La sposa persiana/Nota storica
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NOTA STORICA
Nel 1753 il Goldoni, scioltosi dall’impegno col capocomico Girolamo Medebach, che era durato cinque anni, firmava un contratto per dieci anni col N. U. Antonio Vendramin, proprietario del teatro di S. Luca. L’abate Chiari, che per qualche disgusto col Vitalba e col Sacchi si era sdegnosamente tratto in disparte, ricompariva più aggressivo che mai, proprio in quell’ottobre, sul teatro di S. Angelo, succedendo al rivale come poeta ai servigi della compagnia Medebach. Le due prime commedie che il Goldoni arrischiò in quell’autunno, il Geloso avaro e la Donna di testa debole (vol. X della presente ed.), caddero malamente: i suoi nemici erano cresciuti di numero e gioirono apertamente della sua sconfitta; si rinfocolava la lotta delle due fazioni teatrali: il Goldoni aveva bisogno d’un trionfo, e lo ottenne pieno e clamoroso con la Sposa Persiana.
Da quando il dottor Veneziano aveva riconosciuto il proprio genio comico, non aveva più scritto nè tragedie, nè opere sceniche, tolto il Nerone, nel ’48, che più non si conserva (v. V. Malamani, Nuovi appunti e curiosità goldoniane, Venezia. 1887, pp. 207-211. Anche nei Notatorj di P. Gradenigo leggesi in data 6 genn. 1748 M. V.: “Nel T. di S. Angelo li Comici recitarono il Nerone, composto dal Dr. Carlo Goldoni, il quale con un suo aviso stampato giustificò il suo modo di componere”). Ma questa volta aveva immaginato una vera e propria tragicommedia, campata in un finto Oriente, per la quale gli parve adattatissimo il verso martelliano che nel ’51 aveva fatto una prova fortunata nel Molière (vol. VII). Come fosse indotto a un tentativo ripugnante un pochino alla sua coscienza di artista, l’autore ci spiega nelle Memorie. Prima di tutto gli attori non erano abbastanza istruiti, non erano preparati alle novità introdotte dal Goldoni. Poi la sala del teatro di S. Luca era molto vasta: “Les actions simples et délicates, les finesses, les plaisanteries, le vrai comique y perdoient beaucoup„. Inoltre bisognava assolutamente attirare l’attenzione e il favore del pubblico, “imporsi„ con uno spettacolo straordinario (“par des actions qui, sans être gigantesques, s élevassent au-dessus de la Comédie ordinaire "), fare uno sforzo per insediarsi con onore nella nuova sala dove la riforma del teatro comico doveva condursi al suo completo svolgimento (“où je devois avancer la réforme„ dice Goldoni, “et soutenir ma réputation„: Mém.es, P. 2, ch. XVII).
Non era nuovo il soggetto. “C’est ce qu’ on voit tous les jours dans nos Pièces: une demoiselle fiancée à un jeune homme qui a le coeur prévenu pour une autre„ (l. c., ch. XVIII). Vecchia storia, nella vita, nel teatro, nel romanzo. La novità consisteva dunque, osserva l’autore, nel travestimento orientale, nello scenario, nelle vesti, nei costumi: “et tout ce qui est étranger doit exiter la curiosité”, Bisogna tuttavia ricordare che Turche e Persiane si trovavano qua e là nella Commedia dell’Arte e che il melodramma, o sia l’opera per musica, non aveva esitato nella sua sconfinata libertà a fare addirittura un balzo tra i figli del Cielo: nel 1707 a Venezia si recitava il Taican re della Cina del trivigiano Urbani Ricci, nel ’35 lo stesso Metastasio componeva una breve azione teatrale, i Cinesi, e nel ’52 l’Eroe Cinese, recitato senza musica anche nel teatro di S. Samuele. Questo falso colore e splendore d’Oriente, la turquerie, come dicevano i Francesi, aveva già trovato fortuna oltralpi, non solo nelle fantasmagorie dei teatri della Fiera e del Teatro Italiano, bensì nella severa tragedia di Racine e di Voltaire. Gli esempi della Zaira (1732), dell’Alzira (’36), della Zulima (’40) e del Maometto (’41) erano presenti al Goldoni e ai suoi contemporanei: le due prime non soltanto erano state tradotte in italiano e recitate nei teatrini di società, ma si applaudirono vivamente nel teatro pubblico a Venezia (v. pref. del Goldoni all’ed. Bettinelli, e G. Ortolani, Settecento, 1905, non edito, p. 409. - Più di recente cfr. Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII - Saggio bibliografico di Luigi Ferrari, Paris, Librairie Ed. Champion, 1925: ai nomi citati). Una tragedia cinese, I Taimingi, aveva composto Pier Jac. Martelli, edita fin dal 1715. L’Oriente trionfava da tempo nelle novelle, nei romanzi, nelle lettere (pseudoepistolari). L’amore crescente dei viaggi e delle cognizioni geografiche, più particolarmente etnografiche, favoriva tale tentativo del Goldoni nella commedia: a Venezia lo stampatore Pasquali pubblicava nel 1737 il testo francese del gran Dizionario geografico di La Martinière, nel ’51 il Pitteri aggiungeva nuovi articoli alla diciannovesima edizione del Dizionario storico e geografico del Moreri, il Valvasense imprendeva la versione della Storia generale dei viaggi di Prévost (con l’aiuto di Gaspare Gozzi), l’Albrizzi fin dal I731, faceva tradurre sull’ed. d’Amsterdam la Storia moderna o sia Stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo di Tommaso Salmon, correggendo e allungando l’opera dell’autore inglese, rifatta dal Van-Goch. Nel volume XX, uscito sulla fine del ’53, che contiene la descrizione del Dominio Veneto, ed è quasi tutto originale, non manca una parola di lode al riformatore della Commedia Italiana, Carlo Goldoni (pag. 86). Proprio nel tomo V dell’edizione veneziana apprese il dottor veneziano, per sua confessione (Mem.es l. c.), a conoscere i costumi persiani.
Il teatro comico, dissi anche altra volta, obbediva del resto, come il melodramma e la tragedia, in Italia e altrove, al capriccio e al bisogno di variare e rinnovare la materia. Anche i balli, interposti alla commedia o separati, fin dai tempi di Molière, e prima, avvezzavano pubblico e teatro alle fogge esotiche. Riso e satira rompevano dal contrasto dell’Oriente e dell’Occidente, come al Settecento piaceva: i nomi strani de’ personaggi parevano creare una bizzarra mascherata per il carnovale del Settecento. Le Lettere persiane di Montesquieu, le cinesi di D’Argens, le peruviane della signora Graffigny e altre moltissime ebbero in Europa uguale fortuna (vedasi Maria Ortiz, Commedie esotiche del Goldoni, Napoli, 1905, estratto dalla Rivista Teatrale Ital., pp. 13 sgg.). Al desiderio e all’attività dell’uomo europeo sempre più angusti parevano i confini del vecchio continente: i viaggi, le esplorazioni, le descrizioni de’ paesi, le intere raccolte di viaggi popolarmente narrati, gli studi e i testi di geografia, le mappe sciolte, o riunite col pomposo titolo di atlanti, crescevano, si moltiplicavano, si diffondevano dall’uno all’altro periodo del secolo decimcttavo. Nessun lembo del suolo terrestre voleva restare oscuro alla conoscenza. E però il teatro compiva a modo suo l’ufficio sociale, obbedendo alla legge stessa del romanzo (Della vita e dell’arte di C. Gold., Venezia, 1907, pp. 72-73).
Ma l’Oriente e il verso martelliano non bastavano a un trionfo sicuro: dietro l’esempio degli Spagnoli, degli Inglesi, ma specialmente dei “Francesi moderni”, come afferma nella prefazione (v. a pag. 121), pensò il nostro avvocato veneziano di introdurre nella commedia la passione. Ricordate le parole di Voltaire al signor Farkener, in testa alla Zaira? e quelle che scriveva nel ’32 all’amico Formont? Un po’ di passione non poteva disconvenire neppure alla commedia, purché si evitasse il pericolo di cadere nel genere eroico, come nel Seicento: e la passione avrebbe trascinato il pubblico.
Con tali infallibili mezzi, abilmente usati, il Goldoni riportò la desiderata vittoria, forse al di là della sua stessa speranza. Per qualche tempo a Venezia fu un vero delirio. La nuova attrice Caterina Bresciani, dalla “bella voce sonora”, fu una terribile e irresistibile Ircana. Ebbe i suoi applausi perfino la cinquantenne Teresa Gandini (Fatima). Piacque l’Angeleri nel personaggio di Osmano. Ma grandissime risa strappò Pietro Gandini nelle parti caricate della vecchia Curcuma. Per trentaquattro sere, trionfo inaudito, si susseguirono le recite (v. lettera di dedica, pag. 115). I versi della Sposa Persiana si ripeterono a memoria per la città, si trascrissero nei palchetti: corsero in giro miserabili copie e infelici frammenti manoscritti della commedia: si stampò, dicesi a Napoli, un’edizione piena di spropositi, che penetrò di furto sulle lagune (v. pref.). Fra quelli che più calorosamente battevano le mani, incontriamo il nobiluomo Giorgio Baffo, che fu poi ammiratore e partigiano fanatico del Chiari.
Cito sta tal Comedia, per ch’ho da far con vu,
E questa è el vostro Nume, che no se va più in su:
gli diceva in tono di rimprovero il giovine patrizio Ferdinando Toderini (cod. Cicogna 2395, Museo Civico di Venezia, carta 29).
E il Goldoni stesso, con aria più umile, scendendo a difendere dalle critiche dello sconcio poeta vernacolo il Filosofo inglese:
Baso la man che ha scritto, la man che se dà vanto
D’aver alla Persiana godesto, e sbattù tanto (I. c., carta 3).
All’Apologia del Dottor C. Goldoni replicò subito con una Risposta, pure in distici martelliani, S. E. Baffo (ed. da C. Musatti, che la tolse dal cod. Correr 349, in Rivista Teatr. Ital., a. XIII, fasce. 6, nov. - dice. 1914. Io riferisco fedelmente dal cit. cod. Cicogna):
Sento ch’el se stupisse che mi sia andà ogni sera
A la Sposa Persiana e po ho voltà bandiera;
ma come avrebbe trattenuto il proprio entusiasmo?
La Commedia Persiana xe piena d’accidenti,
Ghe xe i gran bei caratteri, e tutti concludenti.
L’è bella dal principio, l’è bella sin al fin,
Gh’è verità, gh’è intrezzo, el verso xe divin.
Ghe xe scene de forza, discorsi da imparar:
Amori che interessa, e che fa innamorar.
La parlata di Osmano a la so putta è così piena di insegnamenti, che raccoglie in poco tutta la morale:
Ghe xe quei bei discorsi che fa el pare del sposo.
Fra i altri quel del pranzo che xe molto gustoso.
E quella schiava Ircana?
Digo del so carattere dove rapresentada
Xe cussì vero al vivo la donna innamorada.
Quando la sposa Fatima la va in accidente, il padre suo si perde in un discorso troppo lungo, è vero, ma come si rinuncerebbe a un tal squarzo de belle reflession?
In somma
Questa delle Commedie la xe un model perfetto,
La virtù xe premiada, el vizio xe corretto.
Tutte le azion se vede, che le gh’à terminà,
E l’Uditor se parte contento e consolà.
L’ardore del Baffo dalla commedia risaliva all’attrice Caterina Bresciani, alla quale il nobiluomo dedicò due sonetti punto belli, ma sempre osceni (Raccolta Univ. delle Opere di G. Baffo Veneto, Cosmopoli. 1789, t. I., pp. 126 e 127: col titolo Loda una Commediante). Nel primo dice:
Cosa me piase quella Donna Ircana,
L’aziona molto ben, la xe pur brava!
Se puol far meggio da superba schiava.
Che voggia comandar, ma da Sovrana? ecc...
Quando che ’l so Paron po la dà via,
Me vien su tanta rabbia, che me par,
Che per comprarla schiavo me faria ecc...
Il secondo comincia:
Co vedo quella schiava a far l’amor
Co quella gran superbia all’Oriental,
Partecipo anca mi del so furor,
Che me par che farave un criminal ecc...
Un altro poeta del tempo si mostra innamorato, almeno per quattordici versi, della bella Fiorentina (cit. cod. Cicogna, carta 124):
Schiavo son d’una schiava, io lo confesso ecc.
Un altro pensò piuttosto di celebrare frugonianamente l’autore (l. c., carta 115: Al Dottor C. Goldoni Autore della Commedia intitolata La Sposa Persiana):
Per te, Carlo, sen van l’Adriache scene ecc.
Ma non tutti erano egualmente soddisfatti, non tutti trovavano da lodare. Per esempio il conte Stefano Carli da Capodistria, che era stato a Costantinopoli e che perciò poteva dettare la sua autorevole sentenza, scriveva il 3 novembre 1/53 al cugino marchese Gravisi: "... Da S. Luca diretto dal Goldoni ebbi la Commedia intitolata la Sposa Persiana, del tutto nuova. Sono stato interessatissimo di vederla, per aver inteso ne’ pubblici Caffè le diverse opinioni; onde io che avevo un motivo più forte degli altri per poterla più esattamente giudicare, trattandosi di costumi orientali, la volli con infinita attenzione sentire. L’intreccio fu di mio genio, poiché vi trovai dell’ordine e della concatenazione, quantunque qualche episodio fosse superfluo. Circa il costume persiano, ché di volerlo rappresentare questa fu l’idea dell’autore, oh qui per Dio ci trovai dei radeghi non pochi. Da infinite persone fu chiesta la mia opinione; e come la mia sincerità e pura verità mi hanno suggerito, non ho mancato certamente di notificarla a chiunque” (v. Baccio Ziliotto, C. G. e l’Istria, in Palvese, 24 febbr. 1907). Forse per questo, dopo lungo ondeggiare, prendeva parte nel gennaio seguente per il Chiari: “lo finalmente mi son dichiarato per Chiarista” (I. c.).
Più spassionato, per quanto lo consentivano i tempi, si mostra l’anonimo autore delle Osservazioni critiche sopra le commedie nuove fatte dalli S.ri Goldoni e Chiari in quest’anno 1754 (edite in Appendice da G. Ortolani, Della vita e dell’arte di C. G., cit.: dal detto cod. Cicogna). Anche costui confessa:
L’é stada una Comedia, che ha fatto del gran chiasso,
Che gà molto de bon, che a mi no m’ha despiasso...
Là gran decorazion, là scena bella immobile,
I abiti alla Persiana, vestiario ricco e nobile.
Sto far straordinario a molti gà incontrà,
Se sa che qua in Venezia piase la novità.
Ma l’anonimo non si lascia abbagliare da simili incanti.
No la m’ha incontrà tanto perchè ghò visto drento
Certe cossette improprie, che m’à lassà scontento.
Enumera tali difetti. Prima di tutto
Una schiava in la Persia tanto arrogante el fa
Che al so Patron contrasta la Sposa che i ghe dà...
Trova però, come anche il Baffo, qualche attenuante.
E vero che so fio ghe voi tanto gran ben
Che supera a una schiava l’amor che ghe convien;
Ella che lo conosce, la vede che l’è al caso,
El gà della passion, la ’l mena per el naso.
Ma insomma
El pensar de Persiani dal nostro è differente.
Anche quella sposa Fatima
L’è savia e l’è prudente, la gà tanta umiltà
Che temo che in la Persia i ghe diria viltà.
E poi troppa erudizione fuori di posto:
Insegnar costa sia el caffè a un Persian,
L’è istesso che insegnar i risi a un Venezian.
Perfino Machmut, quando corregge il figlio, ha la pazienza di spiegargli quale pena gli darà. Ma una colpa più grave rischia di commettere il Goldoni nell’offendere la morale.
De Curcuma in la parte, a dirvela qua schietta,
Ghe xe qualche parola che xe licenziosetta.
L’autor forsi dirà: Curcuma mi l’ho fatta
Per che ghe vuol qualcossa, che cava la risata.
Ma ghè molte maniere de far rider la zente.
Senza toccar l’onesto facendo l’indecente.
Contro Curcuma lanciò un sonetto caudato anche l’abate dottor Giuseppe Cherubini, detto Chiribiri, poeta granellesco e planomaco, molto amico dei due Gozzi, il quale incomincia: “Nella gran Sposa Persiana immortale. Una vecchiaccia ha introdotto l’Autore...” (v. Poesie Bernesche dell’Autore dei Miei Pensieri, Venezia, Graziosi, 1767, pag. 109). Del resto bisogna concludere, continua l’anonimo,
Cavada dalla Persia no la gà più defetto,
E la Comedia è degna de quel bell’intelletto.
Me par de veder Tamas un ferro alquanto ruzene
Che xe tegnù dal favro tra ’l martello e l’ancuzene.
L’idea del tutto è rara, l’è quel che se pol far,
E per chi ben intende gh’è molto da imparar.
A questa e ad altre critiche porse orecchio il Goldoni (che nella se. 8 del terzo atto si era fieramente lagnato degl’" indegni " e “scellerati satirici cantori”) e si difese davanti al pubblico, come già il Molière, in una scena del Festino (a. II, sc. 12), ultima commedia recitata in quell’anno comico (v. vol. XI, pp. 55-57). Madama Doralice poteva a ragione vantare
Eppure è un’opra tale, che trentaquattro sere
Ha sempre fatto gente, e a tutti diè piacere.
Non basta conoscere i serragli di Costantinopoli:
L’autor di quei di Persia dipinto ha il ver costume.
Dai viaggiatori ha preso norma, consiglio e lume.
Poteva bensì risparmiare il discorso sul caffè, ma quella comicissima e “linguacciuta” di Curcuma vuol divertire Alì. Molti condannano l’amore improvviso di Fatima, ma
Chi parla in guisa tale, mostra che le sia oscura
La condizion di donna chiusa fra quattro mura.
Quanto poi all’Ircana, guai a chi la tocca I esclama argutamente Doralice Bresciani:
Se mi toccate Ircana, io fremo come un angue:
lo trovo il suo carattere bellissimo, perfetto.
Mille volte al poeta io dissi: oh benedetto!
Se questo bastò a far tacere un pochino i coetanei del Goldoni, nulla servì presso i posteri. Nel fondo della sua coscienza il commediografo veneziano non si sentiva tranquillo. Nella Risposta al Baffo, mettendo da vicino la Sposa Persiana e il Filosofo Inglese, affermava
Questa gha più sostanza, e quella più apparenza.
La sua erudizione persiana, che ingombra tanta parte della commedia e che ci riesce oggi insopportabile, era, si può dir, tutta quanta attinta dal vol. V (1735) dello Stato presente ecc., come notò con un diligente esame la signorina Maria Ortiz (l. c., p. 39 e sgg.): egli traduce talora liberamente in goffi settenari la goffa prosa della versione italiana (cfr., per esempio, atto III, sec. 3, e Stato presente, t. V, pp. 218-219). I nomi stessi di Machmut, di Tamas, di Curcuma ecc. si trovano qua o là nelle pagine del fido autore; quello di Fatima è anche nell’Alzira di Voltaire. Si direbbe che perfino l’argomento gli fosse suggerito da quelle parole che la Ortiz pure addita: “...Infelicissima è quella Moglie, che prende amore al Marito, perchè, oltre il dolore di vedersi posposta ad una Schiava ecc. ecc.” (t. V, p. 357). Che leggesse anche i famosi viaggi di Chardin (Londra, 1686 e Amsterdam, 1711) o quelli di Pietro Della Valle (Roma, 1658 e Venezia, 1664), non pare.
Ma nulla poteva capire dell’Oriente il nostro Goldoni, e nulla capivano, come sappiamo, i contemporanei. Anche se fosse tornato allora allora dalla Persia, la sua descrizione non sarebbe stata più viva. Egli non avrebbe letto nell’anima dei popoli orientali, non avrebbe saputo rappresentarci quel paesaggio, quei costumi, quel mondo. Questa sensibilità artistica di ciò che chiamiamo orientale od esotico, comincia a svegliarsi proprio quando il Goldoni ritraevasi ormai dal teatro. Tuttavia il poeta avrebbe potuto creare lo stesso un capolavoro drammatico: ma la Sposa Persiana appare oggi, accanto alla Zaira o all’Alzira di Voltaire, una misera fantocciata. Nessuno dei personaggi rivive per un momento solo in nessuna di quelle scene. Nè Tamas, nè Fatima, nè Ircana sanno esprimere una sola parola di vero amore. Siamo precipitati di nuovo dalla Locandiera nel Belisario, dalle creazioni delle Donne gelose e dei Pettegolezzi ai miseri artifici delle Griselde e degli Enrichi, dalla realtà più vivace alla più fredda falsità. Solo la bella voce di Caterina Bresciani poteva incantare nei delirii di Ircana i cuori dei Veneziani. Peggio ancora ci irrita col suo riso banale la vecchia Curcuma, che l’autore introdusse per poter conservare il titolo di commedia ai suo mostro poetico.
Il quale a sua volta ne generò tanti altri e godette di fortuna non effimera a Venezia e fuori. Nel 1756 Francesco Griselini scriveva in testa alla sua “commedia turca”, la Schiava nel serraglio dell’Agà de’ Giannizzeri in Costantinopoli: “Al Sig. Goldoni, il quale al nostro Teatro Italiano ha saputo recare l’antico suo splendore, si ha obbligazione, dirò così, di questa specie di scoperta nell’Arte Comica, di cui egli ne diede un nobilissimo saggio colla sua Sposa Persiana, Commedia che meritevolmente ottenne gli elogj e gli applausi delle Persone di qualunque ordine, ed in ogni città d’Italia, ove dopo Venezia fu esposta su le scene”. Per qualche tempo durò una specie di fanatismo. I patrizi veneziani vollero goderne perfino durante la villeggiatura. “Nella villa di Codego” nota il Gradenigo (in data 19 ottobre 1754) “in una stanza del palazzo del Senatore Garzoni da giovani nobili e cittadini si recitò la Sposa Persiana di Goldoni”. La fama arrivò fino a Vienna: il cavaliere Pietro Correr, ambasciatore colà della Serenissima, desiderò di averla. “Fui onorato di un tal comando” ricorda il Goldoni nella dedica delle Donne di casa soa (vol. XII, p. 425) “dalla Nobilissima Dama l’Eccellentissima Signora Maria Querini Correr, degnissima Vostra Sposa, ed io nelle mani di sì gran Dama non ho tardato a depositarla”. All’autore pareva adatta perfino alle monache (v. il capitolo stampato tra i Componimenti poetici per la N. D. Chiara Vendramin, monaca in S. Zaccaria ecc. Venezia, 1760: rist.° nel t. II, 1768, dei Componimenti diversi):
L’onestà, per esempio, e el bel talento
Della Sposa Persiana, e el bon costume,
No saria da sprezzane in tun convento.
E in fatti leggiamo ancora nei Notatorj del Gradenigo (11 Maggio 1755): “Nel pio luogo della Ca’ di Dio il Doge permette che a divertimento ai quelle cameriste e signore si reciti un’operetta intitolata la Sposa Persiana dalle educande”. E dieci anni dopo (8 genn. 1765): “All’Ospedaletto presso SS. Gio. e Paolo, due Putte di mediocre bellezza, e fresca età, per loro diletto recitano con altre Donne la tanto famosa comedia, intitolata la Sposa Persiana”. Il Chiari non fu lento a imitare il rivale, secondando il proprio istinto. “Lo strepito che fece in quell’anno medesimo la Sposa Persiana del Sig. Dottor Goldoni m’invogliò” dice nella prefazione del tomo X delle sue Commedie in versi “di mettere a gara su’ teatri nostri la gran novità de’ costumi Chinesi, che del pari eccitasse la curiosità del Pubblico ecc. Le speranze mie non caddero a quella volta deluse”. La Schiava Chinese fu replicata “per quattordici sere continue con isterminato concorso” nel teatro di Sant’Angelo, l’autunno del 1753, e fu seguita nel carnovale del ’54 dalle Sorelle Chinesi, che superarono la loro compagna “nella strepitosa accoglienza” (l. c., pag. 5). Pur troppo la moda delle commedie orientali dilagò fino a Lucca (v. l’Jspana in Tauris-Abas del patrizio Ottaviano Diodati, in Bibl.ca Teatrale Ital-, t. X, Lucca, 1764), fino a Napoli, dove il Cerlone si fece fortunato alunno del Chiari, ma infierì per qualche tempo ancora a Venezia (nel 1759 si recitò a S. Luca Il Fakir del Mogol del marchese Ferd. Obizzi di Padova, che scrisse pure Le Donne Circasse, Il Sofì Mirza e altre scempiaggini) dove servì a preparare il palcoscenico e il pubblico alle fantasmagorie delle Fiabe del conte Carlo Gozzi.
La Sposa Persiana tornò spesso sulle scene di S. Luca. Non è vero che vi recitassero i coniugi Landi, come afferma nelle Notizie istoriche de’ Comici Italiani Francesco Bartoli (e ripetè il Rasi), poiché restarono col Medebach nel teatro di Sant’Angelo. Partito per Dresda il Gandini con la moglie, nel 1755, sottentrò applauditissimo nelle parti di Curcuma il bolognese Giuseppe Lapy (v. Antonio Piazza nel romanzo intitolato Il Teatro, Venezia, 1777, t. I, p. 13: cit. anche da Rasi, I Comici Italiani, vol. II, p. IO). Dopo un intervallo abbastanza lungo fu ripresa nel carnevale del 1765 e si recitò per tre sere di seguito. A un tale che domandava se la Sposa Persiana appartenesse al 1752 o al ’53, un altro rispondeva nel numero 32 del Diario Veneto, affermando senz’altro che la prima recita fu il 31 ottobre del 1752 (sic) perchè in quella sera memorabile “nel Palco n. 7 e 8 del secondo ordine gli fu rubbato un cappello orlato d’oro”. Certo fece il giro di quasi tutte le città d’Italia, non soltanto delle maggiori. A Modena, p. es., la troviamo nel Collegio di S. Carlo nel cam. del 1758 e in quello del 1762 (Modena a C. Goldoni, Modena, 1907, p. 237). Nel 1765, a detta del Bartoli, si festeggiò a Livorno, nella Sposa Persiana, l’attrice Margherita Gavardina Cotei, nata Galletto. Nel 1780 nella compagnia Battaglia, al teatro S. Gio. Crisostomo di Venezia, “vi rinnovò i trionfi della Bresciani” Chiara Cardosi (Rasi, l. c., vol. I, p. 590). Nel gennaio del 1788 una solenne rappresentazione ebbe luogo nelle magnifica Accademia degli Orfei e gli interpreti principali furono il marchese Francesco Albergati, vecchio amico del Goldoni, il conte Alessandro Pepoli e la famosa dama Teresa Venier (v. Gazzetta Urbana Veneta, 1788, num. 7); nell’aprile del medesimo anno la Sposa Persiana si replicò nel teatrino privato del conte Pepoli, nel palazzo Cavalli a S. Vitale (ivi, num. 30). Se ne ricavò anche un dramma giocoso in 3 atti, e si rappresentò con musica di Felice Alessandri al S. Samuele nell’autunno del 1775 (C. Musatti, Drammi musicali di Goldoni e d’altri ecc. Venezia, 1898). Ma intanto la tragicommedia goldoniana era stata tradotta e recitata, fin dal 1759, sul teatro di Vienna (Die persianische Braut, Wien, 1759 e 1763: cfr. L. Mathar, C. Goldoni auf dem deutschen Theater des XVIII Jahrhunderts, Montjoie, 1910, pp. 44-46 e 57); e altre recite e traduzioni vantava essa in Ispagna (a Barcellona e a Madrid: v. Spinelli, Bibliografia goldoniana, Milano, 1884, p. 250; Napoli Signorelli, Storia critica dei teatri ecc., Napoli, 1777, p. 430; e Maddalena, Moratin e Goldoni, estratto dalle Pagine Istriane, II, 1905, p. 2). Più tardi fu tradotta in lingua portoghese fa Lisbona, 1792: v. Catal. generale della Raccolta dramm.ca it. di L. Rasi, Firenze 1912).
Non senza meraviglia, un anno circa dopo il Burbero, vediamo comparire la vecchia favola sulle tavole della Comédie Italienne, a Parigi. Lasciamo la parola a Melchiorre Grimm che ne dava notizia nella sua segreta Corrispondenza letteraria, in data 1 ottobre 1772: “On donna sur le même théâtre, le 25 du mois dernier, la première représentation de la Sposa Persiana, comédie héroïque en vers et en cinq actes, par M. Goldoni. Je ne sais si M. Goldoni a fait cette pièce depuis qu’ il est en France, mai c’est une de ses meilleures pièces. On m’assure qu’ elle est imprimée dans ses Oeuvres, quoique je ne aie pas trouvée dans les volumes où je l’ai cherchée. Cela me dispense d’en faire ici une analyse en forme. On n’a point idée de la manière détestable dont toutes les rôles, à celui de Colalto près, ont été joués. Le séjour des Italiens en France leur a fait oublier jusqu’ à la déclamation de leur langue naturelle; et comme ils ne sont pas accoutumés à reciter des rôles appris par coeur, et encore moins des vers, il n’y a point de village en Italie, où l’on n’eût joué cette pièce mieux qu’ à Paris. Après cela, on ne peut s’étonner que cet essai de nous enrichir d’un nouveau genre ait été absolument malheureux. Mais cela ne prouve rien contre la pièce de M. Goldoni, qui m’a paru un bel ouvrage, et, ce qui n’est pas commun chez lui, un ouvrage bien écrit, autant qu’ il m’a été possible d’en juger en l’entendant estropier par nos acteurs d’une manière révoltante” (ed. Tourneur, t. X, 1879, pp. 70-71). Questo giudizio dell’amico del Diderot, benevolo oltre il solito e oltre misura, meriterebbe qualche commento: il critico tedesco imbrancato tra i filosofi francesi ha preso anche questa volta un dirizzone sul conto del Goldoni. Bachaumont si accontenta di dire che la Sposa Persiana ebbe scarso successo (Mémoires secrets, 26 sett. 1772) e il pubblico preferì la parodia che se ne fece col titolo L’Epouse bergamasque (Rabany, C. Goldoni, Paris, 18%, p. 353). Il Favart, amico di Goldoni, sembra dividere l’ammirazione di Grimm per per quest’opera condotta secondo le regole del teatro (Mémoires et correspondances littéraires dramatiques, Paris, 1808: v. Maddalena, Gold. e Favari, in Ateneo Veneto, anno XXII, 1899, vol. I, p. 215).
Anche dopo la morte dell’autore, la Sposa Persiana tornò qualche volta sui teatri veneziani: così, per esempio, il 9 ott. 1796 a S. Gio. Grisostomo (comp. Battaglia: v. Giorn. dei Teatri di Ven., in Teatro Moderno applaudito), il 26 luglio 1801 a Sant’Angelo (comp. Pellandi, l. c.) il 21 e il 23 sett. 1802 a S. Giov. Grisostomo (comp. Menichelli: Giornale dei teatri comici di Ven. di Velli e Menegatti), il 13 febbraio 1803 a S. Luca (comp. Fabrichesi e Gnocola: l. c.), l’8 febbraio 1804 a S. Gio. Grisostomo (c. s.), nell’inverno 1806 nel teatro filodrammatico ai Ss. Filippo e Giacomo (cod. Cicogna 3367, già di Gio. Casoni, presso il Museo Civico), ai 10 e 11 dicembre 1820 a S. Benedetto (comp. Modena: Giorn. dei teatri comici, in Bib.ca teatrale ital. e straniera), ai 23 settembre nel 1828 teatro Gallo a S. Benedetto (comp. Modena: Gazzetta Privilegiata di Venezia), agli 11 febbraio 1832 a S. Luca (comp. Modena e soci, I. c.). Nel 1823 era nel repertorio della compagnia Reale Sarda, a Torino (v. Costetti, La Comp. Reale Sarda ecc. Milano, 1893, p. 34). “Grande nella parte di Machmut” riusciva Giacomo Modena (Rasi, I Comici Italiani, II, 504). Ultimo, o fra gli ultimi interpreti, fu Luigi Duse.
Contro la Sposa Persiana sfogò a lungo i suoi sarcasmi e le sue contumelie il più accanito avversario del commediografo veneziano, il conte Carlo Gozzi, proprio l’autore delle Fiabe! Qua e là nei suoi versi satirici (v. sonetti berneschi, Canto Ditirambico, Canto della Sposa Persiana, I Sudori d’Imeneo poemetto ecc.), nei suoi libelli in prosa, nel Ragionamento ingenuo preposto alla stampa delle composizioni teatrali, nella Più lunga lettera che sia stata scritta (1801) in fine delle sue Opere edite ed inedite, e nel tomo primo delle Memorie inutili, ci colpisce il ricordo di Ircana. Il conte Gozzi insorge sopra tutto in nome della morale, contro le “immodeste espressioni” e gli “osceni equivoci” di Curcuma (Opere, t. XIV, p. 121. Confessa nella prefazione il Goldoni, v. qui a pag. 120, di aver purgato “di qualche equivoco” la sua commedia, prima della stampa); e non vede nella Sposa Persiana “che un cattivo specchio di poligamia pemizioso, e che un’oppressione della virtù” (t. I, p. 55). Caratteristico il Canto camescialesco della Sposa Persiana, che comincia: “Io son Fatima Persiana, - Sposa a Tamas, Finanziere, - Chiedo panni, e pane, e bere, - S’io non vo’ far la p...” (t. VIII, ed. Colombani, 1774, pp. 234-237). Anche cotesto linguaggio non è purgatissimo. Nè “gridava” meno, a detta del conte Gozzi, contro questa e le altre “commedie romanzesche” (le Pamele, il Filosofo Inglese, la Scozzese) Giuseppe Baretti, “come di cose piene di assurdi, d’immodestie, incoltissime, e scritte con un goffa stomachevole locuzione” (Opere, t. XIV, p. 85). Altri, come Giulio Trento (Della Commedia, Trevigi, 1768, p. 53) e come l’autore del Teatro, diario mensuale per il mese di febraro 1788 forse lo stesso Trento), più giustamente trovavano sforzato e inopportuno il riso comico di Curcuma. Più tardi il Menegazzi trovò da che dire dei costumi persiani “rappresentati così superficialmente” che “appena si riconoscono per quelli ch’esser dovrebbono” (Della vita e delle opere di C. Gold., Milano, 1822, p. 131. Per contro il Pignatorre, un quarto di secolo prima, lodava enfaticamente le pitture americane e persiane del nostro commediografo: Elogio a C. Gold., Venezia. 1802, pp. 17 e 38); e con un linguaggio violento “che ricorda assai da vicino Carlo Gozzi,” come dice la Ortiz (I. c., pag. 64), esclama: “Che sono eglino mai quegli accidenti pieni di garbuglio, que’ padri che congedano i figli e le figlie loro con lunghi proverbj, che ora irragionevoli, ora bestiali, ora deboli, minacciano, strepitano, si sottomettono: quelle schiave che, in un serraglio di Persia ove regna il dispotismo solo, la fan da padrone, snudano pugnali, vogliono uccidere il proprio Signore, poi mutate senza ragione e fuor di natura diventano umili e pazienti, poi di nuovo inviperiscono; quelle spose che soffrono da un’arrogante schiava le più mortificanti parole; quelle Curcume sfacciate, mezzane, rapaci, vilissime?” (l. c., 130-1).
Nè molto più mite si mostra con le “commedie eroiche” Luigi Carrer:“Tre commedie di questo genere ebbero a’ loro giorni il maggior applauso dalla moltitudine veneziana, e tuttavia si ricordano con grande affezione dalla gente volgare. E facile a chi sia impratichito del teatro del Goldoni, l’accorgersi ch’io intendo parlare della Sposa Persiana, e delle due altre commedie che a quella tengono dietro. Chi volesse indagare il perchè dell’entusiasmo, con cui furono accolte appena comparvero sul teatro, avrebbe a considerare principalmente il bisogno in cui trovavasi la nazione di essere vivamente commossa da alcun che di stravagante, o per lo meno d’insolito”. E quindi spiega ed aggiunge: “Queste a mio gusto sono le men pregevoli fra le commedie che quel grand’uomo compose... Tornando col discorso alla Sposa Persiana, noi siamo ben lungi dal respirare le molli aure asiatiche, e dall’adagiarsi sui profumati soffà di quei voluttuosi visitri. Noi siamo bene lungi dall’ascoltare il linguaggio d’un popolo per natura focosissimo, e a cui la tempra del clima suggerisce alla mente le immagini più vive ed ardite. Niente, a mio parere, d. meno asiatico, e di meno persiano della Sposa Persiana di C. Goldoni. Chi tollera con pazienza quelle lunghe tiritere del padre, che congeda la figlia infilzando proverbi? Chi quella sguaiata, per non dir sordidissima, fantesca di Curcuma, appena appena comportabile in un cerchietto di sgualdrinelle disfatte? Forse alcun lampo di vera poesia v’ha nel carattere della bella schiava, ma quante volte non manca a se stessa? La sposa è la più insulsa sposa che possa immaginarsi. Infine io confesso, e forse m’inganno, queste sono tra le commedie di Goldoni quelle che veramente mi vengono a noja, per la discordanza dello stile col soggetto, del soggetto co’ personaggi, dei personaggi colla nazione cui appartengono” (Vita di C. Gold., t III. Venezia, 1825, pp. 105-108).
Più brevemente, ma troppo tragicamente, il Tommaseo lamenta il destino del Goldoni: “Eccolo condotto come di forza alla commedia esotica: ecco nascere le Spose persiane e le Pamele; sforzi d’ingegno abbandonato dagli uomini, tradito da’ tempi” (Storia civile nella letteraria, ed. Loescher, 1872, pag. 278).
Eppure qualcuno ancora si commoveva per Fatima e per Ircana, come per esempio il Gherardini (v. note aggiunte alla traduzione del Corso di letteratura drammatica di A.nota. Schlegel, t. II, Milano, 1817, p. 325), o come Francesco Salfi (Ristretto della storia della letter. ital., Firenze. 1848, p. 334). Ma la condanna scese ai giorni nostri recisa e precisa, senz’altro appello, sulla Sposa Persiana (v. Vemon Lee, che vi incontra pesantezza, volgarità, falsità: Il Settecento in Italia, voal. II, Milano, 1882, p. 282; E. Maddalena, Gold. e Favari, l. c.; G. B. Pellizzaro, La vita e le opere di C. Gold., Livorno, 1914, p. 43. A B. Schmidbauer, Das komische bei Goldoni, Munchen, 1906, p. 152, par di riconoscere ancora, beato lui!, Pantalone. Fiorindo e Rosaura in vesti persiane). Invano Virgilio Brocchi trova “non privi d’interesse” i “romanzi sceneggiati”, così li chiama, della trilogia persiana (C. Gold, e Venezia nel sec. XVIII, Bologna, 1907, p. 38); invano H. C. Chatfield Taylor scorge in queste pseudocommedie “un interessante contrasto fra i costumi d’Europa e d’Oriente” (C. Goldoni, New York, 1913, p. 442); invano il vecchio De Gubernatis, ingenuamente sedotto, consuma quindici pagine del suo volume su Goldoni per offrirci il riassunto e copiose citazioni, concludendo: “Se il metro martelliano non desse spesso al verso un atteggiamento più comico che drammatico, se, invece che in martelliani, la Sposa Persiana fosse stata scritta in endecasillabi, potremmo perciò avere l’illusione di trovarci col merito di non aver turbato l’andamento del dialogo con le ariette, innanzi ad uno de’ più caldi ed interessanti drammi metastasiani”. No, proprio no. E nemmeno questo è vero: “Gli effetti che vi si muovono in contrasto, l’intreccio interessante e l’animazione di alcuni caratteri sollevati a dignità eroica ci obbligano perciò a riconoscere nel nuovo drammaturgo, non solo un seguace, ma un emulo non infelice del Metastasio” (C. Goldoni, Firenze, 1911, p. 226). Goldoni e Metastasio! ecco due nomi che non si accordano: l’arte dell’uno è una cosa ben diversa, e sempre diversa, dall’arte dell’altro.
Fin dal 1882 Ferdinando Galanti era costretto a confessare: “Oggi i nomi stessi degli interlocultori non sarebbero più tollerabili. Chi potrebbe seriamente prestar attenzione a Machmut, Tamas, Curcuma... che recitano versi martelliani? I costumi, l’intreccio e la decorazione possono stuzzicare la curiosità del pubblico, ma nell’assieme son cosa fatua, artifiziata; vi è lo sforzo per ottenere l’effetto... Carlo Goldoni, il semplice Goldoni, in codesti drammi col viso truce, con un gran turbante, colla spada impugnata, mi pare un Otello da strapazzo” (C. Goldoni, Padova, pp. 228-229). Nel 1905 la signorina Maria Ortiz fece oggetto di studio diligente le Commedie esotiche del Goldoni, non con l’intento di risvegliarne la fama, bensì di illustrare un episodio della storia del teatro veneziano del Settecento. Dall’esame sereno della commedia, e delle cause che provocarono il suo trionfo in quel secolo, la Sposa Persiana esce spoglia d’arte e di vita, misera macchina d’orpello orientale, esposta alla semplice curiosità dei posteri.
Il Goldoni dedicò la stampa della Sposa Persiana, che preparò nel 1755 ma uscì soltanto nel ’57, a donna Maria Vittoria Ottoboni Boncompagni, nata nel 1721 a Roma da don Marco duca di Fiano, e sposa nel 1741 al maturo duca Gabrio Serbelloni di Milano. Brutta di volto ma intelligente e colta, già trentenne e madre di quattro figli maschi, di lei s’innamorò il giovane conte Pietro Verri (nato nel 1728) e per lei sostenne lunghe e aspre lotte coi genitori. Credo che proprio alla Serbelloni alluda il Verri nella lettera dei 9 ottobre 1767 al fratello Alessandro: “Io ho amato per la prima volta una donna, che aveva almeno dieci anni più di me, brutta come tu la conosci; per lei ho sofferto l’ira de’ parenti, solo ho saputo mancar di tutto ed espormi a tutto... Ho veduto tradita la mia buona fede, da un giorno all’altro scoppiò la mina, che clandestinamente s’era preparata; io rimasi abbandonato improvvisamente soppiantato da un cugino, che piantò poi lei” (Carteggio di P. e Al. Verri, Milano, Cogliatid, vol. I, parte 2’. p. 80. Vedi anche vol. I, parte I., pp. 16 e 424; vol. II, p. 267; vol. III, p. 176; vol. V, p. 100). Ma il Verri, come suol accadere, dimentica forse i torti suoi. Il salotto della Duchessa era “l’asilo de’ Poeti e de’ Filosofi, tanto nazionali come forestieri” dice enfaticamente l’abate Isidoro Bianchi nell’Elogio storico di P. Verri (Cremona, 1803, pp. 44-45). “Fu donna di animo fermo e buono” scriveva in età avanzata il Verri stesso, dopo sbollita ogni antica passione, “e aveva lo spirito corredato da una assai vasta lettura. Aveva una memoria eccellente, e rendeva buon conto di tutte le produzioni teatrali e di (sic) romanzi. Era capace d’amicizia, d’animo disinteressato e benefico. Se non fosse stata d’una vivacità di sentimento che talvolta la rendeva imprudente nel parlare, se non avesse aderito con facilità a tutti i consigli di qualche persona incautamente prescelta, sarebbe stata donna senza difetti” (nota edita dal Carducci, Il Parini maggiore, in Opere, Bologna, Zanichelli, vol. XIV, p. 211. Ne’ quattro anni che le fu assiduo amico, cioè dal 1751, come pare, al 1755, da lei confessava di aver appreso a conoscere “la bella letteratura francese”. Egli a sua volta “sul principio del 1754” le “inspirò il pensiero” di tradurre il teatro comico di Destouches (pag. 116 del presente vol.; cfr. Bianchi, l. c., pag. 62 e P. L. Ferri, Biblioteca Femminile Italiana, Padova, 1842, pp. 262-3); e la versione fu lodata dai giornali del tempo (vedi, per es., le Memorie per servire alla storia letteraria, Venezia, nov. 1754 e maggio 1755). Celebrò la Duchessa nel 1755 l’abate Pietro Chiari nella epistola martelliana con la quale dedicava a Midonte Priamideo, ossia al Verri, la Filosofia per tutti, lettere scientifiche in versi martelliani; ma deriso poi dal Verri stesso, si vendicò nel tomo IV del romanzo intitolato la Filosofessa Italiana, aggiunto nel 1756. La Serbelloni, cioè “madama Brescol, assistita nel gran lavoro dal suo servente il Sign. de la Reve”, è chiamata filosofessa “da scherzo” che “per aver materia da scrivere va a caccia d’avventure; e per trovare delle avventure va sempre a caccia d’amanti. Bisogna dire, che non sappia farsi amare niente meglio di quello che ella sa scrivere” insinua l’abate libellista “perchè gli amanti non le durano una stagione, e le memorie sue sono sempre finite, e si ricominciano ogni giorno da capo per migliorarle” (parte 11a, art. X). Il Goldoni la lodò anche nella prefazione della Donna volubile (t. VIII, 1755, delle Commedie, ed. Peperini: v. vol. VI della presente ed., pag. 357) e con un’epistola martelliana le dedicò nel 1756 una Raccolta di poetiche composizioni (ed. Venezia, 1757) per le nozze del duca Alessandro Ottoboni, nipote di Maria Vittoria, e della nobildonna veneziana Lucrezia Zulian (vedi F. Colagrosso, Un’usanza letteraria in gran voga nel Settecento, Firenze, Le Monnier, 1908, p. 112 e sgg. e A. G. Spinelli, Gli amici del Goldoni a Milano, in numero unico Pel 2° Centenario della nascita di C. G., pubblicato a Milano dal Teatro A. Manzoni, 25 febbr. 1907. pp. 26-27). Inoltre nel 1755 lo stampatore Francesco Pitteri di Venezia a lei dedicò le anonime Censure miscellanee sopra la Commedia, scritte contro l’abate Chiari da Stefano Sciùgliaga di Ragusa, che fu poi amicissimo del Goldoni.
Il Parini “entrò in casa Serbelloni a pena prete, nel ’54” dice il Carducci (I. c., pag. 18), quale precettore de’ figliuoli, e restò presso la Duchessa ancora due anni dopo che quelli erano passati al collegio imperiale (l. c. pag. 24), cioè fino all’autunno del ’62: non senza dispetto del duca Gabrio. Non sappiamo se l’abate brianzolo osasse sollevare i suoi grandi occhi neri in volto alla Duchessa. Certo uscì di quella casa dopo il famoso schiaffo della bollente Duchessa alla figlia del Sammartini, quando già rugumava nella villeggiatura di Gorgonzola gli sciolti del Giorno. Acuti dissidi fra donna Vittoria e don Gabrio erano scoppiati nel ’56, forse in quel tempo che la troppo vivace Duchessa, non doma dall’età, iniziava agli amori il giovinetto conte Giuseppe Gorani (v. Carteggio Verri cit, val. I, parte Ia, pag. 424, n. I). Il Carducci stampò qualche frammento delle sue lettere al figlio primogenito Giovan Galeazzo, dove si mostra fra l’altro invaghita, nel ’64, della Nuova Eloisaì e dell’Emilio di G. Rousseau “scrittore stravagantissimo, ma ingegno senza pari” (l. c., pag. 26). Più tardi la vediamo recitare la Ipermestra di Lemierre con la contessa e poetessa Paolina Suardo Grismondi (Lesbia Cidonia. - Vedi E. Rota, L’intesa intellettuale franco-italiana prima della Rivoluzione, in Rivista delle Nazioni Latine, I sett. 1917, pag. 58). Nel 1770 accettò la dedica di uno strampalato dramma, I Solitari, di Giovanni De Gamerra, da lei protetto (E. Masi, Sulla storia del teatro ital. nel s. XVIII, Firenze, 1891, pag. 315). Nel 1783 la procuratessa Caterina Dolfin Tron, ospite di Gian Galeazzo a Gorla, scriveva di lei al marito Andrea: “Ell’è una vecchia piena di fuoco” (E. Castelnuovo, Una dama veneziana del s. XVIII, “estratto” dalla Nuova Antologia, 15 apr. 1882, pag. 25; e P. Molmenti, Epistolari Veneziani del s. XVIII, Palermo, Sandron, 1915, pag. 178). Morì la Duchessa nel 1790. Questa lode certamente le è dovuta, che dal suo salotto uscirono i più liberi e arditi ingegni della vecchia Milano di Maria Teresa, come il Verri, il Parini, il Gorani. Lo stesso figlio Gian Galeazzo, nella follia della Rivoluzione, gittò la chiave di ciambellano e la corona di duca, fu membro del Direttorio Cisalpino, accompagnò galantemente da Parigi a Milano madama Beauharnais Bonaparte, e l’ospitò nel proprio palazzo (notizie e parole del Carducc., l. c., pag. 25 e dell’Albo Pariniano di G. Fumagalli, Bergamo, 1899, pp. 33-34).
Sulla Serbelloni v. anche F. Salveraglio, prefazione alle Odi dell’ab. G. Parini, Bologna, 1882, pp. XI, XII, XVI; L. Ferrari, Del “Caffè” Periodico Milanese del s. XVIII, Pisa, 1899, pag. 12; G. Mazzoni, Tutte le opere edite ed inedite di G. Parini, Firenze, Barbera, 1925, pp. 357, 491 e 1050 (a pag. 491 riferisce il famoso epigramma: “Cari figli non piangete, — Che, se nati ancor non siete, — Non potendo vostro padre, — Vostra madre vi farà”; e la nota del Reina: “Il marito della Duchessa Serbelloni Ottoboni, uomo burbero, erasi per un capriccio diviso di stanza dalla moglie. Il Parini, scrivendogli questo scherzo, gli trasse di capo il mal umore”); e molti altri. Sulla famiglia Serbelloni qualche notizia ci dà il Carducci, l. c., qualche altra si legge nell’Albo Pariniano cit. Sulla famiglia Ottoboni, a cui il Goldoni accenna, vedi il Nuovo Dizionario Istorico di Bassano, t. XIII, 1796; le Inscrizioni Veneziane del Cicogna, passim; e sopra tutto le Famiglie celebri del conte Litta.
G. O.