La tabernaria/Atto V
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ATTO V.
SCENA I.
Pedante, Antifilo, Limoforo.
Pedante. Delibúto d’un insueto e subitaneo gaudio dell’insperato successo, sento la mia persona eliquarsi in lacrime, che son quasi prolapso in una epilepsia d’allegrezza, talché sono inabile a soccombere al peso; poiché senza dispendio e senza aver a far scrutinio d’un marito probo per collocare Altilia mia, l’ho restituita al genuino suo padre. La donna in casa è un certuni malum e una verecundia incerta.
Limoforo. Di grazia, fatemi partecipe di tanta vostra allegrezza.
Pedante. È venuto il padre d’Altilia mia: ce l’ho restituita e son evaso da un tanto discrimine.
Antifilo. Dunque, Altilia non è vostra figlia?
Pedante. D’amor si bene, ma da me non ingenita.
Limoforo. E come venne, ditemi di grazia, in poter vostro?
Pedante. Vi dirò laconice, con brevi parole ma succiplenule. Venne in Salerno, fuggendo il grassante contagio napolitano, una pedissequa ch’avea prestato il latticinio ad una puerula di facie spectanda et insuper iucunda, la quale abitava nella mia vicinia. Io circumspectando questa virguncula con uno inflexo et pertinace obtúto, la scorgeva d’una modestosa e maestosa indole. Eran le parti del suo corpo con una suprema eleganzia armonizate. Resideva negli occhi sui una coruscante luce siderea con certi igniculi vivaculi spirantino l’eleganzia del suo ingegno. Le guancie eran di latte, invermigliate di purpuree rose. Vernavano nel volto i flosculi della sua futura pulcritudine. Era d’un blando eloquio. La bocca con certi labricoli che traean da lunge morsicanti e sorbicoli baci; con certe toberose mammelle e lattabonde. Crescendo poi nell’etá florulenta, crebbe molto morigerata e guardinga dell’onor suo. Io le presi affetto paterno, come propria uscita dal mio alveo; ricevei ella e la balia nel mio contubernio e ne presi il tirocinio: l’ho imbuta di varie lettere e lingue dagli incunabuli. Dicevami la balia esser nata nobile; e ritrovandosi forse il padre, n’arebbe ricevuto da lui de’ prestiti alimenti non picciola ricompensa. Io non ebbi mai moglie, che ho amato le donne d’un amor socratico o platonico. Or essendo venuto il prelibato suo padre, l’ha riconosciuta; e io doppo le debite richieste gli l’ho restituita.
Antifilo. Dubito che non siate stato ingannato.
Pedante. Non posso esser stato deluso, perché era uomo circonspetto con le mani chiroticate: da segni della figliuola e dell’istoria della sua vita, me ne rendei certo; ma pur, dubitabondo e renuente, chiamata la balia e seco confabulando, si riconobbero insieme. E senz’altra replica gli consegnai l’una e l’altra.
Antifilo. (O morte, perché non m’uccidi? Mi sono affaticato tutto oggi per scapparla dalle mani di Giacomino e dalle trappole di Cappio, fatto venir il padre da Posilipo, mandato uomini alla taberna, fatto cercarla dal capitano; alfin ridotta in casa mia, con nuovi inganni me l’han robbata. O speranze, o vani pensieri d’innamorati, come spariscono in un momento! o cose del mondo come sète varie e instabili!). Maestro mio, dalle cose da voi dette io non posso in alcun modo persuadermi che voi non siate stato ingannato. Come sono accadute tante cose in un’ora, che son state sepolte tanto tempo? come in questo ponto è venuto il padre da casa del diavolo per torvela? Poiché la casa di Giacomino si trasformò in taberna, come cercata al Cerriglio non v’era, e poi cercata di nuovo si trovi, e subito ricuperata è stata subito rubbata? Stimo che giochino a chi sa meglio trappoleggiare.
Limoforo. Come disse che si chiamava suo padre, sua madre e la fanciulla?
Pedante. Il padre, Limoforo; la madre, Cleria; e la fanciulla, Aurelia.
Limoforo. Voi perché la chiamate Altilia?
Pedante. Per esser cresciuta alta e procèra della persona e della virtú, l’ho posto nome Altilia.
Limoforo. (Io mi sento un certo spirito favellar nel core che costei sia mia figlia. Che favellare? anzi sollecitare e spingere a saperne il vero). Ditemi, ove è costui che dice esser suo padre?
Pedante. Egli è introgresso in questa domuncula seu domicilio.
Limoforo. Di grazia, chiamatelo, ché tutto fia per vostro bene.
Pedante. Tic, toc, tic.
SCENA II.
Pseudonimo, Limoforo, Pedante, Antifilo.
Pseudonimo. Che commandate, mio carissimo maestro?
Pedante. Questo gentiluomo ha caro ragionarvi.
Antifilo. (O che cèra di manigoldo, che malencolia, che occhi ficcati in dentro piccioli, che naso grifagno! E come in corpo sí mostruoso può albergar anima che buona sia?).
Pedante. (In anima malevola non intrabit sapientia) .
Pseudonimo. Eccomi al vostro commando.
Limoforo. Desidero sapere il vostro nome.
Pseudonimo. Io? Limoforo.
Limoforo. Di che cognome?
Pseudonimo. Pignattelli.
Limoforo. Di che cittá?
Pseudonimo. Di Surrento, se ben ho abitato in Napoli.
Limoforo. Quando venisti in Napoli?
Pseudonimo. Iersera.
Limoforo. La cagione?
Pseudonimo. Ebbi novella ch’una mia figliuola e balia che gran tempo non avea viste, erano in Napoli.
Limoforo. Come le perdeste?
Pseudonimo. Essendo la peste in Napoli, m’appestai io, la moglie e il figlio, e fummo strassinati al lazaretto; restò la casa sola; morí la moglie e il figlio. Tornando in Napoli trovai la casa vuota di uomeni e di robbe; mi ricovrai in Sorrento, né piú mai ebbi contezza della figlia o della balia.
Limoforo. (Questo è un altro me; anzi se ricorda delle cose che non me ne ricordo io). Ma ditemi un poco, come si chiamava la moglie?
Pseudonimo. Cleria.
Limoforo. Il figlio?
Pseudonimo. Antifilo.
Limoforo. La balia?
Pseudonimo. Lima.
Limoforo. Di che tempo era la figliuola?
Pseudonimo. Di duo in tre anni.
Limoforo. Avea alcun segno la figliuola nella persona?
Pseudonimo. Una ferita nella man sinistra che si fe’ cadendo dalle braccia della balia; e una macchia rossa, nella mammella destra, che diceva essere una gola d’una cirieggia della madre.
Limoforo. Dico che a puntino accadde questo a me nel tempo della peste di Napoli; e quanto tu hai detto di te stesso, tutto quello son io. Io Limoforo Pignatello di Surrento, io m’appestai con la moglie e il figlio: morí mia moglie, restò la casa sola con Aurelia e la balia Lima; e guarito, tornando trovai la casa vuota e sbaliggiata e mi ricovrai in Surrento; e la figlia avea quella ferita e macchia ch’hai tu detto. O che tu sei diventato me o che io son diventato te.
Pseudonimo. Io son quello che fui sempre, né son altro diventato.
Limoforo. Forse ci siamo scambiati insieme.
Pseudonimo. Mai viddi uomo tanto simile a me che mi fusse scambiato in lui.
Limoforo. Forse siamo un’anima in duo corpi?
Pseudonimo. L’anima mia stette sempre con me, né si partí mai dal corpo mio per animarne un altro.
Pedante. Se fussimo al tempo di Pittagora, che diceva che morendo uno l’anima di quello transmigrava in un altro, io direi che costui fusse morto e l’anima sua passata nel tuo corpo; ma questi è vivo.
Limoforo. O tu sei me o io son te.
Pseudonimo. Io son quello che fui sempre, né fui mai te.
Limoforo. Quanto voi avete detto di voi, tutto è impossibile.
Pseudonimo. Come impossibile, s’è stato, è e sará sempre?
Pedante. (Hem, quid audio?).
Antifilo. (Che dite voi di questo fatto, il mio caro maestro?).
Pedante. (Quid dicam vel quid cogitem, nescio. Dubito sia un paradosso di furfantaria, e noi restaremo condennati alle spese. Se fosse stato un avocato, non arebbe potuto dir tante bugie in un attimo).
Antifilo. (Oimè, dubito che Altilia d’innamorata mi diverrá sorella!).
Pseudonimo. Io son calato giú per farvi grazia.
Limoforo. Anzi, per mia disgrazia. Volete voi saper chi sète, volete che ve lo dica?
Pseudonimo. Io so ben chi sono, né bisogna che mi sia detto.
Limoforo. Tu non sei Limoforo; ma vorresti esserci per ingannar me, che sono il vero Limoforo.
Pedante. Tarde venisti, domine.
Pseudonimo. Son venuto molto presto, piú che aresti voluto; e mal per voi.
Limoforo. Tu veramente sei un furfante, un truffatore.
Pseudonimo. Voi molto vi discomponete verso di me.
Limoforo. Perché n’ho ragione.
Pseudonimo. Che ragione?
Limoforo. Che per tormi la figlia, m’hai occupato il nome e l’esser mio.
Pseudonimo. Ed io questo medesimo dirò di te.
Pedante. Mira che viso invetriato! Tu sei un spurio e adulterino Limoforo.
Limoforo. E ti basta l’animo di negarlo?
Pseudonimo. Sí ben, perché dico il vero.
Antifilo. Va’ t’appicca.
Pseudonimo. Va’ e appiccati tu che lo meriti, ché tu vuoi truffar me.
Antifilo. Tu dici che Antifilo è morto di peste; io sono Antifilo, e io son vivo a tuo dispetto. Padre, meritarebbe che costui fosse preso da’ birri e balzato in una galea.
Limoforo. Giá tace: la veritá e la vergogna gli chiude la bocca, ché non sa che rispondere.
Pedante. Meritarebbe che questo falsiloquo fosse ben castigato.
Pseudonimo. Ascoltate la veritá.
Limoforo. Ascoltiamo che dice la bocca della veritá.
Pseudonimo. Chiamiamo la balia; ella chiarirá chi sia il vero Limoforo di noi duo.
Limoforo. Che si chiami.
Pseudonimo. Tic, toc, tic. Cala qua giú, Lima.
SCENA III.
Lima, Pedante, Pseudonimo, Limoforo, Antifilo.
Lima. Che commandate, signor Limoforo mio padrone?
Pseudonimo. Che dichi chi di noi sia veramente Limoforo.
Lima. Che dimande son queste? voi sète Limoforo, il mio antico padrone.
Pseudonimo. Chi è costui che mi sta presso?
Lima. Io non lo conosco, ...
Limoforo. Non mi conosci, eh! e io subito, in veder te, t’ho riconosciuta. Ma raffigurami meglio.
Lima. ...né tampoco mi ricordo avervi giamai visto.
Limoforo. Non ti ricordi del tuo antico padrone Limoforo?
Lima. Signor Limoforo...: dico, forastiero, veramente che non vi cognosco.
Limoforo. Pur mi chiami Limoforo; e tu non volendo, a tuo dispetto la lingua ti manifesta i secreti del core. Ma questi chi è?
Lima. Limoforo Pignatelli, marito di Cleria mia padrona, il qual avendolo stimato morto col suo figlio, ho sempre onorata la sua morte con molte lacrime.
Pedante. Dii boni, quid audio? or in me regresso conosco che son stato deluso.
Limoforo. Ecco che mentre piú ti raffiguro, ti vedo nel fronte il segno di quella ferita che ti fe’ Cleria mia moglie, quando ti cadde Aurelia di braccio. Ma dimmi, nuovo Limoforo, come si chiamava il marito di Lima?
Pseudonimo. Che imperio avete sopra di me, che sia costretto a rispondere a quanto mi dimandate? Non me ne ricordo.
Limoforo. Tu non lo pòi sapere, che mai conoscesti Lima né Limoforo. Ma dimmi, Lima, non ti trovò mia moglie a giacere con Barbetta nostro famiglio, e con un bastone ti fe’ quella ferita ch’hai nella mano, ti cacciò di casa, e poi a preghiere d’amici fosti ricevuta? Questi secreti li sa questo tuo Limoforo?
Pseudonimo. Non mi ricordo di tal cosa.
Limoforo. Mostra la ferita ch’hai nella mano.
Lima. Non vo’ mostrare le mie carni a persona del mondo.
Limoforo. Non eri cosí quando eri giovane: che mirandoti solo alcuno, prima che te lo chiedesse, ce le mostravi; e le tenevi coperte solo perché le mosche ti davano fastidio.
Lima. Non so quel che vi diciate.
Limoforo. O Cielo, che non mi par di creder quel che veggio né di creder quel che è vero; e pur mi sento morir di desiderio di veder mia figlia.
Antifilo. Lima, chiama la tua figliana.
Pedante. Io tremo nel meditullio del mio core per tanti inopinati accidenti d’oggi. O Giacomino malus, o Cappio peior, o Pseudonimoforus pessimus! O quam malum est habere foeminas pulcherrimas in domo!SCENA IV.
Capitano, Giacomino, Pedante, Limoforo, Pseudonimo.
Capitano. Limoforo, eccovi Giacomino che, senza ch’io lo meni prigione, egli da se stesso viene ad imprigionarsi.
Giacomino. Io non vengo qui a scusarmi, ma vengo a ricever castigo della mia colpa, se lo merito; se non, perdono e cortesia.
Capitano. Limoforo, se non volete aver pietá di lui, abbiatela di suo padre: usateli qualche cortesia.
Limoforo. Ma che cortesia potrá sperar da me, s’egli m’ha offeso nell’onore, ché so che questa notte non avrá dormito? Mi dispiace nell’alma d’usargli discortesia. Ma ditemi, che ho da fare?
Giacomino. Eccomi a pagar quell’offesa con quel pagamento con che soglionsi pagare simili offese.
Limoforo. Ditemi questi pagamenti.
Giacomino. Io dal primo giorno ch’io vidi la bellezza, l’onestá, i costumi e un tesoro di tanti meriti e di tutte le grandezze della natura in vostra figlia, feci un fermo proposito, averla per moglie; né mai mi cadde pensiero contaminar la candidezza della sua onestá d’una minima macchia; e or disprezzo e aborrisco la vita avendo a viver senza lei, e son tutto disposto e confirmato in questo pensiero, che o mi la concediate per isposa o che m’ammazziate qui or ora. Eccomi qui genocchione, eccovi il petto e la gola: prendete quella vendetta che vi piace. E se forse vi par che per nobiltá o ricchezza non ne sia degno, ne sono almen degno per il grande amor che le porto.
Limoforo. Giacomino, converrebbe che voi perdeste la vita in pago di tanto ardimento; ma questo libero procedere con me fa che con voi ancor liberamente proceda: come avete voi del grande in cosí grande eccesso, cosí voglio io ancora aver del grande in perdonarvi; e come uomo che stimate l’onor mio, cosí voglio ancor io stimar la vostra vita.
Giacomino. Ed ancora io voglio aver del grande: di cotanto perdono restarvene in tutta la vita obbligatissimo.
Limoforo. E vo’ che ancora voi abbiate del grande in perdonare a me, che abbi commandato a prendervi prigione; ché, or sapendo le rare qualitá che in voi sono, come gentiluomo di onor che sète, considerate che in cosa dove vi sia l’onore, non si porta rispetto a persona alcuna.
Giacomino. Ma che non fa amore? rompe le leggi, supera ogni difficoltá e fa che non si miri a nulla.
Limoforo. Capitano, lascia costui e lega quest’altro che, avendo usurpata la mia persona, per cotal mentita merita un degnissimo castigo.
Giacomino. Carissimo Limoforo, poiché avete perdonato la mia offesa, convien anco perdonar l’offesa di colui che v’ha offeso per mia cagione. Questo mio caro amico ha posto la vita e l’onor suo in periglio per aiutar me; il quale, per posseder per moglie la vostra amatissima figlia, m’ha servito per istrumento quando io avea posto in disperazione la terra per non perderla.
Limoforo. Poiché l’ingiuria che m’ha fatta è riuscita in mio grandissimo onore, e ho conosciuta la mia carissima figlia, come cagione della mia felicitá vo’ che se gli perdoni. Capitano, liberate quest’altro che vo’ che non solo sia libero ma che ancor mi sia carissimo amico, perché non è piccola cosa aver un tal per amico né aver un tal per inimico.
Pseudonimo. Io non so se tanto debbo vergognarmi delle cose passate quanto rallegrarmi delle cose presenti. Ma come potrò mai sciorme di tanto obligo dove oggi m’avete posto? Io me ne vo con un monte d’obligo sopra le spalle, pregandovi mi porga occasione di tormelo da dosso; mi parto.
Pedante. La dolcedine delle recensite parole di tutti m’hanno invaso di tanta tenerezza che giá succresce il foco che m’avevano acceso negli inflammabondi precordi.
Giacomino. Ma in tanti oblighi ch’io v’ho non isdegnate che vi s’accresca quest’altro, di venir a mio padre per impetrar da lui grazia ch’abbi passati e rotti i confini dell’obedienza, e dargli questa ultima sodisfazione di aver tolto moglie senza sua licenza.
Limoforo. Faccisi quanto s’estende il mio potere in servirvi. Andiamo a vostro padre.
Giacomino. Eccolo che vien fuori.
SCENA V.
Limoforo, Giacoco, Giacomino, Pedante.
Limoforo. Giacoco, presentiamo vostro figlio dinanzi a voi, acciò voi ne siate giudice d’aver a punirlo o liberarlo.
Giacoco. Io no saccio la cosa commo è iuta: sciarvogliatemi lo gliuómmero dallo capo, ca po ve responderaggio.
Limoforo. Vostro figlio a tempo che studiò a Salerno, s’innamorò di mia figlia stimata allora figlia d’un maestro di scuola; e sapendo ch’oggi veniva in Napoli per passare in Roma e che doveva alloggiare al Cerriglio, trasformò la vostra casa in taverna con l’aiuto d’un suo servitore chiamato Cappio, ...
Giacoco. Chisto è lo cunto dell’uorco!
Limoforo. ... dove fe’ alloggiar mia figlia. Voi poi tornando da Posilipo, bisognò che la taverna mutasse faccia; e venendo il maestro poi per alloggiar con la figlia, lo scacciar da casa con occasione; e restò mia figlia sola e sola con vostro figlio: ben sapete che il diavolo mai dorme. Io sapendo questo fui al Regente della Vicaria; ebbi ordine si cercasse la casa vostra e si pigliasse prigioniero vostro figlio, se ne facesse atto publico, né si procedesse alla consueta e solita giustizia. Ecco, lo poniamo a voi, prigione; sappiamo quanto siate uomo da bene: giudicatelo voi, ché ne restaremo tutti contenti della vostra sentenza.
Giacoco. Patrone mio, Bossignoria co ssa cera d’emperatore m’ave affattorato, e me potite commannare a bacchetta. Considerate ca no aggio autro figlio che chisso, ca è stato lo cacanidolo di tutti li figli mei.
Limoforo. Né io ho altra figlia che costei.
Giacoco. Iacoviello mio, cheste negregate cose ca me fai ntennere, me spertosano lo core. Ih, sse belle cose! Io pensava ca tu studiassi a Ribando; mò abbesogna che studia a Paolo che te castre, a far le biscazze. Che se ne puozza scendere commo a fiore de cocozza!
Giacomino. Padre, ho errato, lo conosco; ma se miraste la bellezza, l’onestá e i nobili costumi d’Altilia, ivi vedreste la colpa e la discolpa dell’error mio; e in questa elezione son stato piú fortunato che saggio.
Giacoco. Poiché le cose passate non ponno tornare dereto, abbesogna remediare lo meglio che se pote. Io lo remetto a Bossignoria; e la supplico ca, se isso ha mancato de descrizzione, Bossignoria, faccia mescoliata mia!, non mancate de compassione.
Limoforo. Io non son per mancargli di compassione se non mi si mancherá di dovere da vostra parte: ben sapete le sodisfazioni che si cercano in simili offese.
Giacoco. Bella faccia mia, te puoi nformare in chesta cittate ca dintro lo parentato mio no nc’è quarche chiavettiere o sosomellaro; se no te sdigni d’apparentare co mico, io te lo do pe schiavuottolo ncatenato. Iacoviello, figlio mio, io voglio ca te nzuri a gusto toio, pur che essa sia femmena onorata e te dia buona dote.
Giacomino. Padre, troppo sarebbe cara l’onestá, se l’onestá di tutte le donne fossero come l’onestá d’Altilia mia.
Giacoco. Parlammo mò della dote, che è la ionta dello ruotolo; ché l’oro nnaura e noropella tutti li defietti delle mogliere, che se fosse brutta, desonorata, sopervia e fastidiosa, l’oro la fa parer bella e complitissima.
Limoforo. Io li darò dote quanto saprá dimandarmi, che non ho altra figlia.
Giacomino. Ed io troppo torto farrei all’infinito tesoro delle sue qualitá, se cercasse altra dote che la sua persona: poco o nulla è la mia qualitá al suo gran merito.
Giacoco. Ti dico che ne zeppolie ssa bona dote, che è autro che bellezzetudine.
Giacomino. Padre, per questa disubedienza che ho fatto in aver preso moglie senza vostra ubedienza, l’emendarò con una continua osservanza di servitú e di amore fin alla morte; e il medesimo a mio suocero: ma tanto piú grande quanto meno conosco di meritarla.
Giacoco. Iacoviello mio, co ssa mostra d’affezione e con cheste parole nzuccarate, m’hai addociuta la collera che m’avea nzorfato lo core. Io te fo erede di tutta la mia robba che val piú di quarantamila ducati.
Limoforo. Veramente in questo amore s’è portato troppo da leggiero.
Giacoco. No se rascione chiú delle cose passate; perché ognuno vuole scusare le sue rascioni e accrescer quelle del compagno, e cosí l’ingiurie si vengono a rinfrescare: da mone nnante non se ne parie chiú.
Giacomino. Padre, m’avete a fare un’altra grazia, di perdonare a Cappio, perché io l’ho sforzato a fare quanto s’è fatto. E se Pseudonimo falsificò la sua persona, tutto fu per mia cagione. Né si può dire inganno, anzi tutto è stato fatto per forza d’amore: onde poi è riuscito in cosí buon successo che Limoforo abbi ricuperata la sua figlia, Antifilo non abbi preso per moglie la sorella, il maestro libero di non aver a dotar e maritar la figlia, anzi ricevuto il compenso delle sue fatiche, e io arricchito di cosí gran tesoro.
Giacoco. Si perdoni a tutti, che nquesta commune allegrezza non resti alcun discontiento; se bene è stato no piezzo de catapiezzo d’aseno.
Pedante. «Mihi gaudeo, tibi gratulor» — disse Cicerone, — o mi Iacobule, del mirifico amore portato alla mia sobole.
Giacoco. Figlio, chiama la mogliera toia, ca poi che avimmo stancate l’orecchie in ausoliare le virtute soie, si rallegrino gli uocchi di vederela.SCENA VI.
Giacoco, Giacomino, Altilia, Pedante, Limoforo, Antifilo.
Giacoco. O che bello piezzo de femmena, o che uocchi cennarielli, o che faccia vasarella, o che bocca cianciosella, o che labri mozzicarielli, o commo è iocarella e broccolosa! Iacoviello mio, la state chesta te fará frisco commo na rosa e d’invierno t’a tiene pe na coperta. E perché non la basi? non bidi ca chella bocca dice: basame, basame?
Giacomino. Padre, la bacio mille volte per ora con la bocca del core.
Giacoco. Iacoviello mio, appiendi na cepolla squillitica alla fenestra soia e pastenace la valleriana, che no ce pozzano le ianare per la nvidia. E tu, Aurelia mia, ama Iacoviello mio, ca la bellezza toia l’ha tanto spertosato lo core che ne sta tutto scarfato e spronamentato.
Altilia. Egli non è mal cambiato di amore; ché non tanto egli m’amò con buona intenzione, com’io l’ho amato con buona volontá.
Giacomino. O vita mia, se morisse ora, morrei contentissimo per morire in tanta gioia, accioché il mondo con le sue aversitá non ci meschiasse poi il suo amaro, come suol far spesso nelle cose d’amore.
Altilia. Ed io vorrei morir mai per godermi di sí compita felicitá.
Giacoco. Orsú, pozza essere alla bon’ora.
Giacomino. O giorno felicissimo e chiaro, che sei nato da cosí oscura e infelicissima notte!
Antifilo. O sorella, quanto devi ringraziare il Cielo che mi fosti cosí disamorevole e ingiuriosa con tanti improperi; ché se benigna mi fosti stata, avendoti poi riconosciuta per sorella, mi saresti stata amara e acerbissima: e chi può opporsi a’ gran secreti del Cielo? Onde le speranze dell’amor mio fin qui nodrite nel core, or che sorella mi sei, mi sono in tutto e per tutto spente e sparse via.
Altilia. Fratello carissimo, or si spenga l’amor della carne e da oggi innanzi divenghi amor di sangue.
Pedante. Antiphile mi, tarde venisti.
Limoforo. Figlia, sei stata tanti anni senza padre; or in un punto n’hai acquistati tre: l’un vero che son io, l’altro falso che s’era fatto me, e il maestro che t’ave allevata come padre.
Altilia. Poiché io non posso esser figlia se non d’un padre, amerò voi con quel vero amore che dee amare un’amorevole e obedientissima figlia; il maestro che m’allevò con tanta caritá e affetto paterno, l’amerò con un perpetuo obligo di servitude; il finto padre, come istrumento della mia felicitá, l’amerò con amor verissimo e non finto.
Limoforo. Maestro mio, per riservirvi in parte l’obligo grande che vi tengo di avermi allevata la mia figlia con tanto dispendio e amore, restarete in casa mia, voi e la balia: ove sarete padroni come son io, e sarete serviti e amati con quell’amore ch’avete amata e servita la figlia mia, mentre che viverete; né vi sia bisogno piú di gir a Roma, che giá sète in etá di riposarvi e no straziarvi per viaggio e nelle letture, e vi servirá mia figlia come v’ha sempre servito.
Pedante. Maximas vobis ago gratias.
Giacoco. Iacoviello mio, veo ca d’allegrezza no capi dintro la pelle, e stai cannapierto a mirare sta faccia strellecata e lenta e penta de mogliereta, e te par mill’anni di parpezzare no poco e darli quattro vasi a pizzichini e farle quattro bruoccole. Trasitenne e mprenamella sta notte a no bello nennillo.
Giacomino. Poiché le ricchezze che non si spendono nei bisogni, sono miserie e povertadi, però vorrei invitar tutti questi questa sera a casa nostra.
Giacoco. Perdòname se te spezzo parola a bocca, ca non ce voglio spendere manco na spagliocca: chisse ne reppoleiano na mangiata e nui restammo affritti e negrecati.
Giacomino. Mi tengo a grande incontro non invitarli.
Giacoco. E nui facciamole na bona nzalata, no pignatto de foglie torzute, no sanguinaccio e na meuza zoffritta.
Pedante. Or che siamo tutti alacri e ridibondi, chiaminsi i musici, e con sibili tonanti e con belle circumvoluzioni di choree s’onori questa copula matrimoniale.
Giacomino. Sí bene, chiamiamo suoni per i balli.
Giacoco. Basta no vottafuoco, na cètola, no calascione e no zucozuco.
Giacomino. Ci rimediarò ben io.
Giacoco. Auscutatori miei, perché site perzune da bene e me date onore per le vertude vostre, veo ca ve ascevolite de famme. Per darve sfazzione, se volite venire a ciancoliare co nui cosí auto auto, a primo vi cacciarimmo innanzi dui uocchi de tunno, poi vi cacciarimmo lo fecato, le stentine e lo core de puorco, e ve arrostarimmo dintro no fumo na bella porcella, e vi friarrimo dintro na tiella na bona frittata, e vi bollerimmo dintro no pignatto na foglia maritata, e ve menozzarimmo tutta la carne co la mostarda, e allo dereto ve annegarimmo dintro votte de vino; tal che ve ne iarriti alle case vostre tutti senza uocchie, fecati, stentine e pormoni, arrostiti tutti e bolliti, menuzzati e annegati.
Pedante. Spectatores, valete et plaudite.
fine del volume primo.