Le Aquile della steppa/Parte prima/Capitolo XIV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
I fanatici del Turchestan
◄ | Parte prima - Capitolo XIII | Parte prima - Capitolo XV | ► |
CAPITOLO XIV.
I fanatici del Turchestan.
Kitab, senza avere l’importanza di Bukara, di Kiva e di Samarcanda, le tre città più popolose e più famose del Turchestan, e ritenute le tre regine della steppa, come le chiamano i turani, era nel 1875 una città ragguardevole, se non pei suoi commerci, per la sua popolazione e per le sue fortificazioni che, collegate con quelle di Schaar, la rendevano molto temuta.
Non era veramente una ròcca, assolutamente inespugnabile per truppe specialmente europee, tuttavia i barbari la ritenevano talmente salda, da non osare assalirla, nè sfidare i suoi venti pezzi d’artiglieria che guarnivano, insieme ad un certo numero di falconetti, i ridotti della cittadella.
Come tutte le città turchestane, aveva un gran numero di moschee con altissimi minareti, spaziosi bazar, una salda cittadella, bellissimi giardini; ma le sue case basse, ad un solo piano, coi loro muri di terra battuta, dello spessore d’un metro, coi tetti sorretti da travicelli e di canne impastate di creta, le davano un aspetto piuttosto miserabile. Solo il palazzo del bey a più piani, con vaste gallerie e terrazze di stile mezzo chinese e mezzo mussulmano, risaltava colla sua mole maestosa, in mezzo a quel caos di casupole che le piogge di quando in quando sgretolavano e scioglievano.
Nel momento in cui i cinquanta cavalieri irrompevano sotto la porta di Ravatak, slanciandosi a gran galoppo attraverso le vie con Hossein, Abei e Tabriz alla testa, una viva emozione regnava nella città.
Uomini a cavallo ed a piedi s’incrociavano in tutte le direzioni, urlando ferocemente e agitando forsennatamente fucili, scimitarre jatagan e kangiarri, mentre schiere di donne e fanciulli fuggivano pei giardini, spingendosi innanzi, a legnate, bande di cammelli e greggi innumerevoli di montoni.
In tutte le case echeggiavano grida e bestemmie e sulle terrazze rimbombavano colpi di fucile, sparati a casaccio contro un nessun nemico invisibile, poichè nessun russo fino ad allora si era mostrato, nemmeno dietro alla cavalleria di Djura-bey, che si rifugiava in pieno disordine verso la città, fra un tumulto spaventevole.
— Al bazar! — gridò Tabriz ai suoi uomini. — Andiamo a prendere possesso del caravanserraglio. —
La truppa attraversò, sempre al galoppo, la parte meridionale della città, non senza aver travolto più d’un fuggiasco e si fermò su una vasta piazza, in parte coperta da immense tende ed ingombra di banchi completamente vuoti, poichè tutti i rivenditori erano scappati, portandosi via le loro preziose merci.
Tabriz dopo d’aver dato uno sguardo all’intorno, s’avviò verso un massiccio fabbricato, che si ergeva in un angolo della piazza e che aveva parecchie porte.
— Occupiamo il caravanserraglio, innanzi tutto — disse a Hossein che lo interrogava collo sguardo. — Aspettiamo che si ristabilisca un po’ di calma, prima di andare a far visita a Djura-Bey.
I russi non saranno così sciocchi di assalire la città, senza aver prima aperte delle brecce.
— Credi che non approffittino della fuga dei cavalieri del beg per dare subito l’assalto? — chiese il giovane.
— Kitab è bene fortificata, signore, ed i russi non devono ignorarlo.
Pel momento non vi è alcun pericolo.
— Cugino, — disse Abei, — se non ti spiace m’incarico io di andar a trovare il beg di Schaar, che è l’alleato di Djura. A me non potrà rifiutare il suo appoggio, avendo un debito di riconoscenza da saldare con mio padre.
— Me ne hai parlato una volta, — rispose Hossein. — Mi pare che tuo padre gli abbia un giorno salvata la vita.
— Sì, cugino.
— Se ne ricorderà ancora il beg?
— Glielo rammenterò io quel prezioso favore, e vedremo se oserà dimenticarsi di mio padre.
— Che sia tornato?
— Se la sua cavalleria è rientrata, suppongo che non sarà rimasto fuori dalle mura ad aspettare le palle dei falconetti russi, — disse Tabriz.
— Saprò io scovarlo fuori, — rispose Abei. — O nel palazzo di Djura o nella cittadella lo troverò.
Se tardo non inquietarti, cugino. —
Mentre i cavalieri entravano nel caravanserraglio, che non era altro che un immenso stanzone destinato a servire di ricovero alle carovane provenienti dalla steppa, Abei, dopo aver rifiutato una scorta salì lentamente verso il centro della città, dove su una piccola altura sorgeva la cittadella, formata da quattro ridotti e da terrapieni cintati e merlati.
— È più probabile che lo trovi lassù, fra i suoi cannoni, si era detto il nipote del beg con un perfido sorriso. — Mio caro cugino, ti giuocherò un tiro che darà Talmà in mia mano.
I miei tomani voglio spenderli bene. —
Quantunque al di là dei giardini non tuonassero più le racchette ed i falconetti dei russi e nessun pericolo pel momento minacciasse la città, la popolazione non si era ancora calmata.
Torme di armati continuavano a percorrere le vie, come se fossero impazziti o come se i russi fossero già sotto le mura della città, e sulle terrazze si sparava sempre. Anche i cannoni della cittadella tuonavano, con un crescendo spaventevole, sprecando inutilmente le munizioni, mentre sulla cima degli esili minareti si udivano le voci strillanti dei muezzin a gridare a squarciagola:
— All’armi, figli d’Allah e credenti d’Alì e d’Hussein!... Ecco gl’infedeli! —
Abei continuava a salire le vie tortuose che conducevano alla cittadella, senza preoccuparsi di tutto quel baccano. Girava invece continuamente gli sguardi intorno a sè, colla speranza di incontrare qualcuno dei banditi che Hadgi doveva aver lasciato in Kitab.
Era ansioso di sapere se le Aquile avevano avuto il tempo di uscire e di condurre, sulle montagne, Talmà.
— È impossibile che non si siano accorti del nostro arrivo, — mormorava. — Cinquanta uomini e per di più a cavallo si notano subito.
Chissà che non mi aspettino nei dintorni del caravanserraglio. —
Erano le nove del mattino, quando giunse dinanzi alla cittadella, che era guernita di quattro ridotti in forma di mezzaluna.
Su uno di quelli scorse subito un uomo piuttosto attempato, vestito come un principe, con grandi ricami d’oro sulla lunga casacca bianca ed il capo riparato da un immenso turbante di mussola verde, il colore che possono portare solo coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca, e che dà a quelle persone una specie di titolo di santità.
S’avvicinò ad una delle porte del ridotto; ma dovette subito fermarsi perchè la sentinella che vegliava, un shagrissiabs, di statura gigantesca ed immensamente barbuto, l’aveva subito preso di mira con una specie di trombone, minacciando di crivellarlo con una tempesta di pallottoloni mescolati a chiodi.
— Metti da parte la tua racchetta, — gli disse Abei, con accento ironico. — Va’ invece ad avvertire Baba beg che il nipote di beg Giah Aghà e figlio di Abei Hakub, desidera vederlo. Sarà tanto di guadagnato per la vostra causa. —
Il shagrissiabs, impressionato dal tono altero del giovane e anche dalla sua calma, chiamò alcuni compagni e trasmise loro la domanda.
Un momento dopo la porta si spalancava a due battenti ed Abei entrava nella cittadella, scortato da quattro artiglieri, passando fra due altissime muraglie di mattoni, che oscillavano pericolosamente ogni volta che i cannoni dei ridotti tuonavano sulla cima delle scarpate.
All’estremità dello stretto sentiero, che girava intorno ai bastioni, su una piccola spianata dove si trovavano collocate, su dei cavalletti, alcune racchette, lo aspettava il beg di Schaar, appoggiato sulla sua lunga e molto arcuata scimitarra.
— È vero che tu sei il figlio di Abei Hakub? — chiese l’ex luogotenente dell’Emiro di Bukara, mentre il giovane scendeva da cavallo.
— Forse che non somiglio a mio padre, beg? — chiese il giovane. — Mi hanno detto che sono il suo ritratto.
— Infatti — disse il beg, — tu mi ricordi l’uomo a cui io devo la vita. Che vuoi da me?
— Hai saldato verso mio padre il tuo debito di riconoscenza? — chiese Abei.
Il beg lo guardò un po’ inquieto, mentre faceva cenno agli artiglieri di allontanarsi.
— Tu giungi in un brutto momento, giovanotto, — gli disse poi. — Abbiamo i russi alle porte della città.
— Od invece in un buon momento? — disse Abei. — Io non sono qui venuto solo, anzi ti ho condotto cinquanta cavalieri, che forse valgono come duecento dei tuoi shagrissiabs. —
Il beg lo guardò con un certo stupore, poi un sorriso illuminò il suo volto.
— Come? — esclamò — tu vieni a chiedermi di pagarti il debito di riconoscenza che io devo a tuo padre e nel tempo stesso mi porti degli aiuti?
— Sì, ma ad una condizione, beg, — disse Abei.
— Quale?
— Che tu mandi i miei uomini ed i loro capi dove sarà più intenso il fuoco dei russi.
— Io non ti comprendo, giovinotto, — disse Babà, il cui stupore aumentava.
— Tu devi riconoscenza a mio padre?
— È vero: egli mi ha salvato la vita nella steppa, un giorno in cui una torma di ghirghisi nella piccola orda, mi aveva assalito e stava per opprimermi.
— Rispondi prima ad una domanda che ti rivolge il figlio del tuo salvatore.
— Parla.
— Ieri dei cavalieri che giungevano dalla steppa sono entrati qui, è vero?
— Sì, me l’hanno detto.
— Avevano una fanciulla con loro?
— Anche questo è vero. Pare che si trattasse di qualche matrimonio perchè la fanciulla indossava le vesti nuziali ed aveva sul capo una tiara ricchissima.
— Dove si trovano ora?
— Non lo so. Hanno attraversata la città a corsa sfrenata, uscendo dalla parte opposta.
— Non si sono fermati? - chiese Abei, con uno slancio di gioia.
— No.
— Il tuo debito di riconoscenza è pagato, beg.
— In qual modo?
— La truppa che io ti ho condotto è guidata da mio cugino, pur lui nipote del beg Giah Aghà: Metti i suoi uomini in prima linea, esponili al fuoco dei russi più che potrai e non curarti d’altro.
Al resto penserò io: tu mi hai pagato.
— Ecco una cosa a buon mercato, — disse il beg, sorridendo. — Io non indagherò il mistero che ti spinge a sacrificare quegli uomini.
Ho bisogno di valorosi e mi varrò di loro.
— Quando credi che i russi daranno l’assalto?
— Non prima di domani.
— Hai qualche speranza di tenere testa a loro?
— Sì, se riuscirò a fanatizzare i miei cavalieri e la popolazione. Questa sera lancerò i muezzin attraverso le vie della città e farò loro invocare la protezione di Alì e di Hussein, portando in giro la veste verde dell’uno e la spada dell’altro e le colombe bianche, simbolo del loro martirio.
— Ho la tua parola, beg?
— L’hai, — rispose Baba, — così se morrò nella pugna anche questo debito l’avrò pagato. —
— Ci rivedremo al fuoco. —
Abei risalì sul suo cavallo, salutò con un gesto della mano il beg e uscì dalla cittadella, scendendo a piccolo trotto, verso la piazza del bazar.
Dieci minuti dopo, ilare e sorridente, rientrava nel caravanserraglio. Tabriz e Hossein, che stavano preparandosi il pranzo, avendo acquistato alcuni montoni per loro e per la scorta, vedendolo, si affrettarono a muovergli incontro.
— Dunque, cugino? — chiese il giovane, che era diventato pallido.
— La tua Talmà è qui — rispose Abei.
— Dove? — gridò Hossein.
— Ecco quello che Baba beg non sa ancora, tuttavia ha un sospetto e mi ha giurato sul Corano che ci aiuterà a ritrovarla.
— Ah!...
— Adagio, cugino, — disse Abei. — Quello che temevo si è avverato.
— Che cosa dici? — Chiese Hossein diventando livido.
— Egli esige, come compenso, che noi lo aiutiamo a prestargli man forte contro i russi.
— Se non è che per questo, noi sciaboleremo per bene quei maledetti moscoviti, — disse Tabriz che nutriva vecchi rancori contro gli occidentali. — Purchè trovi Talmà e ce la restituisca, noi faremo dei veri miracoli d’eroismo, è vero, signore?
— E le Aquile? — chiese Hossein.
— Sono fuggite dopo d’aver lasciato qui Talmà.
— Ma a chi l’hanno lasciata? Te lo ha detto, Abei?
— Non lo sa ancora.
— Signore, — disse Tabriz. — Se Baba beg ha giurato sul Corano, da buon mussulmano, manterrà la sua promessa.
Per ora aiutiamolo a respingere quei dannati moscoviti. Sarebbe stato meglio non imbarazzarci in questa ribellione, tuttavia giacchè siamo coinvolti anche noi, meneremo le mani meglio che potremo. Sarà sangue straniero che scorrerà e non già turchestano.
— Pranziamo, — disse Abei. — Fra poco comincerà la processione degli sfregi in onore di Alì e di Hussein, che Djura bey ha ordinata per fanatizzare le sue truppe, e noi, come difensori della fede, dobbiamo prendervi parte.
— E Talmà? — chiese Hossein, come se uscisse da un sogno.
— Non temere, cugino. La ritroveremo e forse più presto che tu non creda. Da Kitab non è uscita, il beg me lo ha assicurato e colui che ha pagato le Aquile per rapirtela, pagherà colla vita la sua bricconata. È vero Tabriz?
— M’incarico io di strozzarlo, — rispose il gigante, mostrando le sue mani vellose come quelle d’un orso. — Una stretta sola e crac!... Il collo mi rimarrà fra le dita. —
Il pranzo fu tuttavia molto silenzioso; Hossein, Tabriz e anche Abei parevano profondamente preoccupati, specialmente quest’ultimo il quale non riusciva a staccare gli sguardi dalle mani, poderose e terribili, del gigante della steppa, che pareva lo minacciassero.
Al rimbombo delle cannonate e alle urla dei Shagrissiabs, era subentrato a poco a poco un profondo silenzio. Gli abitanti ormai rassicurati che i russi, almeno per quel giorno, non avevano alcuna intenzione di assalire la città, si erano ritirati nelle case, per prepararsi alla processione della sera, che alcuni araldi di Djura bey ed i muezzin, dall’alto dei minareti, avevano ormai annunciata, per invocare sui difensori della fede la protezione di Hussein e di Hussan, i due santoni venerati dai turchestani e dai persiani, discendenti da Maometto.
Il sole era appena tramontato, quando su tutti i minareti della città echeggiarono, nell’aria tranquilla, le voci squillanti dei muezzin.
— Ecco la luna dell’Islam che sorge!.... Alla gloria d’Hussein e di Alì!... Mostrate, fedeli, ai nostri santi, la vostra fede! —
Tabriz ed i cavalieri della scorta si erano prontamente messi a cavallo.
— Mostriamo che anche noi siamo credenti, — disse Hossein. — E poi chissà che non incontri Talmà nella processione. —
Quando uscirono, tutta la città era coperta di lumi. I bastioni della cittadella, i merli delle muraglie, le scarpate, i muri dei giardini, le terrazze, scintillavano di punti bianchi, rossi, gialli, verdi, azzurri, con un effetto fantastico ed insieme splendido, e attraverso le tortuose vie della città alta, si vedevano scendere delle vere fiumane di torce, che si lasciavano dietro delle nuvole di fumo e di scintille.
Pareva che Kitab fosse in festa e che più nessun pericolo la minacciasse.
Masse di gente s’accalcavano nella gran piazza, dove sorgeva la moschea dedicata ai due santoni, salmodiando con voce rauca e nasale i versetti del Corano, in attesa di organizzare la processione e di cominciare la festa del sangue.
I turchestani sono i più fanatici dei turchi e, fino ad un certo punto, rassomigliano in ciò agli indiani. Non si gettano come questi sotto i carri di pietra per farsi schiacciare a centinaia e centinaia, tuttavia celebrano tutte le loro feste religiose con grande effusione di sangue.
Un certo numero di fanatici, scelti fra i molti concorrenti, si mettono a capo delle processioni, armati di sciabole, di jatagan, di pugnali, di coltellacci e cinti di pesanti catene che trascinano fragorosamente per le vie e si tagliuzzano con una voluttà feroce e ributtante il viso, le braccia, il petto, invocando a squarciagola i loro santi protettori.
Il loro orgasmo è tale che i parenti e gli amici che li accompagnano sono sovente costretti a strappare loro di mano le armi od a calmarli, onde non finiscano per scannarsi. Malgrado tale sorveglianza, dopo ogni processione, si contano sempre parecchi morti e quelli sono gli invidiati, perchè tutti sono convinti che saliranno senz’altro nel paradiso del profeta.
Quando Abei, Hossein ed i loro cavalieri giunsero sulla vasta piazza, che era decorata con bandiere verdi e con tende nere su cui si leggevano, trapunti in oro, alcuni versetti del Corano, la processione si era ormai organizzata.
Tre o quattrocento fanatici, coperti d’una zimarra lunghissima di tela bianca, onde le macchie ed i rivi di sangue spiccassero maggiormente, tutti armati di scimitarre affilatissime ed i fianchi cinti di grosse catene, che trascinavano con un fragore infernale sui ciottoli della via, aprivano il corteo, fiancheggiati da parenti e da amici, che reggevano lunghe torce fiammeggianti.
Seguivano parecchi muezzin, i quali conducevano per le briglie tre cavalli bianchi, di razza araba, splendidamente bardati, con lunghe gualdrappe di seta trapunte in oro ed in argento e alti pennacchi sulla testa.
Uno portava sulla sella due scimitarre a doppio taglio, con due mele infilzate nella punta, il frutto prediletto di Alì, l’amico e nipote di Maometto, trucidato dai settari di Omar, che aspiravano in sua vece al califfato; il secondo un bellissimo cavallo vestito di seta verde con ricami magnifici, che voleva raffigurare quello che indossava Alì il giorno del suo assassinio; il terzo invece una cesta di vimini con entrovi due colombe e che volevano rappresentare la strage di Hussein e di tutti i suoi fedeli sterminati nelle pianure di Kirbdeil, mentre stavano per muovere alla conquista del califfato.
Venivano poi soldati, cavalieri, cittadini, muniti tutti di torce, pigiandosi, urtandosi, fra un frastuono spaventevole prodotto da migliaia e migliaia di voci che urlavano a squarciagola:
— Alì — Hussein! — Proteggeteci dagli infedeli! — sterminateli, fulminateli! — Allah! — Allah! —
In mezzo a quella folla, stretta da tutte le parti, come impacchettati, si scorgevano i due Beks di Kitab e di Schaar, coi loro immensi turbanti verdi, montati su bianchi cavalli e seguiti da un brillante stato maggiore.
La processione si era messa in moto a passo accelerato, poichè i fanatici che marciavano alla testa, per meglio esaltarsi e anche per raddoppiare il fracasso delle pesanti catene, si erano messi a correre, mandando delle urla che più nulla avevano d’umano.
Le loro armi taglientissime scintillavano sinistramente alla luce sanguigna proiettata da quelle centinaia e centinaia di torce.
D’un tratto un grido formidabile si sprigiona da quei tre o quattrocento petti: sembra un immenso e spaventevole ruggito:
— Alì! — Hussein! —
Quei furibondi cominciavano a tagliuzzarsi la fronte, le labbra, il naso, le spalle, le braccia, che erano nude, con una voluttà feroce! il sangue zampillava copioso, macchiando e scorrendo sulle bianche zimarre e colando sui ciottoli.
Lo spettacolo è orribile, ributtante, ma non impressiona nessuno: anzi tutti invidiano quei disgraziati, che si mutilano atrocemente, convinti di guadagnarsi, con tutto quel sangue che perdono, il sospirato paradiso del Profeta.
Di quando in quando uomini mezzi dissanguati, stramazzano al suolo colla schiuma alla bocca, gli occhi schizzanti dalle orbite; subito gli amici od i parenti li raccolgono e li portano nelle case vicine, dove le donne si affrettano a lavarli, fasciarli e rinvigorirli con tazze di kumis o con acquavite di segala.
Quella corsa, poichè era diventata una vera corsa attraverso alle vie più spaziose della città, durava da una mezz’ora, fra un baccano sempre più spaventevole, quando Abei, che al pari degli altri aveva dovuto scendere da cavallo per non calpestare la folla, che lo stringeva d’ogni parte, si sentì tirare per una manica, assai vigorosamente.
Tabriz e Hossein, divisi dalla scorta, erano già molto innanzi in quel momento.
— Signore, — sussurrò una voce nell’orecchio del giovane.
Abei si era voltato. Un uomo molto barbuto, che aveva il viso in parte nascosto da un ampio turbante, gli stava dietro, tenendolo sempre per la manica.
— Che cosa vuoi? — gli chiese.
— Lasciate passare questi imbecilli, — disse quell’uomo. — Appoggiatevi contro il muro e tenete ben saldo il vostro cavallo. —
Poi aggiunse, spingendolo ruvidamente contro la porta d’una casa:
— Hadgi...
— Aspetta, — rispose Abei, mentre un lampo di gioia gli brillava negli occhi.
La turba passò, seguendo i fanatici che non cessavano di sfregiarsi i corpi; poi, quando gli ultimi uomini scomparvero verso la parte bassa della città, dove giganteggiava un’altra moschea e si trovarono soli, l’uomo barbuto aiutò Abei a salire in sella, dicendogli:
— Non abbiamo tempo da perdere. I russi s’avvicinano.
— Sei uno degli uomini che Hadgi ha lasciato qui perchè mi guidino?
— Sì, signore.
— Sei solo?
— Ho quattro compagni che mi aspettano presso la porta di Ravatak e tutti ben montati.
— Dov’è la fanciulla?
— Al sicuro, fra le montagne di Kasret Sultan Geb.
Affrettiamoci o resteremo anche noi assediati.
— Andiamo, — disse Abei. — Domani i russi assaliranno Kitab, succederà certo un massacro, Tabriz e Hossein difficilmente sfuggiranno alla morte... e Talmà sarà mia. Aveva messo il cavallo al trotto ed il bandito lo seguiva a piedi, correndo come un’antilope.
In quindici minuti Abei ed il bandito raggiunsero i gradini che si estendevano dietro l’alta muraglia, poi piegarono a dritta per arrivare alla porta che supponevano fosse ancora aperta.
Già la intravedevano, quando quattro cavalieri mossero loro incontro.
— Che cosa c’è? — chiese il bandito che si era fermato.
— Troppo tardi! — rispose uno dei cavalieri. — La porta è stata chiusa. —
Quasi nel medesimo istante si udirono le sentinelle di guardia della scarpata e dei bastioni esterni a gridare:
— All’armi!... I russi! —
Poi un colpo di cannone rimbombò fra le tenebre, ripercuotendosi fra i ridotti della cittadella.
Le colonne del maggior generale Abramow marciavano all’attacco della città ribelle.