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390 | la tabernaria |
Altilia. Fratello carissimo, or si spenga l’amor della carne e da oggi innanzi divenghi amor di sangue.
Pedante. Antiphile mi, tarde venisti.
Limoforo. Figlia, sei stata tanti anni senza padre; or in un punto n’hai acquistati tre: l’un vero che son io, l’altro falso che s’era fatto me, e il maestro che t’ave allevata come padre.
Altilia. Poiché io non posso esser figlia se non d’un padre, amerò voi con quel vero amore che dee amare un’amorevole e obedientissima figlia; il maestro che m’allevò con tanta caritá e affetto paterno, l’amerò con un perpetuo obligo di servitude; il finto padre, come istrumento della mia felicitá, l’amerò con amor verissimo e non finto.
Limoforo. Maestro mio, per riservirvi in parte l’obligo grande che vi tengo di avermi allevata la mia figlia con tanto dispendio e amore, restarete in casa mia, voi e la balia: ove sarete padroni come son io, e sarete serviti e amati con quell’amore ch’avete amata e servita la figlia mia, mentre che viverete; né vi sia bisogno piú di gir a Roma, che giá sète in etá di riposarvi e no straziarvi per viaggio e nelle letture, e vi servirá mia figlia come v’ha sempre servito.
Pedante. Maximas vobis ago gratias.
Giacoco. Iacoviello mio, veo ca d’allegrezza no capi dintro la pelle, e stai cannapierto a mirare sta faccia strellecata e lenta e penta de mogliereta, e te par mill’anni di parpezzare no poco e darli quattro vasi a pizzichini e farle quattro bruoccole. Trasitenne e mprenamella sta notte a no bello nennillo.
Giacomino. Poiché le ricchezze che non si spendono nei bisogni, sono miserie e povertadi, però vorrei invitar tutti questi questa sera a casa nostra.
Giacoco. Perdòname se te spezzo parola a bocca, ca non ce voglio spendere manco na spagliocca: chisse ne reppoleiano na mangiata e nui restammo affritti e negrecati.
Giacomino. Mi tengo a grande incontro non invitarli.
Giacoco. E nui facciamole na bona nzalata, no pignatto de foglie torzute, no sanguinaccio e na meuza zoffritta.