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atto quinto 387


Giacoco. Iacoviello mio, cheste negregate cose ca me fai ntennere, me spertosano lo core. Ih, sse belle cose! Io pensava ca tu studiassi a Ribando; mò abbesogna che studia a Paolo che te castre, a far le biscazze. Che se ne puozza scendere commo a fiore de cocozza!

Giacomino. Padre, ho errato, lo conosco; ma se miraste la bellezza, l’onestá e i nobili costumi d’Altilia, ivi vedreste la colpa e la discolpa dell’error mio; e in questa elezione son stato piú fortunato che saggio.

Giacoco. Poiché le cose passate non ponno tornare dereto, abbesogna remediare lo meglio che se pote. Io lo remetto a Bossignoria; e la supplico ca, se isso ha mancato de descrizzione, Bossignoria, faccia mescoliata mia!, non mancate de compassione.

Limoforo. Io non son per mancargli di compassione se non mi si mancherá di dovere da vostra parte: ben sapete le sodisfazioni che si cercano in simili offese.

Giacoco. Bella faccia mia, te puoi nformare in chesta cittate ca dintro lo parentato mio no nc’è quarche chiavettiere o sosomellaro; se no te sdigni d’apparentare co mico, io te lo do pe schiavuottolo ncatenato. Iacoviello, figlio mio, io voglio ca te nzuri a gusto toio, pur che essa sia femmena onorata e te dia buona dote.

Giacomino. Padre, troppo sarebbe cara l’onestá, se l’onestá di tutte le donne fossero come l’onestá d’Altilia mia.

Giacoco. Parlammo mò della dote, che è la ionta dello ruotolo; ché l’oro nnaura e noropella tutti li defietti delle mogliere, che se fosse brutta, desonorata, sopervia e fastidiosa, l’oro la fa parer bella e complitissima.

Limoforo. Io li darò dote quanto saprá dimandarmi, che non ho altra figlia.

Giacomino. Ed io troppo torto farrei all’infinito tesoro delle sue qualitá, se cercasse altra dote che la sua persona: poco o nulla è la mia qualitá al suo gran merito.

Giacoco. Ti dico che ne zeppolie ssa bona dote, che è autro che bellezzetudine.