Le Aquile della steppa/Parte prima/Capitolo XV

Parte prima — Capitolo XV
L’assalto di Kitab

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CAPITOLO XV.


L’assalto di Kitab.


Le popolazioni dell’Asia centrale e specialmente quelle che occupano quell’immensa regione, che si estende dalle rive orientali del mar Caspio ai confini meridionali della Duzungaria chinese e che è conosciuta col nome di Tartaria Indipendente, sono di una irrequietezza incredibile.

È raro che passi un anno senza che forti insurrezioni scoppino in questo od in quel Kanato, scatenate per lo più dalla sfrenata ambizione dei luogotenenti degli Emiri, assetati, come i loro padroni, di potere.

Le pene tremende che spettano ai ribelli vinti, non spaventano quegli spiriti irrequieti e giuocano la loro vita, senza darsi pensiero di quello che toccherà loro più tardi.

Dopo che Yakub, un luogotenente dell’Emiro di Bukara, ribellatosi al suo signore, si è formato un piccolo regno nella Duzungaria, un po’ a spese dei tartari ed un po’ alle spalle dei chinesi, diventando oggidì uno dei più prosperi dell’Asia centrale e anche dei più civili, molti hanno cercato d’imitarlo, quantunque sempre con pessima fortuna.

I bey di Kitab e di Schaar, alleatisi, forti dell’appoggio loro promesso dalla tribù dei Shagrissiabs e della robustezza delle loro città, si erano a loro volta ribellati all’autorità dell’Emiro di [p. 135 modifica]Bukara, colla speranza di rendersi prima indipendenti e poi di emulare le gesta fortunate di Yakub.

Probabilmente vi sarebbero riusciti, se la diplomazia russa, sempre vigilante su tutto ciò che succede nell’Asia Centrale, che ritiene come un futuro suo boccone, non ci avesse messo lo zampino.

Quella ribellione aveva turbato i sonni tranquilli del governatore del Turchestan, e siccome il suo protetto, l’Emiro di Bukara, non si trovava in grado di calmare gli spiriti belligeri dei due beg, si era affrettato a offrirgli il suo aiuto.

Subito un corpo di spedizione era stato formato colle truppe di guarnigione a Samarcanda, composto di nove compagnie di fanteria, di due sotnie di cosacchi del Don, di dodici cannoni e otto racchette, il tutto sotto gli ordini del maggior generale Abramow.

Quelle truppe non erano certamente molte, ma potevano dar da fare agli indisciplinati Shagrissiabs, buoni soldati nelle imboscate e pessimi in una vera battaglia, malgrado l’impetuosità dei loro attacchi e le loro urla ferocissime.

Il corpo di spedizione, divisosi in due colonne, si era messo in marcia senza indugio.

Quella di destra era stata messa sotto gli ordini del colonnello Miklalowskye, quella di sinistra era stata affidata al tenente colonnello Schovnine e doveva spingersi verso Kitab per la via più breve, mentre l’altro aveva avuto l’ordine di far sosta a Diam.

Trattandosi di una guerra che non poteva durare che qualche settimana, le truppe non avevano ricevuto che viveri per soli dieci giorni e le munizioni invece al completo. A Diam però, già occupato da due compagnie del sesto battaglione di linea del Turchestan e che doveva formare la riserva, il maggior generale Abramow aveva fatto ammassare una certa quantità di provvigioni, nel caso che la guerra dovesse prolungarsi oltre le previsioni.

L’11 Agosto del 1875, la colonna di destra occupava, dopo una lunga e rapidissima marcia, il villaggio di Makrt, nel piano dei Shagrissiabs, senza aver sparato un colpo di fucile.

Gli abitanti erano così lontani dal pensare ad una invasione russa, che erano stati sorpresi mentre coltivavano i loro giardini ed i loro campi, sicchè non avevano avuto il tempo di organizzare la menoma resistenza.

L’indomani però la colonna si trovava alle prese con numerose [p. 136 modifica]bande di cavalieri, le quali, dopo averla lasciata passare senza attaccarla, fecero fuoco sui carri dei bagagli e sulla retroguardia, uccidendo e ferendo non pochi uomini.

Due colpi di racchetta e poche fucilate erano state sufficenti a disperdere quegli uomini, più banditi che buoni soldati.

Il 13, alle cinque pomeridiane, la colonna di Miklalowsky giungeva, senza combattimenti, ai giardini di Urens-Reshlak, la cinta esterna dei Shagrissiabs.

La medesima sera faceva la sua congiunzione colla colonna guidata dal tenente colonnello Schovnine, la quale fino allora non aveva avuto l’occasione di consumare una sola cartuccia.

Il 14, di buon mattino, alcune masse nemiche, comparivano improvvisamente sul fianco dell’accampamento e, giunte a tiro di fucile, aprivano un fuoco piuttosto violento quantunque male diretto, poi si squagliavano subito dinanzi ad alcune scariche dei cacciatori del Turchestan.

Respinti i cavalieri di Bek-Djura bey e del beg di Schaar, il generale Abramow, seguito dal suo stato maggiore, da una compagnia di linea e da venti cosacchi e appoggiato da due cavalletti di racchette, eseguiva una rapida ricognizione sotto le mura di Kitab, non ostante il fuoco del nemico, onde scegliere il punto per aprire una breccia d’assalto e alla sera iniziava il bombardamento della città, dopo d’aver disposti i suoi uomini su due colonne. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Abei, udendo tuonare il cannone e vedendo i soldati di Djura bey e del beg di Schaar, accorrere in massa verso le mura, per respingere l’imminente attacco dei russi, non aveva potuto trattenere una bestemmia.

Ormai si trovava chiuso nella città assediata, esposto agli orrori d’un assalto, con forse poche probabilità di salvare la pelle e di poter più tardi raggiungere i banditi ed impadronirsi di Talmà.

— Siano maledetti Djura bey e quel furfante di beg di Schaar! — esclamò coi denti stretti. — Vadano all’inferno Hussein, Alì e Maometto insieme! —

I banditi lo avevan circondato, aspettando i suoi ordini e chiedendosi il motivo di quell’improvviso scatto di rabbia.

[p. 137 modifica]— E voi, stupidi, non potevate mostrarvi prima? — gridò finalmente Abei, minacciandoli col pugno.

— Vi abbiamo cercato dappertutto, signore, — disse colui che lo aveva guidato. — Saremmo stati anche noi più contenti di andarcene, prima che i russi ci chiudessero il passo.

— Siete dei cretini! —

Stette un momento come pensieroso, poi, alzando le spalle e dando una strappata alle briglie, mormorò:

— Bah! Forse sarà meglio. Cerchiamo di spingere gli altri e di non esporre la mia pelle.

Vedremo se torneranno vivi nella steppa! —

Volse il cavallo e si diresse a piccolo trotto verso la piazza del bazar, mentre i cannoni della cittadella rombavano furiosamente, rispondendo alle artiglierie russe che battevano in breccia la porta di Ravatak e la torre sovrastante.

Quando giunse al caravanserraglio, trovò Hossein e Tabriz in sella, pronti a prendere parte alla difesa della città coi loro cinquanta uomini.

Un messo di Baba-beg li aveva già avvertiti che l’assalto stava per cominciare e che la loro presenza sulle mura era necessaria.

— Ti credevamo già morto, — disse Hossein, vedendolo. — Le palle russe cominciano a piovere nelle vie.

— Mi ero solamente smarrito, cugino, — rispose Abei, — e devo ringraziare gli uomini che m’accompagnano se mi hanno messo nella buona via, Kitab non la conosco.

— Giungi in buon punto. I russi si preparano ad espugnare la città.

— È alla porta di Ravatak che tenteranno l’attacco, — disse Tabriz.

— Vieni, cugino, — disse Hossein, che pareva avesse dimenticato per un istante Talmà. — Mostriamo ai moscoviti, come sanno battersi i nomadi della steppa turchestana. —

Ad un suo cenno i cinquanta uomini, rinforzati dai banditi di Hadgi, avevano lanciato i cavalli al galoppo, avviandosi verso la porta di Ravatak.

I russi avevano cominciato l’attacco con molto vigore, sicuri di trionfare facilmente di quelle muraglie che non potevano offrire una lunga resistenza, malgrado il loro aspetto imponente, essendo costruite solamente con mattoni seccati al sole.

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Il generale Abramow aveva preso le sue misure con grande attenzione; approfittando dell’oscurità, aveva fatto scavare una profonda trincea di fronte alla porta, onde battere vigorosamente le torri della muraglia esteriore, armandola con cannoni e con racchette ed aveva fatto nascondere i suoi cacciatori dietro un piccolo burrone situato a sinistra, un po’ avanti della batteria.

I Shagrissiabs, quantunque non avessero alcun dubbio sull’esito finale della battaglia, erano accorsi in massa sulle muraglie merlate, sparando furiosamente, intanto che dalla cittadella tuonavano i pezzi ed i falconetti sotto la direzione del beg di Schaar, tentando di contrabbattere le batterie russe di destra.

Le palle cadevano in gran numero sulla città, sfondando facilmente le deboli terrazze e facendo fuggire le donne fra clamori spaventevoli, e provocando qua e là incendii che nessuno si curava di spegnere.

Quando Hossein ed Abei giunsero alla porta di Ravatak, il cannoneggiamento era divenuto intensissimo.

Centinaia e centinaia di Shagrissiabs, nascosti dietro le mura dei giardini o ammassati sulle creste delle muraglie, mantenevano un fuoco vivissimo quantunque poco efficace, trovandosi i cacciatori del Turchestan ben nascosti entro il burrone ed i pezzi al coperto dietro la trincea.

I cinquanta uomini d’Hossein, scesi da cavallo, si erano subito dispersi, appiattandosi dietro i merli della muraglia ed aprendo anch’essi il fuoco.

Hossein e Tabriz avevano preso il comando d’una batteria di falconetti, bocche da fuoco che conoscevano perfettamente e che sapevano maneggiare anche con molta abilità.

Una immensa colonna di fumo s’alzava al di sopra delle altissime muraglie e delle torri, abbattendosi sui giardini sottostanti, rendendo incerto anche il tiro dei russi e un’altra giganteggiava sopra la cittadella dove i ventinove pezzi del beg di Schaar non cessavano di tuonare.

Disgraziatamente i Shagrissiabs, quantunque fossero tre o quattro volte più numerosi degli assalitori, non erano nè ben guidati, nè ben disciplinati, combattendo ciascuno per proprio conto, e le loro artiglierie, composte tutti di vecchi pezzi, non potevano recare gran danno.

Per di più le loro muraglie non offrivano che una ben magra [p. 139 modifica]resistenza agli obici russi, sicchè, verso le sette del mattino, i pezzi istallati sulla torre di Ravatak erano ridotti al silenzio e una grande breccia era già stata aperta nella muraglia.

I cacciatori del Turchestan cominciavano a uscire dal burrone, marciando all’assalto su due colonne.

— Tabriz, — disse Hossein che non aveva cessato di far giuocare contro il nemico i falconetti, credo che tutto stia per finire. I Shagrissiabs, non resisteranno dieci minuti all’ultimo attacco.

— Tale è anche la mia opinione, signore, — rispose il gigante, la cui fronte si era rannuvolata. — Questi uomini non valgono quelli della steppa. Hanno troppa paura delle baionette dei moscoviti.

— Come finirà quest’avventura?

— Male di certo se non filiamo più che in fretta, cugino, tanto più che non abbiamo più nulla da fare qui, — disse una voce dietro di lui.

— Che cosa vuoi tu dire, Abei? — chiese Hossein, voltandosi verso il cugino.

— Che ho saputo or ora e per bocca di Baba-beg, che Talmà non si trova più qui, — rispose il nipote del beg.

— Hai detto? — gridò Hossein.

— Che i banditi l’hanno portata, prima che i russi giungessero, fra le montagne di Kasret-Sultan.

— E quel furfante non ce lo ha detto prima?

— Pare che non lo sapesse.

— Invece è stato zitto per valersi dei nostri cinquanta cavalieri! — disse Tabriz.

— Può darsi, — rispose Abei.

— Che cosa fare, Tabriz? — chiese Hossein.

— Mi pare che non ci rimanga che una cosa sola, signore, rispose il gigante.

— Di andarcene prima che i russi diano l’assalto?

— Sì, mio signore. I Moscoviti non hanno, a quanto sembra, forze sufficenti per circondare tutta la città e penso che noi potremmo uscire senza troppe molestie dalla porta di Rachid.

Da quella parte non odo a tuonare il cannone, ciò indica che il nemico non si è ancora mostrato.

— È una defezione la nostra, — disse Hossein.

[p. 140 modifica]— È buona guerra, signore, — rispose Tabriz. — Giacchè il beg ci ha giuocati, ora facciamola a lui.

Se la cavi come meglio potrà. Andiamo, signore, lasciamo qui i suoi falconetti e finchè abbiamo tempo, sgombriamo.

Noi non abbiamo niente a che fare coll’Emiro di Bukara, tanto meno coi suoi protettori. —

Poi, alzando la voce verso i suoi uomini, gridò, dominando colla sua voce stentorea il rombo delle artiglierie ed il crepitìo della moschetteria:

— A cavallo, amici!... Andiamo a caricare i russi! La confusione che regnava in quel momento sui bastioni e sulle muraglie di Ravatak era tale, che nessuno si poteva occupare della defezione dei cinquanta cavalieri.

I russi spingevano l’attacco con grande vigore. I cavalieri del Turchestan ed i cosacchi correvano all’assalto, mandando fragorosi urrah e portando seco un gran numero di scale per superare le altissime muraglie.

Le migliaia di fucili che tuonavano dietro le merlature e dietro le mura dei giardini, non arrestavano affatto l’assalto dei moscoviti, i quali muovevano addosso alle mura a passo di carica, preceduti dai loro trombettieri e protetti dal fuoco intensissimo dei pezzi nascosti dietro la trincea.

Hossein e Tabriz, prevedendo l’imminente resa della città e non amando essere coinvolti in quella ribellione che non li interessava affatto, avevano lanciato i cavalli a galoppo sfrenato per raggiungere la muraglia opposta, prima che i russi potessero completare l’aggiramento.

Tutte le vie erano ingombre di fuggiaschi. Donne e fanciulli, correvano all’impazzata, urlando spaventosamente, carichi degli oggetti più preziosi, mentre le palle delle artiglierie russe cadevano dovunque, provocando nuovi incendi.

Sulle case della città alta, una immensa nuvolaglia nera s’alzava, carica di scintille, volteggiando turbinosamente e calando verso i giardini.

Gli scoppi coprivano le urla dei fuggiaschi. Erano le polveriere della cittadella che saltavano, facendo diroccare le scarpate e sventrando i ridotti sui quali ancora tuonavano, ma con poca fortuna, i ventinove pezzi ed i falconetti del beg di Schaar.

Hossein e Tabriz, seguiti da Abei, dai cinquanta cavalieri e [p. 141 modifica]dai banditi di Hadgi, attraversarono la città, travolgendo sotto le zampe dei cavalli non pochi fuggiaschi e raggiunsero la porta di Rachid, che era guardata solamente da pochi cavalieri Shagrissiabs, non essendosi mostrata, in quella direzione, alcuna compagnia di russi.

— Aprite! — gridò Tabriz, sfoderando il kangiarro. — Ordine di Djura-bey.

— Che cosa vuoi fare? — chiese il comandante del drappello.

— Caricare i russi alle spalle, — rispose il gigante. — Sbrigati o prenderanno d’assalto la torre di Ravatak. —

La porta, laminata con lastre di bronzo, che non era stata barricata, fu spalancata ed i cavalieri passarono come un uragano sul ponte levatoio gettato attraverso il profondo fossato.

— Preparate gli archibugi! — gridò Hossein. — Questa calma non mi assicura.

— Vedi nulla? — chiese poi a Tabriz, che spingeva i suoi sguardi attraverso i folti cespugli che coprivano i margini dei burroni.

— No, signore, — rispose il gigante. — Tuttavia non sono completamente tranquillo.

Questo silenzio mi ha l’aspetto di un agguato.

— Carichiamo a fondo.

— Sono pronto, signore!

— E passeremo come siamo passati attraverso le linee delle Aquile?

— Non ne dubito.

— Il kangiarro fra i denti! Al galoppo! —

Il primo burrone non era che a mille metri dall’ultimo giardino. I cavalieri vi giunsero sopra a corsa sfrenata, ma nel momento di scendere il declivio videro sorgere una selva di baionette.

Era troppo tardi per arrestare i cavalli. La colonna passò di volata, atterrando quanti russi si trovavano sul suo passaggio, facendo fuoco colle pistole e maneggiando tremendamente gli affilatissimi kangiarri; trecento passi più innanzi si trovava un secondo burrone e fu da quello che partì una scarica così intensa e così micidiale da rovesciare più di metà dei cavalli.

— A terra! — gridò Hossein. — Tutti dietro i cavalli!... Fuoco nel burrone!... Da due parti! —

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I Sarti ed i Shagrissiabs della scorta, quantunque in gran parte scavalcati, si erano gettati dietro gli animali, rispondendo con una scarica terribile.

Abei, approfittando della confusione, aveva fatto un cenno imperioso ai banditi di Hadgi.

— Qui, presso di me... non esponetevi... un colpo supremo... o non vi darò un tomano. —

Il volto del miserabile era diventato, in quel momento, lividissimo; però i suoi occhi mandavano lampi cupi.

Si era lasciato cadere dietro al suo cavallo, armando le sue due lunghe pistole. Non guardava i russi che si erano schierati sul margine dei due burroni e che si preparavano a fucilare i cinquanta cavalieri, bensì Hossein e Tabriz che stavano sdraiati dinanzi a lui, a pochi passi di distanza, riparati dietro i loro cavalli che avevano fatto coricare.

— Amici! — gridò Hossein. — Aspettate che si mostrino!... Finchè a Kitab tuona il cannone non avremo da temere. Eccoli!... Fuoco! —

Una cinquantina e più di cosacchi erano sorti sull’orlo del burrone, avanzandosi con precauzione in mezzo alle erbe, coi moschetti puntati.

La scorta non indugiò a far fuoco, con un accordo splendido, mirando molto in basso.

Quindici o venti moscoviti, colpiti alle gambe ed al basso ventre rotolarono nel burrone che stava dietro a loro, insieme a numerosi cavalli che si erano alzati fra i cespugli.

Quella scarica disorganizzò per un momento gli assalitori, ma subito una mezza sotnia di cosacchi sorse come per incanto fra le erbe, aprendo un fuoco violentissimo, appoggiato da due falconetti mascherati dietro un piccolo rialzo.

Una dozzina di Sarti, quantunque protetti dai cavalli, stramazzarono al suolo, fulminati da una bordata di mitraglia.

— Ah!... Tabriz! — esclamò Hossein. — Siamo presi!...

— Non ci rimane che di caricare, signore, — rispose il gigante.

— A fondo?

— Di volata.

— Da’ il comando, prima che i russi ci ammazzino o ci storpino tutti i cavalli. —

Il gigante stava per alzarsi, quando due nuove scariche [p. 143 modifica]rimbombarono dinanzi e dietro la scorta. I moscoviti avevano fatto fuoco dai due burroni e quella scarica fu disastrosissima per la scorta.

I cavalieri erano stramazzati, più di metà, per non più rialzarsi.

— A cavallo! — urlò Hossein, balzando in piedi. —

In quel momento un colpo di pistola rimbombò dietro di lui... e cadde sul proprio cavallo.

Tabriz si voltò, col kangiarro in pugno, digrignando i denti e urlando:

— Tradimento!... Tradi... —

Non potè finire. Un secondo sparo echeggiò a tre passi di distanza, confondendosi colle scariche dei russi e anche il gigante colpito al dorso, cadde a fianco del suo signore, mandando un vero ruggito di furore.

Aveva veduto la mano che gli aveva cacciato in corpo quel proiettile foderato di rame, come usano gli uomini della steppa.

Quasi nel medesimo istante una voce squillante aveva gridato:

— A cavallo!... Caricate! —

Abei, che stringeva ancora fra le mani le pistole fumanti, con un salto da tigre si era gettato sul suo farsistano, che alla voce del padrone erasi prontamente levato.

— Caricate! — ripetè il nipote del beg. — Giù col kangiarro!

Quindici uomini, fra i quali i banditi di Hadgi, sfuggiti miracolosamente alle scariche dei russi, avevano risposto all’appello.

Un urlo terribile, feroce, si sprigionò dai loro petti.

Uran!... Uran!... —

Poi quel drappello di demoni, senza curarsi di coloro che giacevano al suolo, contorcendosi fra gli ultimi spasimi dell’agonia, era partito con un impeto irrefrenabile, piombando coi kangiarri alzati fra i cosacchi, che occupavano il margine del burrone.

Quell’attacco fu così fulmineo, che i russi, per non venire travolti, si gettarono alla rinfusa a destra ed a sinistra, senza nemmeno tentare di farvi fronte.

Il drappello, preceduto da Abei, passò come un uragano, discese il burrone, poi lo risalì in volata e scomparve fra le alte erbe della steppa, salutato da un’ultima, ma troppo tardiva scarica.