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388 | la tabernaria |
Giacomino. Padre, per questa disubedienza che ho fatto in aver preso moglie senza vostra ubedienza, l’emendarò con una continua osservanza di servitú e di amore fin alla morte; e il medesimo a mio suocero: ma tanto piú grande quanto meno conosco di meritarla.
Giacoco. Iacoviello mio, co ssa mostra d’affezione e con cheste parole nzuccarate, m’hai addociuta la collera che m’avea nzorfato lo core. Io te fo erede di tutta la mia robba che val piú di quarantamila ducati.
Limoforo. Veramente in questo amore s’è portato troppo da leggiero.
Giacoco. No se rascione chiú delle cose passate; perché ognuno vuole scusare le sue rascioni e accrescer quelle del compagno, e cosí l’ingiurie si vengono a rinfrescare: da mone nnante non se ne parie chiú.
Giacomino. Padre, m’avete a fare un’altra grazia, di perdonare a Cappio, perché io l’ho sforzato a fare quanto s’è fatto. E se Pseudonimo falsificò la sua persona, tutto fu per mia cagione. Né si può dire inganno, anzi tutto è stato fatto per forza d’amore: onde poi è riuscito in cosí buon successo che Limoforo abbi ricuperata la sua figlia, Antifilo non abbi preso per moglie la sorella, il maestro libero di non aver a dotar e maritar la figlia, anzi ricevuto il compenso delle sue fatiche, e io arricchito di cosí gran tesoro.
Giacoco. Si perdoni a tutti, che nquesta commune allegrezza non resti alcun discontiento; se bene è stato no piezzo de catapiezzo d’aseno.
Pedante. «Mihi gaudeo, tibi gratulor» — disse Cicerone, — o mi Iacobule, del mirifico amore portato alla mia sobole.
Giacoco. Figlio, chiama la mogliera toia, ca poi che avimmo stancate l’orecchie in ausoliare le virtute soie, si rallegrino gli uocchi di vederela.