La tempesta (Shakespeare-Angeli)/Atto secondo/Scena prima

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William Shakespeare - La tempesta (1612)
Traduzione dall'inglese di Diego Angeli (1911)
Atto secondo - Scena prima
Atto secondo Atto secondo - Scena seconda


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SCENA PRIMA.


Un’altra parte dell’isola.


Entrano Alonzo, Sebastiano, Antonio, Gonzalo,

Francesco, Adriano, Ariele.


                       Gonzalo.
Ve ne prego, o signor, siate contento:
per voi come per noi c’è ben ragione
d’essere lieti: poi che di gran lunga
la salvezza ogni perdita sorpassa.
È comune il dolor nostro: ogni giorno
la moglie di un marinaio, l’armatore
di un mercantile ed il mercante stesso
hanno un egual dolore. In quanto al nostro
miracolo - che tale è l’esser salvi, -
fra milioni d’uomini ben pochi
posson parlare come noi. Ponete
dunque sulla bilancia, o mio buon sire,
la tristezza e il piacere.

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                              Alonzo.
                                            In grazia: basta!

                            Sebastiano.
     Riceve le consolazioni come una minestra
fredda.

                             Antonio.
     Il consolatore non lo lascerà per così poco.

                            Sebastiano.
     Guardatelo: sta caricando l’orologio della
sua intelligenza. Fra poco, suonerà.

                             Gonzalo.
     Sire....

                            Sebastiano.
     E una: parla.

                             Gonzalo.
Quando ogni afflizion che si presenta
in tal maniera, al suo ospite apporta....

                            Sebastiano.
     Un dollaro.

                             Gonzalo.
Un dolore: è giusto. Avete parlato meglio
di quel che non credevate.

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                            Sebastiano.
        E voi lo avete interpretato meglio di quello
che non mi fossi proposto.

                             Gonzalo.
Ed è perciò, signore mio....

                            Sebastiano.
Uff! Come è prodigo della sua lingua!

                              Alonzo.
                                                 Ti prego,
risparmiami.

                             Gonzalo.
                Ho finito. Ma pertanto....

                            Sebastiano.
        Continuerà a parlare.

                             Antonio.
        Scommettiamo: chi gracchierà prima, lui o
Adriano?

                            Sebastiano.
        Sarà il vecchio gallo.

                             Antonio.
        Sarà il galletto.

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                            Sebastiano.
        Accettato. E la posta?

                             Antonio.
        Una risata.

                            Sebastiano.
        Tengo.

                             Adriano.
        Se bene quest’isola sembri deserta....

                            Sebastiano.
        Ah! ah! ah! ah! - Eccovi pagato.

                             Adriano.
        ....inabitabile e quasi inaccessibile....

                            Sebastiano.
        Pure....

                             Adriano.
        ....pure....

                             Antonio.
        Non poteva tralasciarlo.

                             Adriano.
        ....pure sembra che debba essere di clima
leggero, sottile e di delicata temperanza.

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                             Antonio.
         Temperanza era infatti una delicata donzella.1

                            Sebastiano.
        Già: e sottile anche, come l’ha saggiamente
annunciato.

                             Adriano.
        L’aria alita sopra di noi molto dolcemente.

                            Sebastiano.
        Come se avesse polmoni e — per di più —
marci.

                             Antonio.
        O come se fosse profumata da una palude.

                             Gonzalo.
        Qui c’è ogni cosa giovevole alla vita.

                             Antonio.
        Giusto: salvo però la maniera di vivere.

                            Sebastiano.
        Di questa ce n’è poco o punto.

                             Gonzalo.
        Come l’erba apparisce folta e rigogliosa! E
come è verde!

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                             Antonio.
        Il suolo però è gialliccio.

                            Sebastiano.
        Con una punta di verde.

                             Antonio.
        Non si è sbagliato di molto.

                            Sebastiano.
        No: non fa che sbagliare intieramente la
verità.

                             Gonzalo.
        Ma la rarità di tutto ciò, che è quasi oltre
ogni credere....

                            Sebastiano.
        Come tante altre notorie rarità....

                             Gonzalo.
        ....è che le nostre vesti, bagnate dal mare
come furono, hanno non ostante conservato la
loro freschezza e il loro splendore e sono più
tosto rinnovate che macchiate dall’acqua salata.

                             Antonio.
        Ma se una delle sue tasche potesse parlare,
non direbbe forse che mentisce?

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                            Sebastiano.
        Già: o per lo meno s’intascherebbe molto
falsamente la sua affermazione.

                             Gonzalo.
        Mi sembra che le nostre vesti sieno così
fresche come il giorno che le indossammo per
la prima volta, in Africa, al matrimonio della
figlia del Re, la gentile Claribella, col Re di
Tunisi.

                            Sebastiano.
        Fu un bel matrimonio, che ci ha profittato
molto nel ritorno!

                             Adriano.
        Tunisi non era mai stata onorata, prima di
adesso, con un modello di perfezione simile
alla sua Regina.

                             Gonzalo.
        No: dal tempo della vedova Didone.

                             Antonio.
        Vedova? La peste a lei! Come c’entra que-
sta vedova? La vedova Didone!

                            Sebastiano.
E così? Se egli avesse anche detto il “Ve-
dovo Enea„, Signore Iddio, come ve la pren-
dete, per questo!

[p. 52 modifica]

                             Adriano.
        Vedova Didone, avete detto? Ora mi ci fate
pensare: ella era di Cartagine, non di Tunisi.2

                             Gonzalo.
        Questa Tunisi, O signore, era un tempo Car-
tagine.

                             Adriano.
        Cartagine!

                             Gonzalo.
        Ve lo assicuro: Cartagine.

                             Antonio.
        La sua parola val più di un’arpa miracolosa.

                            Sebastiano.
        Egli ha innalzato le muraglie e le case tutte
insieme.

                             Antonio.
        Che cosa impossibile sta ora per rendere
facile?

                            Sebastiano.
        Suppongo che si porterà via quest’isola in
tasca e che la darà a suo figlio come una mela.

                             Antonio.
        E che ne butterà i semi in mare per far na-
scere altre isole!

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                           Alonzo.
     Che c’è?

                          Antonio.
     Arriva in buon punto.

                          Gonzalo.
     Sire, dicevamo che le nostre vesti sono fre‐
sche come quando eravamo a Tunisi, per il ma‐
trimonio di vostra figlia, ora regina.

                          Antonio.
     E la più rara che sia mai veduta là.

                         Sebastiano.
     Eccettuata, vi prego, la vedova Didone.

                          Antonio.
     O la vedova Didone! Già: vedova Didone!

                          Gonzalo.
     Non è forse, sire, il mio giustacuore fresco
come il primo giorno che lo indossai? Intendo,
sotto un certo punto di vista....

                          Antonio.
     Ecco un “punto di vista„ pescato opportu‐
namente.

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                       Gonzalo.
     ....quando lo indossai al matrimonio di vo‐
stra figlia?

                        Alonzo.
M’impinzate le orecchie con parole
oltre la fame dei miei sensi. Il cielo
volesse ch’io mia figlia non avessi
maritato costà: chè nel ritorno
ho perduto mio figlio e se non erro,
ora che dall’Italia ella e sì lunge,
io non potrò più rivederla. O erede
di Milano e di Napoli, di quale
strano pesce sarai stato pastura?

                      Francesco.
Sire, forse egli è vivo. Io l’ho veduto
domare l’onde e cavalcarne il dorso.
Egli sottometteva l’acque e d’ambo
i lati respingea quei loro attacchi
nemici e le più aspre ondate contro
di lui sospinte a sè stringea. L’ardita
fronte oltre i flutti irosi sollevando
con buone braccia in vigorosi colpi
remigava così verso la costa
che, dal flutto minata, reclinava
sopra lui, quasi ad aiutarlo. Salvo
giunse a terra.

[p. 55 modifica]

                        Alonzo.
                 No, no, perito è certo.

                      Sebastiano.
Sire, potete ringraziar voi stesso
per questa grande perdita. L’ Europa
favorir non voleste con la figlia
vostra, che preferiste abbandonare
a un africano e quivi ella è bandita
dai vostri occhi che giustamente ormai
lacrime versan di rimpianto.

                        Alonzo.
                                                      Basta,
ti prego.

                      Sebastiano.
         Supplicato foste e tutti
c’inginocchiammo innanzi a voi con ogni
genere di preghiere e quella stessa
bell’anima divisa fra disgusto
e obedienza, esitò a lungo incerta
da qual lato propendere. Perduto
per sempre abbiamo vostro figlio, io temo,
e Napoli e Milano avran per questa
avventura più vedove che noi,
uomini non rechiamo a consolarle.
La colpa è vostra.

[p. 56 modifica]

                        Alonzo.
                        Ed è la mia più cara
perdita!

                       Gonzalo.
               O Sebastiano, o mio signore,
il vero che narrate manca forse
di gentilezza e di opportunità.
Irritate la piaga quando invece
voi dovreste arrecar l’impiastro.

                      Sebastiano.
                                                             È giusto.

                       Antonio.
E chirurgico molto.

                       Gonzalo.
                           O mio buon sire
è tempo nero per noi tutti, quando
siete rannuvolato.

                      Sebastiano.
                         Tempo nero.

                       Antonio.
Nerissimo.

                       Gonzalo.
                     E dovessi io coltivare
quest’isola, o signore....

[p. 57 modifica]

                        Antonio.
                                     Pianterebbe
l’ortica.

                       Sebastiano.
         O pur la malva.

                        Gonzalo.
                                         S’io mi fossi
il Re, cosa farei?3

                       Sebastiano.
                        Vi provereste
a non ubriacarvi per mancanza
di vino.

                        Gonzalo.
       Nel mio Stato ordinerei
le cose alla rovescia: non un nome
di magistrato ammetterei; commerci
d’ogni genere esclusi; ignote tutte
le lettere; ricchezza, povertà,
usi di servitù nessuno; niente
contratti, eredità, siepi, poderi
chiusi, terreni coltivati e vigne;
proibito l’uso di metalli, d’olio,
di frumento, di vino; alcun lavoro:
gli uomini in ozio e anche tutte
le donne, ma innocenti e pure; alcuna
supremazia regale....

[p. 58 modifica]

                       Sebastiano.
                                   Ma vorrebbe
essere il Re!

                        Antonio.
     La fine della sua repubblica si dimentica del
principio!

                        Gonzalo.
           Senza sudori e senza
sforzi tutte le cose produrrebbe
la Natura; vorrei fossero ignoti
il tradimento, la bassezza e l’uso
di spada, di coltello, di fucile,
di picca e d’ogni altra arma; la benigna
Natura produrrebbe in abbondanza
quanto basti a nutrire il popol mio!

                       Sebastiano.
E nessun matrimonio fra i suoi sudditi.

                        Antonio.
     Nessuno: tutti in ozio, puttane e farabutti.

                        Gonzalo.
E vorrei governar, sire, con tanta
perfezione, che l’età dell’oro
sarebbe sorpassata.

[p. 59 modifica]

                       Sebastiano.
                                 Salva sia
Sua Maestà!

                        Antonio.
             Evviva il Re Gonzalo!

                        Gonzalo.
     E — mi ascoltate, o sire....

                        Alonzo.
     Basta, ti prego; le tue parole non mi di‐
cono niente.

                        Gonzalo.
     Credo facilmente a Vostra Altezza e se le
ho dette è stato per divertire questi gentiluo‐
mini i quali hanno una milza così sensibile,
che si mettono a ridere per la minima scioc‐
chezza.

                        Antonio.
     Questa volta abbiamo riso di voi.

                        Gonzalo.
     Il quale io, in questo genere di allegra paz‐
zia sono un niente in confronto a voi. Così
potete continuare e ridere ancora di nulla.

                        Antonio.
     Che colpo ci avrebbe dato!

[p. 60 modifica]

                       Sebastiano.
     Se non fosse caduto come uno straccio.

                        Gonzalo.
     Voi siete gentiluomini di fegato, capaci di
tirar giù la luna dalla sua sfera, se stesse cin‐
que giorni senza cambiare.
Entra Ariele invisibile. Si
ode una musica solenne.

                       Sebastiano.
     Lo faremmo infatti e ci andremmo a caccia
servendocene come lanterna.

                        Antonio.
     Su via, mio buon signore, non vi arrabbiate.

                        Gonzalo.
     O no, ve lo garantisco io, non compromet‐
terei la mia serietà per così poco. Volete ri‐
dere di me mentre dormo? Mi Sento molto
stanco.

                        Antonio.
     Andate a dormire e cercate di sentirci.
Tutti si addormentano, eccettuati
Alonzo, Sebastiano e Antonio.

[p. 61 modifica]

                         Alonzo.
Come sì presto addormentati? Ahi fosse
possibile che gli occhi miei con loro
si chiudessero sopra i miei pensieri!
Sento che a ciò sono proclivi.

                       Sebastiano.
                                                      Sire,
non ricusate questa offerta, il sonno
ben di rado il dolor visita e quando
lo faccia, è di conforto.

                        Antonio.
                                       Ambo, o signore,
vi guarderemo mentre riposate
e veglieremo alla salvezza vostra.

                         Alonzo.
Io vi ringrazio. Oh sonno portentoso!
Alonzo si addor‐
menta. Exit Ariele.

                       Sebastiano.
Quale strano sopor tutti li tiene!

                        Antonio.
Forse è il clima.

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                       Sebastiano.
                       Perchè, se gli occhi vostri
non si aggravan così? Non sento affatto
bisogno di dormire.

                        Antonio.
                          Ed io nè meno.
Son vigili i miei spiriti. Assopiti
essi sono nel sonno, tutti insieme
quasi per un accordo e son piombati
a terra come fulminati! Quale
buona fortuna, o Sebastiano. Quale
buona fortuna! Ma non più, mi sembra
però di legger sul tuo volto, quello
che vorresti: l’occasion ti parla
e la mia ardente fantasia già scorge
una corona alla tua fronte....

                       Sebastiano.
                                                    Cosa?
Sei tu sveglio?

                             Antonio.
                     Non odi il mio parlare?

                       Sebastiano.
L’odo: ma questo tuo parlare è certo
d’uomo assopito e tu nel sogno parli.
Cosa dicevi? Assai strano riposo,

[p. 63 modifica]

dormir con gli occhi aperti! Tu ti muovi,
e stai in piedi e discorri e pure dormi
profondamente.

                        Antonio.
                Nobil Sebastiano,
tu, la fortuna tua lasci dormire
o morire più tosto! E chiudi gli occhi
pur essendo ben sveglio.

                       Sebastiano.
                                           È certo, russi
distintamente e v’è nel tuo russare
pur qualche senso.

                        Antonio.
                          Più che mio costume
io son serio e voi pur lo diverrete,
se mi darete ascolto, triplicato,
in questo caso.

                       Sebastiano.
                     Io sono un’acqua ferma.

                        Antonio.
E a scorrer io v’insegnerò.

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                       Sebastiano.
                                                Sì, fatelo:
un’indolenza ereditaria, forse
m’indurrà a rifluire.

                        Antonio.
                             O se sapeste
quanto questo proposito voi stesso
pur irridendo accarezzate e quanto
più lo spogliate e più lo fate bello!
Gli uomini del riflusso, veramente
sono vicini, molto spesso, al fondo
per il loro timore e per la loro
indolenza.

                       Sebastiano.
           Ti prego, spiega meglio.
La durezza del tuo sguardo e del tuo
volto proclama un non so qual pensiero
che vuol manifestarsi, ed il cui parto
grandi sforzi ti costa.

                        Antonio.
                                    Ecco, signore:
questo messer di debole memoria
- che lascerà fra gli uomini un ricordo
anche più lieve quando sia sepolto -
quasi convinto ha il Re (perchè costui

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è l’uomo del convincere e soltanto
a questo scopo è nato) che suo figlio
sia sempre vivo. Che non sia affogato
è impossibile, come non sarebbe
possibile che nuoti ei che qui dorme.

                       Sebastiano.
Non ho alcuna speranza ch’egli sia
salvo.

                        Antonio.
     Quanta speranza in quella “alcuna
speranza„! Alcuna speme è un’altra strada
che adduce a una speranza così alta
qual l’occhio dell’ambizione appena
può raggiungerla e dubita pur anco
di poterla scoprire! Convenite
con me che Ferdinando è morto?

                       Sebastiano.
                                                       È morto.

                        Antonio.
Dunque qual’e l’erede più vicino
al trono?

                       Sebastiano.
         Claribella.

[p. 66 modifica]

                        Antonio.
                          La regina
di Tunisi, colei che abita a dieci
leghe oltre il poter nostro; colei che
da Napoli non può ricever nuove
(se non le faccia da corriere il sole
chè l’Uomo nella luna andrebbe troppo
lento) prima che il mento del fanciullo
appena nato sia peloso e pronto
ad esser raso; quella per cui tutti
fummo preda del mare e solo alcuni
rigettati alla spiaggia. Ma son questi
predestinati a compiere un tal fatto
di cui il passato è il prologo e il futuro
sta nelle vostre mani e nelle mie.

                       Sebastiano.
Che vaniloquio! Cosa dite? È vero
che la figlia di mio fratello regna
su Tunisi ed è vero ch’ella sia
la sola erede al trono e che fra i due
paesi corra un qualche spazio.

                        Antonio.
                                                      Un tale
spazio, che ciascun cubito ci sembra
debba gridare: “Come Claribella

[p. 67 modifica]

può dettar leggi a Napoli? Rimanga
a Tunisi e si svegli Sebastiano„.
Dite: se quel sopor che ora li tiene
fosse la morte, non sarebber peggio
di quel che sono. E può qualcun regnare
su Napoli, così come costui
che dorme. Ci sarebbero signori
che potrebber parlar con altrettanta
inutile abbondanza al par di questo
Gonzalo. Io stesso potrei far discorsi
così vani. Ah perchè voi non avete
un’anima alla mia pari! Qual sonno
sarebbe questo al salir vostro! Udite?

                       Sebastiano.
Credo di sì!

                        Antonio.
              Con qual senso accogliete
questa vostra fortuna?

                       Sebastiano.
                                      Mi rammento
che soppiantaste Prospero, il fratello
vostro.

                        Antonio.
       È vero. E guardate come bene
mi stanno addosso queste vesti: molto

[p. 68 modifica]

meglio di prima. Mi erano compagni
di mio fratello i servi, ora mi sono
sottomessi.

                       Sebastiano.
            Però la coscienza....

                        Antonio.
Ahi, signore, dov’è? S’ella pur fosse
un gelone potrebbe trattenermi
dentro le mie pantofole: ma io
non sento quella Dea dentro il mio seno.
Ci fossero tra me e Milano venti
coscienze potrebbero gelare
e liquefarsi prima che una qualche
molestia mi recassero. Il fratello
vostro qui giace e non varrebbe meglio
di questa terra su cui dorme s’egli
fosse quello che sembra: morto. Io posso
con tre pollici sol di questo ferro
obbediente stenderlo per sempre
sul suo letto e nel tempo stesso, voi
rivolgete lo sguardo a questo vecchio
straccio di ser Prudente, che in tal modo
non sarebbe più là per giudicare
quel che facemmo. In quanto agli altri tutti,
accetteranno, come un gatto beve
una tazza di latte, quel che noi

[p. 69 modifica]

vorremo suggerire e obbedienti
orologi quell’ora suoneranno
che diremo esser utile all’impresa
del momento.

                       Sebastiano.
                Sarà mio precedente
il tuo passato, caro amico, e come
acquistasti Milano io farò mia
Napoli. Fuori la tua spada; un colpo
e ti libererai da quel tributo
che paghi, ed io, Re, ti amerò.

                        Antonio.
                                                     Snudiamo
le spade insieme e quando la mia mano
si alzerà, faccia la vostra altrettanto
per Gonzalo.
Rientra Ariele invisi‐
bile. Si ode una musica.

                       Sebastiano.
               Ma ascolta una parola.
Lo trae da un lato, parlandogli.

                         Ariele.
Ha preveduto il mio signor per mezzo
dell’arte sua questo periglio in cui
l’amico suo si trova e qui mi manda
chè tu viva e non muoia il suo disegno.

[p. 70 modifica]

Parlando negli orecchi di Gonzalo.
Mentre giaci addormentato
la congiura dall’occhio sbarrato
non perde un momento.
Se la vita ti sta a cuore
scuoti dunque cotesto torpore.
Attento! Attento!

                        Antonio.
Siamo rapidi entrambi.

                        Gonzalo.
svegliandosi.
                                    Angeli buoni
salvate il Re.
A Sebastiano e Antonio.
              Che cosa c’è?
A Alonzo.
                                                 Su! Sveglio.
A Sebastiano e Antonio.
Perchè le spade sguainate? E cosa
vogliono dire quei sinistri sguardi?

                         Alonzo.
svegliandosi.
Che c’è di nuovo?

                       Sebastiano.
                              Mentre vegliavamo
sopra il vostro riposo, in un istante

[p. 71 modifica]

medesimo un rumore udimmo come
ruggir di tori o di leoni. È questo
che vi ha svegliati? Assai terribilmente
mi ha colpito l’orecchio.

                         Alonzo.
                                        Io non ho udito
nulla.

                        Antonio.
      Era uno strepito che avrebbe
spaventato l’orecchio anche di un mostro
e il suol fatto tremare. È stato certo
il fuggire d’un’orda di leoni.

                         Alonzo.
Tu l’udisti, o Gonzalo?

                        Gonzalo.
                                       Sul mio onore
udito ho come un mormorio bizzarro
che mi ha svegliato: ed io vi ho scosso allora
e vi ho svegliato e mentre aprivo gli occhi
visto ho le spade loro ignude. Certo
vi fu rumore, e questo è vero. Meglio
faremo a stare in guardia o pur lasciamo
questa contrada. E sfoderiam le spade.

[p. 72 modifica]

                        Alonzo.
Lasciamo pure questo luogo e il figlio
mio misero cerchiamo.

                        Gonzalo.
                                     Il ciel lo tenga
lungi da tali belve, ch’egli è certo
in quest’isola!

                         Alonzo.
                Andiamo.
Exit con gli altri.

                         Ariele.
                                          Il mio signore
Prospero, ben saprà quel che ho compito
e tu, Re, cerca il figliuol tuo smarrito.
Exit.

Note

  1. [p. 183 modifica]I puritani dell’epoca di Guglielmo Shakespeare usavano di battezzare le loro figli con nomi di virtù morali e religiose. Così il Taylor nella descrizione di una meretrice, ha questi due versi:

    Though bad they be, they will not bate an ace
    To be call’d Prudence, Temperance, Faith and Grace.

  2. [p. 183 modifica]Il Malone suggerisce che questa insistenza sul nome di Dido in assonanza con la parola Widow ‒ vedova ‒ possa essere stata dettata dal ricordo di una iscrizione copiata da Anserio e riportata tradotta nei poemi di Davison:

                                        O nost unhappy Dido
    unhappy wife and mor unhappy widow!

    Ma forse più giustamente altri comentatori rammentano una ballata Queen Dido popolarissima ai tempi di Shakespeare e cantata in tutte le taverne e in tutte le strade di Londra.

  3. [p. 183 modifica]Tutto questo passaggio, nel quale taluno potrebbe vedere un’acuta satira del socialismo, fu ispirato dagli Essais di Montaigne che erano stati tradotti dal Florio e pubblicati in Inghilterra nel 1603. Si può dire che l’intiero brano non sia che una traduzione del capitolo in cui si parla della Francia Antartica, allora recentemente scoperta. [p. 184 modifica]Il lettore potrà confrontare gli Essais al capitolo XXX del libro I: Des Cannibales.