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atto quinto 389

SCENA VI.

Giacoco, Giacomino, Altilia, Pedante, Limoforo, Antifilo.

Giacoco. O che bello piezzo de femmena, o che uocchi cennarielli, o che faccia vasarella, o che bocca cianciosella, o che labri mozzicarielli, o commo è iocarella e broccolosa! Iacoviello mio, la state chesta te fará frisco commo na rosa e d’invierno t’a tiene pe na coperta. E perché non la basi? non bidi ca chella bocca dice: basame, basame?

Giacomino. Padre, la bacio mille volte per ora con la bocca del core.

Giacoco. Iacoviello mio, appiendi na cepolla squillitica alla fenestra soia e pastenace la valleriana, che no ce pozzano le ianare per la nvidia. E tu, Aurelia mia, ama Iacoviello mio, ca la bellezza toia l’ha tanto spertosato lo core che ne sta tutto scarfato e spronamentato.

Altilia. Egli non è mal cambiato di amore; ché non tanto egli m’amò con buona intenzione, com’io l’ho amato con buona volontá.

Giacomino. O vita mia, se morisse ora, morrei contentissimo per morire in tanta gioia, accioché il mondo con le sue aversitá non ci meschiasse poi il suo amaro, come suol far spesso nelle cose d’amore.

Altilia. Ed io vorrei morir mai per godermi di sí compita felicitá.

Giacoco. Orsú, pozza essere alla bon’ora.

Giacomino. O giorno felicissimo e chiaro, che sei nato da cosí oscura e infelicissima notte!

Antifilo. O sorella, quanto devi ringraziare il Cielo che mi fosti cosí disamorevole e ingiuriosa con tanti improperi; ché se benigna mi fosti stata, avendoti poi riconosciuta per sorella, mi saresti stata amara e acerbissima: e chi può opporsi a’ gran secreti del Cielo? Onde le speranze dell’amor mio fin qui nodrite nel core, or che sorella mi sei, mi sono in tutto e per tutto spente e sparse via.