La tempesta (Shakespeare-Rusconi)/Atto terzo

Atto terzo

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William Shakespeare - La tempesta (1612)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto terzo
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ATTO TERZO



SCENA I.

Dinanzi alla cella di Prospero.

Entra Ferdinando, portando un tronco d’albero.

Ferd. E’ sono in questo mondo fatiche piene di diletto, che riescono insensibili; son vili ufficii, che possonsi riempiere nobilmente; son bassi servigli, che tendono a cospicui guiderdoni. Questa ignobile cura, che mi fu imposta, sarebbe per me sì ardua, quanto m’è tediosa, se la donzella che servo non possedesse la virtù di rianimare ciò che è estinto, e cambiare in gioia le pene. Oh! ella ha più mansuetudine, che suo padre non abbia ferità; suo padre, di cui null’altr’uomo fu mai più aspro ed immane. Convien ch’io trasporti questi tronchi al convenuto luogo, e ve gli schieri con ordine: ne ebbi minaccioso comando. La dolce mia signora piange quando mi vede sudante nell’opera, e dice che non mai simile ufficio venne riempito da tal servitore. Ah! questi cari pensieri alleggeriscono le mie fatiche, e mi rendono lieve ogni fardello. (entra Miranda; Prospero si mostra in distanza)

Mir. Oimè! ve ne scongiuro, non affaticate tanto! Vorrei che i fulmini avessero abbruciati tutti quei tronchi che vi si comandò di trasportare. In mercè, deponete quel peso, e riposatevi. Ah! allorchè questi ceppi saran posti nel fuoco, essi gemeranno pel crudo disagio che vi han causato! Mio padre è assorto ne’ suoi studii: riposatevi, ve ne supplico. Egli resterà per ben tre ore nelle sue meditazioni.

Ferd. Oh amica mia! oh mia dolce signora! il sole sarà tramontato, anzichè io abbia compiuto l’ufficio che mi fu imposto.

Mir. Se volete assidervi, recherò io stessa la legna. Pregovi, cedete a me quel fardello; lo recherò io al cantiere.

Ferd. No, celeste creatura; vorrei prima slogarmi le ossa, frantumarmi le reni, che vedervi nell’esercizio di sì abbietto mestiere, mentr’io me ne stessi ozioso dinanzi a voi.

Mir. Questo impiego si addirebbe meglio a me, e ne sentirei [p. 258 modifica]meno la fatica; perchè il mio cuore vi si assoggetterebbe, mentre il vostro vi ripugna.

Prosp. Povera fanciulla! il veleno ti si apprese; e questa visita lo mostra.

Mir. Siete abbattuto!

Ferd. No, gentil donzella; mostratevi a me la sera, e riavrò in un punto tutte le forze del mattino. Ve ne scongiuro, ed è per porlo fra le mie preghiere, qual è il vostro nome?

Mir. Miranda. Oh padre mio! pronunziandolo, disobbedii al tuo cenno.

Ferd. Miranda! oh degna d’ammirazione Miranda! Sì, la più stupenda delle meraviglie tu sei, il tesoro più degno che l’universo racchiuda! Ho veduto molte fanciulle, e gli occhi miei le esaminavano con cura, mentre talvolta accadeva che la melodia delle loro voci si cattivasse l’orecchio mio, tutto intento ad ascoltarle. Molte belle mi piacquero, taluna per un pregio, tal’altra per un altro; ma una donna che mi letiziasse tutta l’anima non vidi giammai, apparendomi sempre qualche pecca accanto alla dote più cospicua, che ne offuscava lo splendore. Ma voi, voi, che veggo perfetta e senza eguali, oh! a voi il Cielo fornì tutte le più care avvenenze che adornano le altre creature!

Mir. Alcuna non ne conobbi del sesso mio, nè ricordo i lineamenti d’altra femmina; e solo m’è noto il mio viso, per l’immagine che me ne riflette lo specchio. Ignoro pure quali siano i volti degli uomini che abitano lungi da quest’isola; ma sulla mia innocenza, che è il gioiello della mia dote, non vorrei per compagno al mondo altri che voi; nè la mia mente può raffigurarsi volto dissimile dal vostro, che mi potesse piacere. Troppo però io favello, e obblío i voleri di mio padre.

Ferd. Nacqui principe, Miranda; e ora forse son re (così nol fossi!). A questo vile ufficio quindi non mi sottometterei più di quello che tollerar volessi l’ape importuna che mi si posasse sul volto. Ma ascoltate il linguaggio dell’anima mia: appena io vi ho veduta, il mio cuore divenne schiavo; in voi sta la potenza che mi rende soggetto, e amore solo è quegli che mi fa tanto docile.

Mir. Mi amate, Ferdinando?

Ferd. Se amo voi? O cieli, o terra, siate testimonii del mio giuramento, e coronate d’un lieto successo il pensiero che paleso, se è schietto; dannatelo in perpetua sventura, se è fraudolento o fallace. Sì, vi amo, vi estimo, vi adoro al di sopra di tutte le cose che possiede il mondo. [p. 259 modifica]

Mir. Sono pazza a piangere di ciò che mi dà tanto diletto.

Prosp. Fortunato incontro di due anime buone! Cielo, benedici l’affetto puro di quei due giovani.

Ferd. Perchè piangete, Miranda?

Mir. Per la coscienza del mio poco merito, che fa ch’io non oso offrire ciò che desidero di dare, nè mi permette di accettare quello di cui la privazione mi farebbe morire. Ma è una fanciullaggine; e più intendo a nascondere quello che provo, più il mio segreto trapela e si manifesta. Lungi da me, inutile vergogna; e tu, santa innocenza, snoda la mia lingua. Son vostra sposa, se tale mi bramate; se altrimenti volete, morrò vostra vergine fedele. Potete rifiutarmi per compagna, se ciò vi piace; ma non potrete impedirmi almeno d’esservi serva.

Ferd. Signora mia, e non altro. O adorata fanciulla, eccomi a’ vostri piedi.

Mir. Sarete dunque mio sposo?

Ferd. Sì, e con cuor più lieto, che non batta in petto allo schiavo redento a libertà. Eccovi la mia mano.

Mir. Ecco la mia, e con essa la mia anima. Oh Ferdinando! siamo costretti a dividerci per ora.

Ferd. Mia sposa, addio! mille volte addio!               (escono)

Prosp. Non potrei sentire, com’essi, quell’onda d’amore che li trasporta; ma nulla v’è, che maggior gioia potesse recarmi. Torno a’ miei libri; chè prima del desco della sera mi rimangono grandi cose da compiere per questi due giovani.     (esce)


SCENA II.

Altra parte dell’Isola.

Entrano Stefano e Trìnculo; Caliban li segue con una bottiglia.

Stef. Non me ne dir altro; e solo quando la botte sarà secca, berrem acqua; non una stilla innanzi. Su dunque, mio paggio-mostro, leva la bottiglia, e tracanna alla mia salute.

Trìnc. Paggio-mostro? è la pazzia dell’isola! Si dice che qui non siano che cinque abitanti: dei cinque eccoci tre; e se gli altri due hanno il cervello modellato sul nostro, lo Stato vacilla.

Stef. Bevi, paggio-mostro, quando te lo impongo; i tuoi occhi son quasi sepolti nella tua turpe testa.

Trìnc. E dove vorresti che lo fossero? nella sua coda? Oh in verità, sarebbe allora un grazioso animale. [p. 260 modifica]

Stef. Il mio servo-prodigio annegò la propria lingua nel vino: per me, sfido tutto il mare ad annegarmi. Nuotai, prima di toccare la terra, trentacinque leghe; e, per questa luce di cielo, o sarai mio luogotenente, mostro, o mi servirai da stendardo.

Trìnc. Stendardo ti sarà, e atterrirà ognuno che lo vegga.

Stef. Fermiamoci, mostro.

Trìnc. Perchè non possiamo andar più.

Stef. Parla, dannato vitello, parla una volta.

Cal. Come sta tuo onore? Lascia che ti lecchi le scarpe. Colui nol vo’ servire (additando Trìnculo), egli è un codardo.

Trìnc. Mentisci, animale orribile; mi sento cuor bastante per atterrare un prefetto nel primo dì del suo ufficio. Ma tu, lurido anfibio, vedesti mai che un codardo bevesse tanto vino, quant’io oggi ne bevvi? Vorrai dir forse una menzogna, o turpissimo aborto della creazione?

Cal. Ve’ com’ei mi schernisce! E il lascerai tu dire, mio re?

Trìnc. Re? Tanta goffaggine dove mai si vide?

Cal. Di nuovo! di nuovo! Oh! mordilo finch’ei ne muoia, te ne prego.

Stef. Trìnculo, avverti la tua lingua d’esser cauta; e se la fai da ribelle, il primo albero... Questo mostro è mio suddito, e non deve patire tanta indegnità.

Cal. Te ne ringrazio, mio nobile signore; e vorrei rinnovarti la preghiera che ti feci.

Stef. Acconsento: inginocchiati, e ripetila: io e Trìnculo la udiremo stando in piedi.      (entra Ariele invisibile)

Cal. Come te ’l dissi testè, io vivo schiavo d’un tiranno, di un mago, che colle sue frodi mi rapì quest’isola.

Ar. Tu menti.

Cal. (a Trìnculo) Menti tu, scimmia malvagia; e vorrei che piacesse al mio valente sire d’esterminarti. No, no, non mento.

Stef. Trìnculo, se ancor lo interrompi, giuro su questo pugno, che il tuo miglior dente ne andrà in ischegge.

Trinc. Io non fiatai.

Stef. Mormora fra te, se lo vuoi; e tu procedi.

Cal. Io dico che con sortilegi s’impadronì di quest’isola, che a me rubò. Ora piacciati vendicarmi di lui, tu, che l’oserai, essendo composto di diversa pasta da quella di costui.

Stef. Ciò sarà fatto.

Cal. E allora diverrai il signore dell’isola, ed io ti servirò.

Stef. Ma come condur quest’opera? Potrai tu apprestarmi una bella opportunità? [p. 261 modifica]

Cal. Oh! sì, mio principe: io te ’l farò trovar dormiente in luogo, dove potrai conficcargli un chiodo nella testa.

Ar. Tu menti: questo non puoi.

Cal. (a Trìnculo) Oh l’impronto! a che ne dà molestia? Io ti supplico, Altezza (a Stefano), di farlo stramazzar per terra, e di torgli quella bottiglia: tostochè ei più non l’abbia, se vorrà bere gli sarà d’uopo aver ricorso all’acqua dei paduli, essendo io fermo nel non volergli mostrare giammai dove sgorghino le fresche e limpide sorgenti.

Stef. Credimi, Trìnculo, tu pericoli... Se un’altra volta interrompi il mostro, sarò sordo ad ogni pietà; e questa mano ti farà giacere sopra un rude lenzuolo.

Trìnc. Ma che diss’io? nulla dissi. Orsù, me ne andrò lontano.

Stef. Non dicesti ch’ei mentiva?

Ar. Menti.

Stef. In buon senno? Abbiti queste intanto (lo percuote); e se l’assaggio ti diletta, smentiscimi un’altra volta.

Trìnc. Non mai vi smentii... Oh! perdeste voi pure l’udito e la ragione? Peste alla vostra bottiglia! Peste all’ebbrezza ed al vino! venga la morte al vostro maledetto mostro, e il diavolo vi serri strettamente le dita!

Cal. Ah, ah, ah!

Stef. Ora continua il tuo racconto; e tu vattene lontano.

(a Trìnculo)

Cal. Percuotilo ancora, percuotilo di più; fra poco io pure lo concierò a dovere.

Stef. Va anche più lontano (a Trìnculo); e tu prosegui.

(a Caliban)

Cal. Ebbene, come vi dissi, è suo costume dormire dopo il mezzodì. Allora tu puoi, impadronito che ti sia de’ suoi libri, fendergli il cranio, o dargli un colpo di clava sulla testa, o spararlo con un palo, o sgozzarlo con un pugnale; ma bada, tel ripeto, di impossessarti prima de’ suoi libri; privo de’ quali è un idiota come son io, e cessa d’imperare agli spiriti, che odiandolo mortalmente sono pur costretti ad ubbidirlo. Così facendo, sarai signore dei possedimenti suoi, de’ quali sopra ogni altro ti riescirà gradita sua figlia, bellezza incomparabile, com’ei stesso la chiama, e che tanto la vince sull’unica altra donna ch’io ho veduta, mia madre Sicora, quanto la cosa grande è superiore alla piccola.

Stef. È dunque sì gentile la fanciulla?

Cal. Sì, principe; ella converrà al tuo letto, e ti darà una bella prole. [p. 262 modifica]

Stef. Mostro, ucciderò costui, sua figlia ed io sarem re e regina (vivano le nostre Altezze!); e tu e Trìnculo sarete i vicerè. — Trovi bello disegno, Trìnculo?

Trìnc. Egregio!

Stef. Dammi la mano. Mi duole d’averti percosso; ma, finchè vivi, tieni in freno la lingua.

Cal. Entro mezz’ora ei dormirà: l’ucciderai tu tosto?

Stef. Sì, sull’onor mio.

Ar. Ma ciò dirò al mio signore.

Cal. Tu mi rendi allegro; son pieno di contento. Orsù, stiam tutti in festa; e tu ripeti la canzone che m’insegnasti testè.

Stef. Vo’ compiacerti, mostro, vo’ compiacerti; Animo, Trìnculo, cantiamo.     (canta)

Di lor non ragioniam, passiamo avanti;
Libero è l’uom...

Cal. Non è il tuono.     (Ariele suona una zampogna)

Stef. Che è questo?

Trìnc. È il tuono della nostra canzone, suonata dal simulacro di Nessuno1.

Stef. Se un uomo sei, mostra le tue sembianze; se sei il diavolo, assumi la forma che più ti piace.

Trìnc. Oh! perdono de’ miei peccati.

Stef. Quegli che muore, sconta tutti i suoi debiti... Io ti sfido. Oh! di noi misericordia!

Cal. Hai paura?

Stef. No, mostro, non io.

Cal. Non aver paura: l’isola è piena di romori, di suoni erranti, di dolci concenti, che danno diletto, e non mai nuocono. Qualche volta migliaia di stromenti tintinnano al mio orecchio; qualche volta son voci, che se le udissi anche risvegliandomi dopo un lungo sonno, mi farebbero di nuovo dormire; e dormendo mi pare vedersi aprire le nubi, e offrirmi una dovizia di beni in procinto di scendermi sul capo: talchè, schiusi gli occhi, desidero di nuovo il sonno, per sognar ancora.

Stef. Pel Cielo! cotesto sarà un bel regno, dove la musica non mi costerà niente.

Cal. Allorchè Prospero sarà ucciso.

Stef. Ciò che accadrà fra poco: rammento il tuo racconto.

Trìnc. Il suono s’allontana: seguiamolo, e poscia accingiamoci all’opera. [p. 263 modifica]

Stef. Va innanzi, mostro; ti verremo appresso. — Vorrei ben veder questo citaredo, il quale suona sì flebilmente.

Trìnc. Verrai tu? (a Caliban) Seguirò Stefano.     (escono)

SCENA III.

Altra parte dell’isola.

Entrano Alonso, Sebastiano, Antonio, Adriano, Gonzalo, Francisco, ed altri.

Gonz. Per la beata Vergine, non posso andar più innanzi, signore. Le mie vecchie ossa ne son peste: un vero labirinto fu quello che percorremmo dianzi: e imploro la vostra pazienza, onde riposarmi.

Al. Non saprei accagionarvene, buon vecchio; ed io stesso mi sento oppresso da una stanchezza che assopisce i miei sensi. Assidetevi, riposatevi; che io lascierò qui la mia speranza, e mi dipartirò infine da questa adulatrice che m’inganna. Sì, annegato è colui del quale vanno in cerca gli erranti nostri passi, e il mare si ride delle nostre vane indagini.

Ant. (sommessamente a Sebastiano) Son ben lieto che rinunci ad ogni speranza: voi, non iscorato per la cattiva riuscita di testè, non rinunciate al disegno che eravate fermo di compiere.

Seb. Verrà adempiuto alla prima opportunità.

Ant. Che la notte prossima vuol porgerci, non potendo essi certo non riposare dopo tanta fatica.

Seb. Sia dunque questa notte; non ne parliamo altro. (incominciano i preludii d’una musica maestosa e solenne; Prospero invisibile sta sopra un’altura. Entrano parecchie strane forme, recando un banchetto, intorno a cui danzano alquanto; e invitato con cortese saluto il re ad assidervisi, si dipartono).

Al. Che armonia è questa? O miei amici, ascoltate!

Gonz. Musica maravigliosa e cara.

Al. Cielo, inviane angeli protettori! Che forme eran quelle?

Seb. Fantasmi vivi. Ah! d’ora in poi crederò ai liocorni; crederò esista nell’Arabia un albero che è trono della Fenice; crederò che una Fenice v’abbia regno ancor oggi.

Ant. Ed io pure attesterò sempre per vero ogni più strano prodigio; nè viaggiatore alcuno crederò abbia mai mentito, narrando accanto al fuoco la storia delle sue portentose escursioni.

Gonz. Se in Napoli raccontassi di aver vissuto in un’isola [p. 264 modifica]popolata di tali abitatori, mi si vorrebbe dar fede? E nondimeno questo è pure il popolo della nostra isola; e per quanto mostruose siano le sue forme, v’ha nondimeno ne’ suoi modi qualche cosa di sì amabile e dolce, che a stento si rinverrebbe nelle più elevate classi della specie umana.

Prosp. (a parte) Buon vecchio, dici il vero; perocchè fra di voi ancora sta qualcuno, che in perversità non la cede ai demonii.

Al. Non posso cessar di pensare a quei gesti, a quelle forme, a quei dolci suoni, che senza il soccorso delle parole esprimono un linguaggio sì meraviglioso.

Prosp. (a parte) Attendi il fine prima di prodigar la lode.

Franc. Come stranamente scomparvero!

Seb. Ma quanto conforto di cibi lasciarono sul desco! Ne assaggieremo, signori?

Al. Non io.

Gonz. A che, Maestà? Quando eravamo fanciulli vi era un solo fra di noi persuaso che un popolo esistesse con giogaie simili a quelle de’ tori, e occhi splendenti a mezzo il petto? E nondimeno il fenomeno ci è apparso, e tutti potremmo attestarlo con fiducia di verità.

Al. Ebbene, m’assiderò a questa tavola, dovesse essere l’ultimo mio banchetto; poichè già sento che i giorni di mia felicità sono irrevocabilmente passati. Signori, venite, (tuoni e lampi; entra Ariele in forma d’Arpia, e svolazza alcuni minuti intorno alla tavola, la quale poscia svanisce.)

Ar. Sono fra voi tre colpevoli, che il Destino che ha in guardia questo umile mondo, fe’ recare dal mare sulle rive di quest’isola, dove altri uomini non albergano, che voi, malvagi, indegni, disonore della specie umana. (vedendo Alonso, Sebastiano ecc. che snudano le spade) Io ho colmati i vostri cervelli di demenza, di quel coraggio frenetico che induce gli uomini a darsi la morte colle proprie mani; ed è perciò, stolti, che ancor non ravvisate in me e ne’ miei compagni i ministri di una potenza soprannaturale. Ma gli elementi di che sono composti i vostri ferri potrebbero così a mala pena ledere le penne delle mie ali, quanto immergersi sanguinosi nei celeri venti, o ferir la fugace onda che tosto rimargina la cicatrice fattavi dalla spada. Com’io, invulnerabili sono i miei compagni; e se ciò anche non fosse, non potreste più trattare le empie vostre armi. Riempiendo ora lo scopo del mio messaggio, vi dico che foste traditori usurpando il trono di Milano, e cacciandone il suo legittimo possessore e la innocente figlia di lui: dicovi, che per quella iniqua trama gli [p. 265 modifica]onnipossenti Destini, che indugiano talvolta, ma non mai obbliano i loro castighi, infiammarono i mari e le sponde, sollevarono tutti gli elementi della natura contro di voi; te, o Alonso, privarono del figlio: e colla voce mia v’ammoniscono, che flagelli più crudi ancora vi aspettano, se preservarvene non saprete con pentimenti sinceri, e con un seguito di azioni illibate e oneste.

(si dilegua dietro un colpo di fulmine; segue quindi una dolce armonia di stromenti, durante la quale veggonsi per alcuni minuti diverse e strane apparizioni)

Prosp. (a parte) Ben prendesti le forme dell’Arpia, mio amabile Ariele; ben seguisti il precetto che avesti da me. Degli spirti inferiori non potrei pure lagnarmi. Ora il potere de’ miei incantesimi si fa sentire su questi miei nemici, che avvinti e deliranti provano la mia potenza. Lasciamoli dibattersi nella loro follia, e torniamo da Ferdinando, il quale più non vive che dell’amore di mia figlia.     (esce)

Gonz. In nome di qualche cosa di santo, signore, a che vi rimanete in quello stupore?

Al. Oh! fu prodigio! prodigio di terrore! E’ parevami che le onde avessero una voce per nominarlo, che i sibili del vento lo riportassero alle mie orecchie; che il tuono col suo fragore profondo e formidabile proferisse il nome di Prospero cupamente rimbombante nella mia coscienza. Oh! ecco la cagione per cui mio figlio morì, per cui l’Oceano gli è tomba: ond’io andrò a ricercarlo ne’ suoi più profondi gorghi, per finire la vita accanto a lui.     (esce)

Seb. Un demone solo per volta, o attaccherò le intere legioni.

Ant. Va; ti sarò secondo.     (escono)

Gonz. Tutti e tre divennero forsennati per disperazione. L’antico delitto, come veleno efficace solo dopo certo lasso di tempo, comincia a straziarli, e divora le loro anime. Voi, in cui sta vigore di giovinezza, correte sulle orme loro, ve ne prego, e salvateli dalla rovina in cui questo accesso può precipitarli.

Ant. Seguiteci però voi pure, di grazia.     (escono)



Note

  1. No-body ha il testo.