luogo, ed eriger quì le vostre tende, ch’io avrò cura vi siano mandati rinfreschi in abbondanza per voi e tutto il vostro seguito.» Infatti, non appena il re fu tornato in Samarcanda, il visir vide recarsi prodigiosa quantità di provvigioni d’ogni sorta, insieme a regali d’inestimabile valore.

Intanto Schahzenan, preparandosi alla partenza, ordinò gli affari più urgenti, e stabilì un consiglio che governasse il regno durante la sua assenza, ponendovi alla testa un ministro nella cui saggezza e fedeltà interamente fidava. Dopo dieci giorni essendo pronti gli equipaggi, s’accommiatò dalla regina sua moglie, ed uscito sull’imbrunire da Samarcanda, recossi cogli ufficiali che dovevano scortarlo al padiglione reale fatto da lui erigere presso le tende del visir, col quale si trattenne a colloquio fino a mezzanotte. Dopo di che bramando abbracciare un’altra volta la regina, ch’egli amava con passione, tornò solo al palazzo, e si recò difilato alle stanze di questa principessa, la quale, ben lontana dal sospettarne l’improvviso ritorno, avea accolto in letto uno de’ più bassi ufficiali della sua casa: era già molto tempo che giacevano insieme, e dormivano di profondo sonno.

Il re entrò senza far rumore, tutto ebbro al pensiero della gioia che l’improvvisa sua venuta cagionato avrebbe a quella sposa, da cui credevasi teneramente riamato. Ma qual fu il di lui stupore, allorchè al chiarore delle faci, che ardono sempre di notte negli appartamenti principeschi, scorse un uomo fra le di lei braccia! Ei rimase immobile alcuni istanti, non potendo credere a’ propri occhi, ma accertatosi del fatto: — Che!» disse fra sè; «sono appena uscito dal palazzo, sono ancora sotto le mura di Samarcanda, e già mi si reca oltraggio? Ah! perfidi, il vostro delitto non andrà impunito! Come re, mi tocca castigare i misfatti che [p. 4 modifica]si commettono ne’ miei stati; come sposo offeso, debbo immolarvi al mio sdegno.» E lo sciagurato principe, cedendo a quel primo impeto, snudò la scimitarra, ed accostatosi al letto, d’un sol colpo fe’ passare i rei dal sonno alla morte; indi presi i cadaveri, gettolli dalla finestra nel fossato che circondava il palazzo.

Vendicatosi di tal guisa, uscì dalla città come n’era entrato, e si recò al suo padiglione, ove appena giunto, senza far parola ad alcuno dell’accaduto, comandò di piegar le tende e dare il segnale della partenza. In breve tutto fu allestito, e non albeggiava ancora, quando si posero in via al suono dei timballi e di vari altri strumenti, che infondevano allegria in tutti, tranne al re, il quale, per l’infedeltà della regina, s’abbandonò ad una cupa melanconia per tutto il viaggio.

Giunto vicino alla capitale delle Indie, vide venirsi incontro il sultano3 Schahriar con tutta la corte; impossibile sarebbe descrivere la gioia dei due principi nel rivedersi. Entrambi balzarono a terra per abbracciarsi, e datisi mille reciproci contrassegni di tenerezza, risalirono a cavallo, ed entrarono nella città fra le acclamazioni di una immensa turba di popolo. Il sultano condusse il fratello fino al palazzo per lui destinato, comunicante col suo per mezzo del medesimo giardino; questo palazzo, già magnifico per sè, essendo adoperato nelle feste della corte, era cresciuto in isplendore per nuovi adornamenti.

Schahriar lasciò il re di Tartaria per dargli il tempo di entrare nel bagno e cambiar abiti; e quando seppe che n’era uscito, venne a visitarlo. Sedettero entrambi sopra un sofà, e mentre i cortigiani stavano in disparte per rispetto, i due principi si misero a favellare di ciò che due fratelli, uniti più per amicizia che [p. 5 modifica]per sangue, ponno dirsi dopo lunga assenza. Venuta l’ora della cena, mangiarono insieme; poscia ripigliarono il loro colloquio, che si protrasse, finchè Schahriar, accorgendosi dell’ora già inoltrata, si ritirò per lasciar riposare il fratello.

L’infelice Schahzenan si pose a letto; ma se la presenza del sultano aveva per poco soffocato le sue ambasce, esse ridestaronsi allora con violenza, ed invece di gustare il riposo onde abbisognava, fu assalito dai più atroci pensieri; tutte le circostanze dell’infedeltà della regina presentaronsi sì vivamente alla di lui imaginazione, che quasi fu per impazzirne. Infine, non potendo dormire, alzossi, ed abbandonatosi del tutto al suo cordoglio, tanto vi s’immerse, che n’ebbe il volto contristato oltremodo, talchè avvedutosene la mattina, il sultano disse fra sè: — Che cosa ha mai il re di Tartaria? Chi può cagionargli tanta afflizione? Avrebb’egli forse motivo di dolersi dell’accoglienza che gli feci? Mai no: io l’ho accolto come un fratello prediletto, e su ciò non ho nulla a rimprocciarmi. Forse lo punge il pensiero d’essere lontano da’ suoi stati o dalla regina sua moglie. Ah! se questo mai lo affligge, bisogna che gli mandi tosto i doni per lui destinati, acciò ei possa partire quando gli aggrada, e tornarsene a Samarcanda.» Infatti, il dì dopo gli inviò una parte di que’ regali, composti dei più rari, ricchi e strani prodotti dell’Indie. Tentò inoltre distrarlo ogni giorno con divertimenti d’ogni specie; mai più dilettevoli sollazzi, anzichè rallegrarlo, ne inasprivano vie più le angosce.

Un giorno, Schahriar avendo ordinata una gran caccia in un paese assai frequentato dai cervi a due giornate dalla capitale, Schahzenan lo pregò di dispensarnelo, allegando che lo stato della propria salute impedivagli di accompagnarlo. Il sultano non volle insistere, e lasciatolo in libertà, partì con tutta la corte per quella [p. 6 modifica]partita di piacere. Il re della Gran Tartaria, rimasto solo, si chiuse nelle sue stanze, e sedè presso una finestra che guardava sul giardino. La bellezza del luogo ed il cinguettio d’una quantità d’uccelli che vi annidavano, avrebberlo mosso a gioia, se ne fosse stato capace; ma sempre straziato dalla memoria della perfidia della regina, più spesso alzava gli occhi al cielo per dolersi del suo infortunio, di quel che li fissasse nel sottostante giardino.

Nondimeno, benchè immerso in tristi meditazioni, gli fu duopo accorgersi di tal cosa che ne attrasse tutta l’attenzione. Una porticella segreta del palazzo del sultano s’aprì d’improvviso, e ne uscirono venti donne in mezzo alle quali procedeva la sultana4 con tal portamento che facevala subito ravvisare. Costei, credendo il re della Gran Tartaria alla caccia cogli altri, inoltrossi francamente fin sotto le finestre delle stanze del principe, il quale, volendo osservarla per curiosità, si acconciò in guisa di poter veder tutto inosservato. Allora scorse che le persone che accompagnavano la sultana, deposta ogni soggezione, si scopersero il viso fin allora celato, e deposero i lunghi abiti rossi che portavano al disopra di altri più corti. Ma crebbe fuor di modo la sua maraviglia, quando vide fra quegli individui, che gli erano sembrate tutte donne, dieci negri, che tosto presero ognuno il braccio della loro amante. La sultana non rimase neppur essa a lungo senza compagno, che battendo le mani, gridò: «Masud! Masud!» e tosto un altro negro scese dalla cima d’un albero, e corse premurosamente a lei.

Il pudore non ci permette di narrare le mostruosità [p. 7 modifica]cui si abbandonarono le donne con que’ negri; basterà dire che Schahzenan ne vide abbastanza per giudicare suo fratello non meno da compiangere di lui. I piaceri di quella turba amorosa durarono fino a mezzanotte; si bagnarono tutti insieme in un bel laghetto ch’era in giardino, indi per la porticella segreta rientrarono nel palazzo: il solo Masud, ch’era venuto dal di fuori scavalcando la mura del giardino, se n’andò per la stessa via.

Siccome tutte quelle cose erano avvenute sono gli occhi del re della Gran Tartaria, esse gli fecero nascere mille riflessioni. — Quanto irragionevole fui,» diceva, «di credere che la mia sciagura fosse sì strana. Questo è certo l’inevitabile destino di tutti i mariti, se il sultano mio fratello, il sovrano di tanti stati, il più gran principe del mondo, non ha potuto evitarlo. Se così è, qual stoltezza è la mia di consumarmi d’affanno! Ormai la mia determinazione è presa: la memoria d’una disgrazia sì comune non turberà più in avvenire la quiete della mia vita.» Infatti da quel momento cessò d’affliggersi, e siccome non aveva voluto cenare se non dopo aver tutta veduta la scena che accadeva sotto le sue finestre, fe’ allora ammannire la tavola, e mangiò con miglior appetito di quello avesse fatto dopo la sua partenza da Samarcanda; anzi si compiacque nell’udire un bel concerto di voci e d’istrumenti, onde fu accompagnata la cena.

Il dì seguente alzossi di lieto umore, e quando seppe il sultano di ritorno, gli mosse incontro a fargli i suoi complimenti con giocondo aspetto. Schahriar sulle prime non s’accorse di tal cambiamento, e solo si dolse con cortesi parole del suo rifiuto d’accompagnarlo alla caccia; poi, senza dargli tempo di rispondere agli affettuosi rimproveri, gli parlò del gran numero di cervi e d’altri animali da lui uccisi, o del diletto [p. 8 modifica]avutone. Schahzenan, ascoltatolo attentamente, prese quindi la parola; e siccome nessun dispiacere più non gl’impediva di far pompa di tutto il proprio spirito, disse mille argute piacevolezze.

Il sultano, credendo di trovarlo nel medesimo stato di prima, maravigliò al vederlo sì lieto: — Fratello,» gli disse, «io ringrazio il cielo del fortunato cambiamento durante la mia assenza avvenuto in voi, onde ne provo vera gioia; ma io debbo farvi una preghiera, e vi scongiuro di concedermi quanto sono per chiedervi. — Che cosa potrei io mai ricusarvi?» rispose il re di Tartaria. «Voi tutto potete sopra Schahzenan. Parlate, io sono impaziente di sapere che cosa bramate da me. — Dacchè siete alla mia corte,» soggiunse Schahriar, «io vi vidi sempre immerso in una cupa tristezza, che invano tentai dissipare con ogni sorta di divertimenti. Pensai che il vostro cordoglio provenisse dal trovarvi lontano da’ vostri stati; credetti perfino che l’amore v’avesse gran parte, e che la regina di Samarcanda, cui son persuaso avrete scelta di squisita bellezza, ne fosse per avventura la cagione. Io non so se m’ingannai nelle mie congetture; ma vi confesso essere per questa sola ragione che mi trattenni dall’importunarvi per tema di recarvi dispiacere. Tuttavia, senza averci io per nulla contribuito, or vi trovo allegro più che mai, e collo spirito al tutto libero da quel tetro vapore che ne turbava la giocondità: ditemi di grazia perchè voi eravate sì mesto, e perchè ora non lo siete più.»

A tali parole, il re della Gran Tartaria rimase alquanto pensieroso, quasi in cerca d’una risposta; infine, così prese a dire: — Voi siete il mio sultano e signore; ma dispensatemi, vi prego, di darvi la soddisfazione che mi chiedete. — No, fratello,» replicò il sultano, «è d’uopo che me l’accordiate: io la desidero, nè vorrete ricusarmela.» Schahzenan non [p. 9 modifica]potè resistere alle istanze di Schahriar, e rispose: — Or bene, fratello, poichè lo comandate, vi appagherò.» Allora gli narrò l’infedeltà della regina di Samarcanda, e quand’ebbe finito: «Ecco il motivo della mia tristezza,» proseguì; «giudicate voi s’io aveva torto di abbandonarmivi. — O fratello,» sclamò il sultano con accento che denotava quanta parte prendesse all’ira del re di Tartaria, «qual orribile istoria mi avete voi narrata! Con quanta impazienza l’ascoltai dal principio alla fine! Io vi lodo d’aver punito i traditori, che vi recarono sì crudele oltraggio. Nessuno potrebbe rimproverare la vostra azione; essa fu giusta; e quanto a me vi confesso che in simil caso avrei usata molto minor moderazione, nè mi sarei appagato di togliere la vita ad una sol donna; mille, oh sì! ne avrei sacrificato al mio furore. Ora non istupisco più del vostro passato cordoglio; la cagione erane troppo viva ed umiliante per non soccombervi. O cielo, qual avventura! In verità, io credo che ad alcuno non sia accaduto nulla di simile. Ma infine bisogna lodare Iddio che v’abbia dato argomento di consolazione, e poichè non dubito ch’esso non sia ben fondato, abbiate la compiacenza d’istruirmene.»

Schahzenan si oppose vivamente a tal confessione, che troppo davvicino interessava il fratello; ma fu duopo cedere alle ripetute sue istanze. — Io vi obbedirò,» gli disse, «poichè lo esigete: temo però che la mia obbedienza non vi cagioni maggior dolore di quel che n’ebbi io stesso. Ma non potrete accusarne se non voi solo, costringendomi così a palesare un fatto ch’io vorrei eternamente sepolto nell’oblio. — Le vostre parole,» soggiunse Schahriar, «eccitano vie più la mia curiosità; laonde, qualunque ei sia, vi prego di svelarmi sull’istante questo segreto.» Il re di Tartaria, cedendo allora all’impazienza del fratello, narrò [p. 10 modifica]partitamente quanto aveva veduto, il travestimento dei negri, gli eccessi della sultana e delle sue donne, nè dimenticò Masud. — Dopo che fui testimonio di tali infamie,» proseguì egli, «pensai che tutte le donne vi fossero per natura inclinate, e non potessero resistere ai loro smodati appetiti. Pieno di tal opinione, parvemi stoltezza da parte d’un uomo il commettere il proprio riposo alla loro fedeltà; e così trascorrendo d’una in altra riflessione, pensai alla fine il miglior partito esser quello di darmi pace. Ci vollero non pochi sforzi, ma ne venni a capo; e voi pure, a parer mio, dovete imitarmi.»

Benchè assennato fosse il consiglio, il sultano non potè piegarvisi, ed anzi andò sulle furie. — Che!» disse; «la sultana delle Indie fu capace di prostituirsi in modo sì indegno! No, fratello, io non posso credere a quanto mi dite, se nol veggo co’ miei propri occhi: i vostri possono avervi ingannato, e la cosa parmi di tale importanza, da accertarmene per me stesso. — Fratello,» rispose Schahzenan, «se volete esserne testimonio, ciò non sarà molto difficile: ordinate una nuova caccia, e quando saremo fuor della città colla vostra corte e la mia, ci fermeremo sotto i nostri padiglioni, e la notte torneremo amendue soli nel mio appartamento. Io sono certo che il dì dopo vedrete quant’io ho veduto.» Il sultano approvò lo strattagemma, e tosto bandì un’altra caccia, di modo che nel dì medesimo le tende furono erette nel luogo indicato.

Il giorno dopo, i due principi partirono con tutto il loro seguito. Giunti all’accampamento, vi rimasero fino a notte. Allora Schahriar chiamò il gran visir, e senza partecipargli il concepito progetto, gli impose di occupare il suo posto durante la di lui assenza, e non permettere a veruno di uscire dal campo per qualsiasi motivo. Dati tali ordini, il sultano col re della Gran Tartaria salirono a cavallo, [p. 11 modifica]attraversarono incogniti il campo, e recaronsi al palazzo di Schahzenan; si coricarono, e sorto il mattino, si misero alla finestra d’onde il re di Tartaria aveva veduto la scena dei negri. Essi godettero alcun tempo della frescura, non essendo ancora alzato il sole, e favellando, volgevano sovente gli occhi dalla parte della porta segreta. Finalmente questa s'apri, e, per dirla in breve, apparve la sultana colle donne ed i dieci negri travestiti; essa chiamò Masud, ed il sultano ne vide più che non fu bisogno per convincerlo del suo disonore e della sua sventura. — Oh Dio!» sclamò; «quale perfidia! qual orrore! La sposa d’un sovrano par mio può ella rendersi rea di simile nefandità? Oh qual principe potrà ormai vantarsi d’essere perfettamente felice? Ah! fratello,» proseguì abbracciando il re di Tartaria, «rinunciamo entrambi al mondo; la buona fede ne è bandita; se da un lato egli vi lusinga, dall’altro vi tradisce. Abbandoniamo i nostri stati e lo splendore che ne circonda, ed andiamo in regioni straniere a trascinare vita oscura e nascondere il nostro infortunio.» Schahzenan, pur non approvando tale risoluzione, non osò combatterla nello stato di esacerbamento in cui vedeva il sultano. — Fratello,» disse, «la vostra volontà è anche la mia, ed io son pronto a seguirvi dove v’aggrada: ma promettetemi di tornare entrambi nei nostri regni, se n’accadrà d’incontrare qualcuno più infelice di noi. — Io ve lo prometto,» rispose Schahriar; «ma temo di non trovare alcuno che lo sia. — Su ciò io non sono dello stesso parere,» soggiunse il re di Tartaria; «e fors’anco non dovremo andar molto lontano.» Ciò detto, uscirono segretamente dal palazzo, e messisi per una via diversa da quella ond’erano venuti, camminarono fino a sera, e passarono la prima notte sotto alcune piante. Alzatisi sul far dell’alba, proseguirono il loro cammino finchè, giunti in un [p. 12 modifica]bel prato in riva al mare, sparso qua e là di fronzuti alberi, sedettero sotto uno di essi per riposare e prendervi il fresco. L’infedeltà delle mogli fu il soggetto de’ loro colloqui.

Erano da poco tempo seduti, quando udironsi vicino uno strepito orribile dalla parte del mare, insieme ad orrende grida, che li empì di spavento. Allora l’onda aprissi, e ne sorse una specie di grossa colonna nera che pareva perdersi nelle nubi. A tal vista raddoppiò la loro paura, talchè alzatisi precipitosamente, salirono sulla cima dell’albero che loro parve più atto a nasconderli. Appena vi furono accomodati, che guardando verso il mare, videro la colonna inoltrarsi alla riva fendendo l’acqua. Sulle prime non poterono ravvisare che cosa fosse, ma non tardarono ad indovinarlo.

Era uno di quei geni5 malefici, cattivi e nemici mortali degli uomini: nero, orribile, aveva la forma d’un gigante di prodigiosa altezza, e portava sul capo una gran cassa di vetro, chiusa a quattro serrature di fino acciaio. Egli entrò nella prateria, e venne a deporre il suo carico appunto appiè dell’albero; ove stavano i due principi, i quali, conoscendo l’estremo periglio in cui versavano, si tennero perduti.

Intanto il genio sedè vicino alla cassa, ed apertala con quattro chiavi che portava alla cintura, ne uscì tosto una dama splendidamente vestita, di maestoso aspetto ed assai bella. Il mostro se la fe’ sedere accanto, e guardandola con amore, le disse: — Oh la più perfetta di tutte le donne ammirate per la loro bellezza, vezzosa persona, ch’io rapii il dì delle vostre nozze, e che poscia con tanta costanza ho amato, [p. 13 modifica]permettetemi di dormire alcuni istanti presso di voi: il sonno che m’aggrava le palpebre, m’ha qui tratto per gustare un po’ di riposo.» Ciò detto, lasciò cadere la grossa sua testa sui ginocchi della dama, ed allungati i piedi che stendevansi fino al mare, non tardò ad addormentarsi, e russare in guisa, che tutta ne rimbombava la riva. Allora la donna alzò gli occhi per caso, e scorgendo i principi sulla cima dell’albero, colla mano fe’ lor segno di scendere senza rumore. Grande fu il loro spavento vedendosi scoperti, e supplicarono con altri cenni la dama di lasciarli cheti ov’erano; ma colei, toltosi destramente dal grembo il capo del genio e posatolo a terra, si alzò, e lor disse con sommessi, ma animati accenti: — Scendete, bisogna assolutamente che voi veniate da me.» Indarno essi tentarono farle comprendere co’ gesti di aver paura del genio. «Scendete,» ripetè la donna col medesimo accento; «se tosto non mi obbedite, lo farò svegliare, ed io stessa gli chiederò la vostra morte.»

Tali parole incussero tanto timore nell’animo dei principi, che si accinsero a scendere con somma precauzione onde non isvegliare il genio. Quando furono abbasso, la dama li prese per mano, ed allontanatasi alquanto con essi sotto le piante, aperse loro liberamente il suo animo; respinsero i principi sulle prime l’ardita proposta, ma la donna insistette con tali minacce, che li costrinse infine ad accettare. Soddisfatto ch’ebbe alle proprie voglie, ed avendo osservato un anello in dito a ciascuno di essi, lo richiese loro, e avutili, corse a prendere una scatola dal fardello ov’era la sua toletta, e cavatone un filo da cui pendevano altri anelli di varie fogge: — Sapete voi,» disse mostrandoli, «che cosa significano questi gioielli? — No,» risposero essi, «ma sta in voi l’istruircene. — Questi sono,» proseguì la dama, «gli anelli di tutti gli uomini cui ho compartiti i miei favori; [p. 14 modifica]or ve n’ha novantotto precisi, che io conservo per memoria. Per la stessa ragione chiesi anche i vostri, affinchè sia compiuto il centinaio. Ed ecco che malgrado le precauzioni di questo genio brutale, il quale mai non mi abbandona, io ebbi finora cento amanti. Egli ha bel rinchiudermi in quella cassa di vetro, e tenermi nascosta in fondo al mare; io non ristò dal deludere la sua vigilanza. Imparate da ciò che quando una donna ha formato un progetto, non avvi marito od amante che valga ad impedirne l’esecuzione. Assai meglio farebbero gli uomini a non tiranneggiare le donne; sarebbe l’unico mezzo di renderle sagge.» La dama, favellato loro in tal guisa, aggiunse i due anelli agli altri, e sedutasi com’era prima, alzò la testa del genio, tuttora addormentato, se la pose in grembo, ed accennò ai principi di andarsene.

Essi pertanto rifecero la via già percorsa, e fuor che furono dalla vista della dama e del genio, Schahriar disse a Schahzenan: — Ebbene, fratello, che pensate voi del caso poc’anzi occorsoci? Il genio ha un’amante fedelissima, n’è vero? Non siete voi di parere che nulla uguagli la malizia delle donne? — Sì,» rispose il re della Gran Tartaria, «e voi sarete or persuaso che il genio è molto più sventurato e degno di pietà di noi. E poichè abbiamo trovato quello che cercavamo, facciam ritorno ne’ nostri stati, nè vogliamo per tal avventura astenerci da nuove nozze. Quanto a me, so con qual mezzo potrò farmi conservare inviolabilmente la fede che m’è dovuta; per ora non voglio spiegarmi di più, ma un dì ne udrete novella, e son certo che seguirete il mio esempio.» Il sultano annuì all’opinione del fratello, e continuando amendue il viaggio, giunsero al campo sulla fine della notte del terzo dì che n’erano partiti.

Sparsasi tosto la notizia del ritorno del sultano, i cortigiani si recarono di buon mattino davanti al [p. 15 modifica]suo padiglione. Fattili entrare ed accoltili con aspetto più ridente del solito, li colmò di lodi e di doni, e manifestando di non voler recarsi più oltre, comandò loro di salire a cavallo, e se ne tornò al palazzo.

Appena giunto, corse alle stanze della sultana, e fattala legare alla di lui presenza, la consegnò al gran visir coll’ordine di farla strozzare; il ministro obbedì, senza chiedere di qual delitto fosse rea. Ma quel supplizio non bastò a saziare l’ira del principe, che volle di propria mano tagliar il capo a tutte le donne della sultana. Dopo sì fiero castigo, persuaso che più non esistesse una donna saggia, deliberò di sposarne una ogni notte, e farla morire il giorno dopo, onde impedire ogni infedeltà. Impostosi legge sì crudele, giurò di metterla in esecuzione subito dopo la partenza del re di Tartaria, il quale non tardò molto a pigliar commiato, e mettersi in viaggio ricolmo di magnifici doni.

Partito Schahzenan, il sultano comandò al gran visir di condurgli la figlia d’uno de’ suoi generali. Ubbidì il visir, e il sultano, passata la notte con lei, al mattino gliela consegnò per farla strangolare, ordinandogli di cercargliene un’altra per la notte seguente.

Benchè il visir ripugnasse da tali comandi, egli fu costretto a sottomettervisi, essendo suo dovere obbedir ciecamente al sultano suo padrone; gli condusse pertanto la figlia d’un ufficiale subalterno, la quale fu pure messa a morte il dì appresso. Poi toccò alla figlia d’un cittadino; insomma ogni giorno eravi una sposa ed una donna uccisa.

La nuova di sì inaudita crudeltà sparse una generale costernazione nella città, e dappertutto erano gridi e lamenti. Qui un padre struggevasi in pianto per la perdita della figliuola, là tenere madri, temendo per le proprie pari destino, facevano rimbombar l’aria di [p. 16 modifica]gemiti. Talchè invece delle lodi e benedizioni ond’era stato ricolmo fin allora il sultano, non udivansi che imprecazioni contro di lui.

Il gran visir il quale, come fu detto, era suo malgrado il ministro di tanta ferocia, aveva due figlie, la maggiore delle quali aveva nome Scheherazade, e l’altra Dinarzade, entrambe piene di merito; ma specialmente la prima possedeva viril coraggio, molto spirito e maravigliosa penetrazione. — Versata nei libri e dotata di prodigiosa memoria, nulla erale sfuggito di quanto leggeva. Aveva con bell’esito studiato filosofia, medicina, storia ed arti, e componeva versi meglio dei più celebri poeti del suo tempo. Aggiungasi una bellezza straordinaria e specchiate virtù, tanto che il visir amava con passione una figlia sì degna della sua tenerezza.

Un dì che stavano insieme a colloquio, la figlia gli disse: — Padre, io debbo chiedervi una grazia, cui vi supplico umilmente di non volermi negare. — Sarà mio piacere accordartela,» rispose il visir, «qualora sia giusta e ragionevole. — Oh! ella non può essere più giusta, e voi ne potrete giudicare dal motivo che mi spinge a chiedervela. Io ho in animo di fermare il corso delle barbarie che il sultano esercita sulle famiglie di questa città; voglio dissipare il giusto timore che hanno tante madri di perdere le loro figliuole in sì funesta maniera. — Figlia cara, il tuo pensiero è lodevolissimo,» soggiunse il visir, «ma il male cui vorresti allontanare, parmi irrimediabile. In qual modo pensi tu di venirne a capo? — Padre,» rispose Scheherazade, «poichè per mezzo vostro il sultano celebra ogni dì nuovi sponsali, io vi scongiuro, per la tenera affezione che avete per me, di procurarmi l’onore del suo letto.» Il visir ascoltò raccapricciando tali parole, e sclamò sdegnato: — Aimè! hai forse smarrito il senno, o figlia, facendomi sì perigliosa preghiera? Tu [p. 17 modifica]sai che il sultano ha giurato sull’anima sua di non dormire più d’una notte colla medesima donna, e farla morire il dì seguente; e vorresti che gli proponessi di sposarti? Non pensasti a che ti espone il tuo indiscreto zelo? — Sì, padre,» soggiunse la magnanima fanciulla, «conosco il pericolo, che penso d’affrontare, nè per questo me ne spavento. Se soccombo, la mia morte sarà gloriosa, e se riesco nella mia impresa, avrò reso alla mia patria un importante servigio. — No,» disse il visir, «ad onta di quanto tu mi possa dire per persuadermi a lasciarti incorrere in sì fiero pericolo, io non acconsentirò giammai. Quando il sultano mi comanderà d’immergerti un ferro nel seno, oimè! sarà pur d’uopo obbedire; qual tristo ufficio per un padre! Ah! se non temi la morte, almeno trattengati il pensiero del mio mortale affanno al vedermi costretto a bagnar le mani nel tuo sangue. — Deh! ve ne prego ancora, padre mio,» disse Scheherazade, «concedetemi la grazia che vi domando. — La tua caparbietà,» rispose il visir, «m’eccita all’ira. Perchè vuoi correre da per te alla morte? Chi non può prevedere la fine d’un’impresa pericolosa, non sa trarsene felicemente. Io temo non ti accada come all’asino il quale, vivendo agiatamente, non seppe durar nel proprio stato. — Qual disgrazia toccò a quest’asino?» chiese Scheherazade. — Or te lo dirò,» rispose il visir; «ascolta:


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Il principe Schahzenan. [p. - modifica]

Le dame di Bagdad.


Note

  1. Yezdedjerd, ultimo rampollo della stirpe dei Sassanidi, morì combattendo contro i Musulmani l’anno 39 dell’egira (659 dell’era nostra).
  2. Primo ministro. Il distintivo della sua dignità è il suggello dell’impero, che il sultano gli consegna investendolo dell’impiego.
  3. Questa parola araba vale imperatore o signore: tal titolo si dà a quasi tutti i sovrani dell’Oriente.
  4. Tutte le mogli dei principi d’Oriente hanno il titolo di sultana. Pure il nome di sultana solo, indica per lo più la favorita.
  5. Secondo le tradizioni musulmane, vi sono due sorta di genii: peri e divi. I primi sono benefici, gli altri feroci e nemici dell’uomo.