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384 la tabernaria

SCENA IV.

Capitano, Giacomino, Pedante, Limoforo, Pseudonimo.

Capitano. Limoforo, eccovi Giacomino che, senza ch’io lo meni prigione, egli da se stesso viene ad imprigionarsi.

Giacomino. Io non vengo qui a scusarmi, ma vengo a ricever castigo della mia colpa, se lo merito; se non, perdono e cortesia.

Capitano. Limoforo, se non volete aver pietá di lui, abbiatela di suo padre: usateli qualche cortesia.

Limoforo. Ma che cortesia potrá sperar da me, s’egli m’ha offeso nell’onore, ché so che questa notte non avrá dormito? Mi dispiace nell’alma d’usargli discortesia. Ma ditemi, che ho da fare?

Giacomino. Eccomi a pagar quell’offesa con quel pagamento con che soglionsi pagare simili offese.

Limoforo. Ditemi questi pagamenti.

Giacomino. Io dal primo giorno ch’io vidi la bellezza, l’onestá, i costumi e un tesoro di tanti meriti e di tutte le grandezze della natura in vostra figlia, feci un fermo proposito, averla per moglie; né mai mi cadde pensiero contaminar la candidezza della sua onestá d’una minima macchia; e or disprezzo e aborrisco la vita avendo a viver senza lei, e son tutto disposto e confirmato in questo pensiero, che o mi la concediate per isposa o che m’ammazziate qui or ora. Eccomi qui genocchione, eccovi il petto e la gola: prendete quella vendetta che vi piace. E se forse vi par che per nobiltá o ricchezza non ne sia degno, ne sono almen degno per il grande amor che le porto.

Limoforo. Giacomino, converrebbe che voi perdeste la vita in pago di tanto ardimento; ma questo libero procedere con me fa che con voi ancor liberamente proceda: come avete voi del grande in cosí grande eccesso, cosí voglio io ancora aver del grande in perdonarvi; e come uomo che stimate l’onor mio, cosí voglio ancor io stimar la vostra vita.